L’affluenza alle elezioni in Iran potrebbe essere la più bassa dal 1979
I candidati riformisti erano stati esclusi e molti non sono andati a votare per protesta contro il regime, a cui invece una maggiore partecipazione avrebbe fatto comodo
Nel pomeriggio di sabato in Iran è iniziato lo spoglio dei voti delle elezioni che si sono svolte venerdì: secondo i primi sondaggi non ufficiali citati dai media nazionali l’affluenza sarebbe stata del 41 per cento (circa 25 milioni di persone). Se dovesse essere confermata sarebbe la più bassa dalla rivoluzione del 1979.
È un dato a cui i commentatori stanno dando molto risalto in attesa dei risultati. Non trattandosi infatti di elezioni democratiche – considerato il controllo che il regime ultraconservatore esercita su tutto il processo elettorale – l’astensionismo è considerato indicativo del numero di persone che hanno deciso di non votare per protesta contro il regime. Anche perché quest’anno per la prima volta la leadership riformista non ha sostenuto alcun candidato e molti esponenti hanno anzi invitato la popolazione a boicottare il voto.
Le elezioni in corso sono inoltre le prime che si tengono in Iran dalle grandi proteste seguite alla morte di Mahsa Amini, la donna di 22 anni morta il 16 settembre del 2022 a Teheran dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa per non avere indossato correttamente il velo islamico, o hijab, come prescritto dalle leggi iraniane.
Si è votato per rinnovare i 290 seggi del parlamento nazionale e gli 88 membri dell’Assemblea degli esperti, l’organo incaricato tra le altre cose di eleggere la Guida suprema, cioè la più importante carica politica e religiosa del paese. Finora l’Iran ha avuto solo due persone che hanno occupato questo ruolo, creato dopo l’instaurazione del regime teocratico a seguito della rivoluzione del 1979: Ruhollah Khomeini, il leader di quella rivoluzione, e Ali Khamenei, che gli succedette alla morte e che oggi ha quasi 85 anni e seri problemi di salute.
I risultati sono piuttosto scontati, soprattutto perché come già accaduto in altre occasioni quasi tutti i candidati progressisti sono stati esclusi. Nel paese esistono tre grandi correnti di pensiero: gli ultraconservatori e i conservatori, di cui fa parte la Guida Suprema Ali Khamenei così come l’attuale presidente, Ebrahim Raisi; i moderati, che possiamo definire in maniera un po’ approssimativa “di centro”; e i riformisti, la forza più progressista, che è però stata gradualmente esclusa dalla vita politica, fino sostanzialmente a scomparire.
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Quest’anno la leadership riformista non aveva candidati e ha descritto le elezioni come «prive di significato, non competitive e ingiuste». Mohammad Khatami, ex presidente riformista tra il 1997 e il 2005, è stato tra quelli che hanno detto di non essere andati a votare. L’attivista Narges Mohammadi, vincitrice del Nobel per la Pace nel 2023, che si trova in carcere, ha detto che boicottare le elezioni è un dovere morale.
L’affluenza in Iran è in calo da anni. Nel 2020 partecipò alle elezioni parlamentari il 42 per cento degli aventi diritto. Alle ultime presidenziali, nel 2021, partecipò meno del 50 per cento degli aventi diritto, contro l’85 per cento del 2009. La scarsa affluenza potrebbe essere un problema per il regime iraniano, che dal 1979 basa parte della propria legittimità proprio sulla partecipazione elettorale.
Venerdì Khamenei era andato a votare piuttosto presto, pubblicando diversi inviti ad andare ai seggi sui suoi profili social, e la chiusura dei seggi era stata rimandata dalle 8 alle 10 di sera. Mohammad Ghalibaf, generale alla guida delle Guardie rivoluzionarie, il più potente corpo militare iraniano, ha scritto sui social: «non importa solo vincere le elezioni: anche accrescere l’affluenza è una priorità»