Il rap che si improvvisa

Le battaglie di “freestyle” sono vecchie quanto l'hip hop, e continuano a rappresentare una delle sue forme più apprezzate dagli appassionati

di Giuseppe Luca Scaffidi

Un fotogramma dal film 8 Mile (Universal Pictures)
Un fotogramma dal film 8 Mile (Universal Pictures)
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Dalla scorsa settimana è disponibile su Netflix Nuova scena, programma musicale in cui rapper emergenti provenienti da tutta Italia competono tra loro per ottenere un premio in denaro di 100mila euro. Per raggiungere la finale (che sarà trasmessa il 4 marzo) i concorrenti devono dimostrare a Fabri Fibra, Rose Villain e Geolier, i tre membri della giuria, la propria abilità in alcune specialità tipiche del genere.

Tra queste ci sono anche le cosiddette “battle”, ossia le famose sfide in cui due rapper competono tra loro offendendosi in rima. Nella loro forma più conosciuta e praticata, le “battle” dovrebbero essere fondate sul concetto di improvvisazione, nel senso che i due contendenti dovrebbero essere in grado di inventare delle rime sul momento: nel gergo del genere, questa pratica viene definita freestyle (traducibile in italiano come “stile libero”). Tuttavia, in Nuova scena i giudici hanno parzialmente stravolto questa modalità, concedendo ai concorrenti una notte di tempo per preparare delle rime con cui spiazzare i propri avversari.

Il freestyle è uno degli elementi della cultura hip hop maggiormente radicati nell’immaginario collettivo. Negli anni ha rappresentato il punto di inizio della carriera di molti rapper, che hanno imparato a padroneggiare questa tecnica prima ancora di iniziare a scrivere canzoni vere e proprie. Due casi tra i tantissimi sono quelli dei newyorkesi Jay-Z e Notorious B.I.G., che cominciarono a farsi notare nell’ambiente hip hop della East Coast statunitense improvvisando per strada o esibendosi per pochi minuti in una delle tante serate che venivano organizzate nei club della città.

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Quando questo genere non aveva ancora un mercato così esteso, il freestyle svolse anche una funzione sociale. Le persone che si riconoscevano in questa sottocultura avevano bisogno di incontrarsi, e per farlo si davano appuntamento in punti precisi della città. A New York, la città in cui questo genere nacque agli inizi degli anni Settanta, chi voleva imparare a rappare di solito andava in posti come il Cedar, un parco pubblico del quartiere del Bronx, e l’Holcombe Rucker Park, un campo di pallacanestro di Harlem che ebbe una certa importanza nella diffusione di questa musica.

In questi luoghi le persone appassionate di rap iniziarono a organizzare delle prove per dimostrare la propria bravura al microfono: presero il nome di “battle” (“battaglie”), ossia delle sfide in cui i rapper di turno potevano dare sfogo alla propria capacità di improvvisazione.

La modalità di svolgimento di queste sfide era sempre lo stessa: il dj faceva partire un “break”, un segmento ritmico di batteria e basso solitamente estrapolato da canzoni funk, disco e soul, che veniva appositamente campionato e ripetuto per permettere agli sfidanti di parlarci sopra. A quel punto, i due MC (“master of ceremonies”, il nome con cui venivano definiti i cantanti rap delle origini) rivali si lasciavano ispirare dalla sequenza ritmica del break per improvvisare delle rime e incastrarle in un determinata metrica (che oggi viene comunemente definita “flow”).

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Nella maggior parte dei casi i contendenti avevano una libertà di espressione totale, che utilizzavano per insultarsi a vicenda in modi molto creativi. Tuttavia poteva anche capitare che le rime non fossero del tutto “libere”, e che dovessero ruotare attorno a un tema centrale condiviso (la strada, la famiglia, la quotidianità di un determinato quartiere e così via). In entrambi i casi, il vincitore veniva determinato per acclamazione dal pubblico presente.

Individuare una data precisa in cui questa usanza cominciò a consolidarsi nella forma che conosciamo oggi è complicato, ma in molti ritengono che, volendo scegliere uno tra i diversi momenti fondativi del freestyle competitivo, questo debba essere per forza la sera del primo dicembre 1981. Quel giorno Kool Moe Dee (Mohandas Dewese) e Busy Bee Starski (David James Parker), due dei rapper newyorkesi più conosciuti dell’epoca, si sfidarono in quella che viene considerata come la prima “battle” moderna.

Anche se ai tempi il genere aveva alle spalle meno di dieci anni di storia, Parker e Dewese appartenevano a due generazioni differenti: il primo aveva iniziato a bazzicare quel tipo di ambienti già agli inizi degli anni Settanta, quando un dj di origini giamaicane che si faceva chiamare Kool Herc importò nel Bronx la cultura dei sound system (impianti formati da più casse), organizzando le prime serate hip hop della storia e aprendo la strada a musicisti come Melle Mel e Afrika Bambaataa.

Herc stava studiando un modo per far ballare la gente senza quelle pause che inevitabilmente si creavano quando finiva una canzone e il dj doveva togliere il disco dal piatto del giradischi per metterne un altro, perdendo poi ulteriore tempo per posizionare la puntina in corrispondenza dell’inizio del solco della nuova canzone desiderata. Quello che voleva fare, insomma, era unire più pezzi di canzoni in modo da creare un flusso di musica ininterrotto.

Per riuscirci, ebbe l’intuizione di usare due giradischi attaccati allo stesso mixer, e di far suonare su ciascuno lo stesso vinile, selezionando soltanto le sequenze in cui si sentivano le parti ritmiche. Poi, con i comandi del mixer, mandava alle casse il segnale prima di un disco, poi dell’altro, riportando indietro ogni volta con la mano quello che non si sentiva, in modo da ripetere la parte strumentale che quindi suonava in ripetizione creando di fatto una nuova canzone.

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Ripetendo in loop quei pochi secondi di solo ritmo e niente voce, Herc creò uno spazio perché qualcuno parlasse e cantasse sopra la nuova musica che si suonava alle feste; o meglio, perché facesse una cosa a metà, con parole veloci in rima. Questo ruolo fu assunto dai master of ceremonies, ossia persone che accompagnavano il dj di turno improvvisando frasi con il microfono. Di solito si trattava di rime molto semplici e senza un particolare significato, pronunciate con l’intento di aumentare il coinvolgimento del pubblico. Parker si formò proprio in quel contesto festaiolo e all’insegna del disimpegno: anche per questo motivo, il suo stile era perlopiù ironico, incentrato sulla comicità e sulla necessità di far divertire le persone che partecipavano a quegli eventi.

Dewese aveva cominciato a rappare un po’ più tardi, verso la fine degli anni Settanta, militando nel gruppo hip hop Treacherous Three. Rappava in un modo completamente diverso rispetto a Parker, meno grottesco e più intimista e “letterario”, e prima di quella serata del 1981 aveva affinato moltissimo la sua tecnica sfidando gli altri componenti del gruppo, LA Sunshine, Special K e Spoonie Gee, sui break composti da DJ Easy Lee. Le sue rime erano molto più ricercate e sofisticate rispetto a quelle tipiche di un festaiolo incallito come Busy Bee Starski, incentrate su temi come il razzismo, la disuguaglianze sociali, la violenza delle forze dell’ordine e la vita nei quartieri poveri.

La sfida si svolse all’Harlem World, uno dei locali di riferimento della scena hip hop newyorkese del periodo, e com’è facile intuire fu vinta per larghissimo consenso da Dewese, che spiazzò Parker con delle rime che ironizzavano sul suo essere un intrattenitore da feste, più che un rapper con qualcosa di importante da dire.

Con il tempo queste “battle” diventarono degli eventi capaci di richiamare un pubblico più esteso: venivano organizzate attorno a un tema all’interno di club e discoteche che spesso rappresentavano un’occasione di esposizione importante per i rapper emergenti, dato che erano frequentati dai talent scout delle prime case discografiche che cominciavano a interessarsi alla promozione dell’hip hop.

Tra gli anni Novanta e gli anni Duemila le battle divennero uno degli elementi più distintivi di questa sottocultura, e iniziarono a farsi conoscere anche al di fuori della cerchia ristretta del rap. Accadde anche grazie al successo riscosso dal documentario Freestyle: The Art of Rhyme di Kevin Fitzgerald (2000) e dal film di Curtis Hanson 8 Mile (2002)che racconta l’infanzia del rapper di Detroit Eminem e si conclude con la scena dell’epica sfida di freestyle tra quest’ultimo e un immaginario rapper rivale, Papa Doc (interpretato da Anthony Mackie).

Anche se nel linguaggio comune il freestyle viene associato all’improvvisazione, alcuni rapper che animarono la scena newyorkese delle origini sostengono che, tra gli anni Settanta e Ottanta, questa parola avesse un significato un po’ diverso da quello odierno.

Intervistato dal giornalista musicale Paul Edwards nel libro How to Rap: The Art and Science of the Hip-Hop MC, il rapper Big Daddy Kane (Antonio Hardy) ha raccontato per esempio che, ai suoi tempi, questo termine non indicava l’abilità di inventare sul momento, ma le cosiddette “rime senza stile”. In sostanza si trattava di rime che venivano scritte per fini esclusivamente autocelebrativi e che non trattavano nessun argomento in particolare: non servivano a raccontare una storia, insomma, ma soltanto a vantarsi e ostentare il proprio status.

In un altro libro, There’s a God on the Mic, Kool Moe Dee racconta che a Manhattan la parola freestyle indicava qualcosa di molto simile, ossia quelle rime che venivano scritte «senza un vero scopo, se non quello di dimostrare la propria abilità di scrittura».

Sebbene il freestyle venga comunemente associato al rap, l’arte di mettere in rima delle parole “sul momento” ha origini molto più antiche. In Giamaica per esempio già dagli anni Sessanta aveva iniziato a diffondersi il cosiddetto “toasting”, uno stile vocale usato nella musica reggae che consiste nel parlare o cantare sopra una parte di canzone chiamata “riddim” o “beat”.

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Nel suo libro, Edwards fa risalire le origini di ciò che oggi chiamiamo freestyle al jazz, un genere che sin dalle sue origini si è basato in parte o del tutto sull’improvvisazione: un po’ come le rime delle battaglie freestyle, anche gli assoli suonati dai jazzisti sono spesso inventati sul momento, basati solo su una progressione di accordi prefissata. Questo parallelismo è stato rivendicato spesso da diversi musicisti hip hop, come per esempio il rapper californiano Myka 9, che ha definito il freestyle «rap improvvisato, come un assolo jazz».

Oggi le battaglie di freestyle sono eventi ampiamente diffusi in tutto il mondo, e nel corso degli anni il loro svolgimento non ha subito particolari variazioni: c’è sempre un dj che fa partire un beat, e due sfidanti che devono rapparci sopra in modi creativi e originali. Negli Stati Uniti le “battle” sono diventate molto simili a eventi sportivi: sono state create delle vere e proprie leghe, come la Ultimate Rap League (URL), la King of the Dot e la Rare Breed Entertainment, che spesso organizzano campionati con in palio premi in denaro molto considerevoli.

Anche in Italia esistono diversi eventi specificamente dedicati a questa disciplina. Il più famoso si chiama “Tecniche perfette”, fu inaugurato nel 2003 dai rapper torinesi DJ Double S (Rino Costante) e Mastafive (Johnny Andrea Mastrocinque), e da allora si è svolto ogni anno. La prima edizione si concluse in parità: arrivarono in finale Mondo Marcio ed Ensi, due rapper che negli anni successivi avrebbero ottenuto un ottimo successo. “Tecniche perfette” ha aperto la strada alla carriera di altri rapper diventati famosi soprattutto per il loro talento nell’improvvisazione, come Emis Killa e Clementino. Un altro evento molto seguito era il 2TheBeat, che si svolse in tre edizioni tra il 2004 e il 2006: la prima si svolse a Bologna e fu vinta da Danno, componente del gruppo hip hop romano Colle der Fomento.

Nel 2012 il freestyle ottenne una certa visibilità grazie a MTV Spit, programma condotto dal rapper Marracash in cui diversi cantanti emergenti dovevano sfidarsi improvvisando liberamente su temi di attualità.

Se fino a qualche anno fa l’abilità nel freestyle era considerata un parametro importante nella valutazione di un rapper, oggi le cose sono un po’ cambiate: contano molto di più altri aspetti, come la profondità dei testi e la capacità di scrivere hit capaci raggiungere un pubblico più ampio. Gli eventi di freestyle continuano a essere seguiti soprattutto da chi apprezza il lato tecnico di queste esibizioni, in cui gareggiano spesso rapper abilissimi e capaci di costruire in pochi secondi delle barre (il modo in cui in gergo si chiamano le strofe del rap) complesse e sofisticate, ricche di riferimenti filosofici e citazioni alla cultura pop contemporanea. Rapper come Shekkero, Frenk e Kin, pur venendo considerati stabilmente tra i migliori nella padronanza di questa tecnica, sono poco conosciuti al grande pubblico.