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  • Mercoledì 6 marzo 2024

A Glastonbury nel 1995

Il libro di Luca De Gennaro sulle rivoluzioni musicali degli anni Novanta racconta il festival più leggendario del pop britannico e una sua edizione particolare

Una foto del pubblico a Glastonbury, ma del 2004 (Matt Cardy/Getty Images)
Una foto del pubblico a Glastonbury, ma del 2004 (Matt Cardy/Getty Images)
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Luca De Gennaro ha sentito, visto, frequentato, più musica di quasi tutti. Fa il giornalista musicale, il deejay, il conduttore radiofonico, da quasi mezzo secolo, ha tuttora un programma quotidiano su Radio Capital, e ha un repertorio enorme di aneddoti da raccontare. L’anno scorso aveva preso quelli sugli anni Ottanta e li aveva messi in un libro intitolato Pop life. Adesso invece si è dedicato agli anni Novanta, con Generazione alternativa, in cui ha messo con la sua versatilità la musica diversa della prima metà di quel decennio che ha potuto frequentare di persona, dai Nirvana ai REM ai Public Enemy a Frankie hi-nrg mc, e a tutte le cose nuove che la musica sparse anche fuori dalla musica in quegli anni. In un capitolo racconta una delle edizioni più memorabili del più seguito festival musicale europeo, a Glastonbury in Inghilterra, con gli Oasis protagonisti.

(Luca De Gennaro presenterà il suo libro con Corrado Fortuna dentro al festival Pensavo Peccioli domenica 10 marzo)

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Ci sono un francese, un tedesco e un italiano…
Sembra l’inizio di una barzelletta, e invece è esattamente quello che sta succedendo oggi, a mezzogiorno del 22 giugno 1995, su un bus partito da Londra e diretto a Pilton, nel Somerset. Ci sono anche un giapponese, un turco, un greco, un polacco e tanti altri. La Bbc, radio e tv ufficiale del più grande festival musicale inglese, che dall’anno scorso lo trasmette anche in diretta tv, quest’anno ha deciso di invitare un rappresentante per ognuna delle radio con cui collaborano. I miei compagni di viaggio sono, come me, conduttori radiofonici e giornalisti musicali che arrivano da tutto il mondo. A tutti, i colleghi della Bbc hanno detto solo: «Trovati a mezzogiorno del 22 giugno davanti alla sede della Bbc a Londra, al resto ci pensiamo noi». E, in effetti, hanno pensato a tutto. Intanto, si dorme in hotel e non in tenda, che non è poco, considerando che la pioggia e il fango sono una specie di simbolo di questo festival, e che il rischio è sempre altissimo, tanto che, per precauzione, mi sono portato degli scarponcini robusti ma anche un paio di scarpe di tela leggere, non si sa mai.

Ogni mattina, dopo colazione, il pulmino ci carica davanti all’albergo e ci scodella mezz’ora dopo direttamente nel backstage del festival, abbiamo accesso praticamente ovunque, e alla fine dell’ultimo concerto ci riportano a casa. Sulla strada dall’hotel noto, guardando dal finestrino, che i cartelli stradali, quelli permanenti, con le frecce, i sensi vietati eccetera, si riferiscono proprio al festival, indicano ingressi e parcheggi, insomma, stanno lì tutto l’anno per un evento che dura tre giorni. È un segnale dell’importanza fondamentale dell’evento per il territorio che lo ospita, dove stanno arrivando quasi centomila persone, con centoventidue artisti pronti ad alternarsi sui tanti palchi, per festeggiare l’edizione numero venticinque del festival.

Tutto è cominciato negli anni Cinquanta, quando il giovane contadino inglese Michael Eavis, nato e cresciuto nel villaggio di Pilton, alla scomparsa del padre si trova a gestire, a soli diciannove anni, centocinquanta acri di terreno e sessanta mucche. La sua Worthy Farm produce essenzialmente latte e latticini. Nella sua vita, la musica entra solo attraverso la radio e il suono dei campanacci delle mucche. Nel 1969, Michael assiste con sua moglie Jean al festival blues di Bath, rimane folgorato dalla performance dei Led Zeppelin e pensa: «Se lo fanno qui, potrei farne uno anche sul mio terreno». L’anno dopo, nel 1970, nasce il Glastonbury Fayre, con una manciata di band tra cui i più famosi sono i T. Rex, che si esibiscono di fronte a un pubblico di millecinquecento persone. Quei millecinquecento, anno dopo anno, sono diventati quasi centomila, e quest’anno si festeggia il venticinquesimo anniversario. Ma attenzione, venticinque anni non significa venticinque edizioni, perché Michael Eavis è pur sempre un allevatore, uno che nel resto dell’anno cura e nutre i suoi animali, la cui vita dipende dal ciclo della natura, e quindi, per lui, il suo terreno è sacro. Ecco perché, ogni sei o sette anni, Glastonbury salta un giro e il festival non si tiene, per permettere al terreno di riposare e rimineralizzarsi, e alle mucche di brucare tranquille. Si chiama «fallow year», l’anno di pausa, in italiano «anno a maggese».

Per festeggiare il giubileo di «Glasto», come lo chiamano amichevolmente i fan, Michael Eavis, che oggi ha sessant’anni, ha fatto le cose in grande. Per esempio, c’è un nuovo, sontuoso palco principale, il cosiddetto Pyramid Stage. Il palco a forma di piramide è il simbolo più riconoscibile di questo festival. Ispirato dalle piramidi egizie di Giza, fu costruito per l’edizione del 1971, perché quella forma, dicono, attira e canalizza l’energia delle stelle e del sole e trasmette vibrazioni positive. L’anno scorso, solo dieci giorni prima del festival, un terribile incendio aveva distrutto completamente il palco. In pochi giorni erano riusciti a metterne in piedi uno di emergenza, e quest’anno quindi si inaugura un nuovo, spettacolare, tecnologico Pyramid Stage, accanto al quale hanno eretto una lunghissima pala eolica che produce centocinquanta kilowatt di energia pulita. Perché qui si rispetta il pianeta e si cerca di limitare ogni tipo di inquinamento.

Un’altra importante novità di questa edizione è l’introduzione di un nuovo spazio, la Dance Tent, dedicata esclusivamente a dj e musica elettronica. L’avevamo già visto due anni fa al Lollapalooza, ma in Europa è la prima volta che un grande festival rock apre le porte a questo mondo, a conferma del fatto che esiste, in questi anni Novanta, un abbattimento delle barriere e un pubblico trasversale per tutta la musica nuova di qualità, indipendentemente dai generi, e anche perché la performance degli Orbital, l’anno scorso, è stata talmente straordinaria da convincere gli organizzatori che quella dell’elettronica sia una realtà ormai così importante che occorre darle uno spazio tutto suo.

Gli artisti headliner, quest’anno, sono, per il momento, due: venerdì gli Oasis, doverosamente, essendo la grande rivelazione del nuovo rock britannico, e domenica i veterani Cure. Sabato avrebbero dovuto esserci gli Stone Roses – probabilmente la più forte band inglese degli ultimi anni –, ma ci hanno detto in sala stampa (che è, anche quella, sotto un’enorme tenda) che il chitarrista John Squire si è fatto male cadendo dalla bicicletta e quindi non ci saranno. Chissà chi li sostituirà.

Intanto, in questo primo giorno di festival, scodellato nel backstage alle dieci di mattina, comincio a prendere le misure, capire le distanze tra i palchi, le traiettorie, il posizionamento dei bagni chimici, il posto più vicino ai vari palchi da cui vedere i concerti, dove procurarsi da mangiare e da bere. Ai festival bisogna fare come i cani: marcare il territorio, familiarizzare con l’ambiente, acquisire controllo per minimizzare i tempi morti e vedere più cose possibili. Ci sono sei palchi, più uno per il cabaret, un’area bambini e un’arena per i film, anche se, che qualcuno venga fin qui nel campo sperduto del Somerset per andare al cinema mi sembra quantomeno bizzarro, ma tant’è. Ovunque ci sono stand che vendono tutto quello che vuoi, non solo da mangiare e bere. Ti serve una tuta da sci in versione tie dye? C’è anche quella. Non puoi fare a meno di una campana tibetana? Eccole lì, di ogni grandezza possibile.

Tra i due palchi principali (il secondo si chiama NME Stage perché è sponsorizzato dal «New Musical Express») c’è una grande area backstage dove molti artisti si piazzano con le famiglie, nei camper, per tutta la durata del festival. Sembra di stare in un campeggio, dove però i villeggianti sono delle popstar. E che popstar. Capisco che questo luogo è popolato anche da artisti che non devono neanche suonare qui, ma che veramente la prendono come una vacanza, quando vedo aggirarsi Adam Clayton degli U2, vestito di lino bianco e con i sandali da frate. Poi incontro Mick Jones dei Clash.

«Ti ricordi?» gli dico. «Ci siamo visti poco tempo fa ad Atlanta!» E mentre ci salutiamo, compare anche Joe Strummer, il cantante, con la moglie. Oddio, sono in mezzo a due Clash in vacanza. Non capisco più niente. Dove siamo, nella Disneyland del rock and roll? Come farò a raccontare che mi sono trovato tra due dei Clash in mezzo a un campo in una mattina di giugno? Per fortuna vedo arrivare il mio amico Giovanni Canitano, fotografo inviato di «Repubblica».

«Oh, ci fai una foto?»

Clic. Ecco fatto. Ora ho le prove. Io in mezzo a Joe Strummer e Mick Jones. Questa la metterò in cornice, a imperitura memoria di un momento storico. Saltello felice tra i palchi, vedendo pezzetti di concerti qua e là. A mezzogiorno mi piazzo tra i primi nella tenda dance, che inaugura ufficialmente con un set di dodici ore dei Massive Attack. I quali, oltre a essere la più importante formazione del momento se si parla di meticciato musicale, perché uniscono elettronica, dub, reggae e rap come nessun altro, sono anche degli eroi locali perché vengono da Bristol, che tra le città inglesi è la più vicina a questa vallata. Passo poi a vedere i Weezer, il cui cantante, Rivers Cuomo, sfoggia una maglietta della Lazio (credo sia perché lo sponsor della squadra, Umbro, è una marca che va di moda). Ma… quello lì con i capelli tinti di biondo, con una tuta rossa e senza un dente davanti, vicino al camper degli Oasis, non l’ho già visto da qualche parte? Certo, ecco chi è, Robbie Williams dei Take That, la famosa boy band di cui mi dovevo sorbire in continuazione i video in televisione, perché nello studio di Londra dove registravamo l’album degli Almamegretta c’era sempre Mtv sintonizzata. È la prima volta che lo si vede in giro da solo. Non sembra messo benissimo e gira voce che non vada molto d’accordo con il resto della sua band, ma Noel e Liam Gallagher gli vogliono bene, lo hanno invitato a stare con loro qui al festival e se lo coccolano come se fosse un altro fratello.

Mi piazzo sotto il palco principale per vedere i Soul Asylum, americani che ammiccano al pubblico inglese con una versione di “Silly Love Songs” di Paul McCartney, poi mi sposto all’NME Stage per una violentissima performance dei Prodigy davanti a migliaia persone che pogano indiavolate, e poi, per tempo, prendo posto al Pyramid Stage per gli Oasis, il grande evento della giornata. Ma cosa ci fa Patsy Kensit, la deliziosa biondina cantante degli Eighth Wonder, sotto il palco degli Oasis? Si sa che è fidanzata con Jim Kerr dei Simple Minds, che suonano dopodomani. Saranno arrivati anche loro prima per godersi tutti e tre i giorni del festival. È la prima volta che vedo un concerto degli Oasis, e questo è probabilmente il più importante, finora, della loro breve ma straordinaria carriera. L’introduzione strumentale di “The Swamp Song” ci fa capire che sarà una serata epica, e lo è.

Questi due fratelli «c’hanno i pezzi», come si suol dire. Hanno le canzoni. E anche se devono interrompere e ricominciare “Supersonic” per problemi tecnici, poi infilano singoloni come “Some Might Say”, “Roll With It”, “Shakermaker”, e finiscono ammiccando anche loro ai Beatles con una psichedelica versione di “I Am the Walrus”. Ma agli ottantamila di Glasto non basta. “Don’t Look Back in Anger”, “Live Forever” e “Rock ’n’ Roll Star” chiudono lo show con la consapevolezza che questo è un palco che fa la differenza e ti cambia la carriera. «Nella mia mente i sogni sono realtà. Stanotte io sono una rock and roll star.»

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