Perché le strade di Napoli continuano a collassare
Il problema delle voragini improvvise è ricorrente e viene da lontano, risultato della storia urbanistica della città che già anticamente venne costruita su una fitta rete di cave
Martedì mattina in via Pietro Castellino, nel quartiere napoletano dell’Arenella, si è aperta una voragine larga quasi un metro al centro della strada. La polizia locale e i vigili del fuoco hanno transennato la zona a rischio e chiuso il traffico in un senso di marcia, complicando la situazione in un quartiere già piuttosto caotico. A Napoli succede molto di frequente che ci siano voragini nelle strade, più delle altre città italiane. Soltanto nelle ultime settimane se ne sono aperte tre, di cui una molto estesa e profonda nel quartiere del Vomero. Le origini di questi collassi sono diverse e vengono da lontano: anche se sarà impossibile risolvere i problemi una volta per tutte, il comune di Napoli sta cercando di capire come prevenirli.
Da due settimane gli abitanti di un condominio di via Raffaele Morghen, nel quartiere del Vomero, non possono rientrare nelle loro case. Mercoledì 21 febbraio un albero e due macchine sono finite dentro una voragine larga una decina di metri e profonda cinque: le persone al bordo sono rimaste ferite, non in gravi condizioni. Soltanto negli ultimi giorni il palazzo di via Morghen è stato riallacciato alla rete fognaria. Manca solo un’ultima certificazione prima di permettere agli abitanti di tornare nei loro appartamenti. Gli operai del comune sono al lavoro anche nella zona della voragine per riempirla e sistemare la strada, secondo le previsioni ci vorranno settimane.
Il comune e la società Acqua Bene Comune (ABC), che gestisce la rete idrica della città, sono intervenuti per rassicurare gli abitanti di via Morghen, dopo che un centinaio di loro avevano protestato domenica 3 marzo, in piazza Vanvitelli, per chiedere di tornare nel palazzo. Hanno chiesto tra le altre cose un controllo più accurato del sottosuolo per evitare nuovi crolli.
Napoli è la città italiana più soggetta allo sprofondamento improvviso del terreno. Le voragini sono chiamate tecnicamente sinkholes antropogenici (in italiano conosciute anche come “doline”) e sono dovute principalmente alla presenza di un’estesa e fitta rete di cunicoli nel sottosuolo e all’insufficiente rete di smaltimento dell’acqua piovana e delle acque fognarie.
I cunicoli sotterranei non sono altro che piccole e grandi cave sfruttate fin dall’antichità. Nel 2010 il servizio di sicurezza geologica del comune di Napoli ne censì circa 900 per una superficie complessiva di 60 ettari, 600mila metri quadri. Queste cave venivano utilizzate per l’estrazione di materiali da costruzione, in particolare il tufo giallo napoletano, e per usi idraulici. L’apertura di cave di tufo giallo venne fatta per molti secoli nelle colline di quartieri come Pizzofalcone, Vomero e Capodimonte che circondano il primo insediamento greco-romano.
Durante il periodo del viceregno aragonese, nel Cinquecento, i costruttori sfruttarono le cave in modo intensivo per rifare le mura della città, sistemare molte strade, costruire i quartieri spagnoli (fu un periodo di grande incremento demografico). Dal Settecento, inoltre, iniziò a diffondersi l’abitudine di scavare cave e recuperare materiale dal sottosuolo per costruire grandi chiese, ora tra gli edifici più a rischio.
Anche l’espansione urbanistica avvenuta dalla fine dell’Ottocento e per tutto il Novecento fu molto intensa. Le cave vennero aperte sempre più lontane dal centro urbano: ai piedi della collina di Posillipo, nell’area dei Camaldoli e dei colli Aminei. Partendo dal centro, la progressiva espansione delle zone abitate coinvolse man mano aree dove in passato erano state scavate cave, poi riempite solo parzialmente. La conseguenza di questo sfruttamento secolare del territorio è la presenza nel sottosuolo di un numero molto elevato di cavità nella maggior parte del territorio cittadino.
Oltre alle cave, la parte sotterranea di Napoli è attraversata da una rete di acquedotti scavata per portare l’acqua in città. I più antichi sono l’acquedotto della Bolla, l’acquedotto Claudio e l’acquedotto del Carmignano. Ci sono poi gallerie e cunicoli di collegamento che risalgono al periodo romano in particolare tra il centro, il quartiere di Pozzuoli e l’area di Posillipo. Con una diffusione così estesa di cavità sotterranee più o meno grandi basta la perdita dalla rete fognaria o da una conduttura dell’acqua per erodere il terreno e creare voragini nelle strade. Il rischio è maggiore durante precipitazioni intense perché la rete di smaltimento delle acque piovane non è efficiente.
Le prime segnalazioni di voragini aperte improvvisamente nelle strade di Napoli risalgono al Settecento. La prima censita è del 1728, quando durante un’alluvione si aprì un’enorme voragine nel quartiere Sanità. Il collasso delle strade si intensificò poi negli anni dell’espansione edilizia, nella seconda metà del Novecento. Nei tre anni dal 1966 al 1969 furono segnalate oltre 60 tra voragini, crolli e sprofondamenti. Morirono in totale 11 persone, ci furono anche 400 feriti oltre a migliaia di sfollati. Scrisse nel 1973 Giuseppe Perrone Capano, all’epoca deputato del partito liberale:
Al Vomero, dove i palazzi sono stati costruiti uno addosso all’altro senza soluzione di continuità, le voragini sono frequenti e sempre provocate dalla rottura del vecchio collettore fognario Montella che taglia perpendicolarmente le strade della collina. Tre anni fa franò un tratto di via Aniello Falcone. Si spalancò una bocca che inghiottì il farmacista Alfredo Cerrato. Il suo corpo trascinato a valle dai detriti fu ritrovato dopo tre giorni.
Negli ultimi trent’anni sono stati fatti diversi censimenti delle cavità sotterranee per individuare i punti più a rischio di crolli. Uno dei più recenti e importanti è stato realizzato dall’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, con dati aggiornati al 2012.
La scorsa settimana il comune di Napoli ne ha commissionato uno nuovo per ottenere una mappatura tridimensionale del sottosuolo. Saranno utilizzati strumenti come i georadar, cioè dispositivi che consentono di individuare oggetti e strutture nel sottosuolo grazie alla riflessione delle onde elettromagnetiche. I risultati saranno poi incrociati con i censimenti realizzati finora per avere un quadro più completo possibile. L’obiettivo del comune è avere informazioni più dettagliate e aggiornate per individuare le aree più a rischio e capire come intervenire prima del collasso.