Avete mai sentito parlare di Stefano Furlan?
«Quando è morto era un ragazzo di vent’anni. L’8 febbraio 1984 era andato allo stadio e all’uscita c'erano stati disordini. Tre ragazze raccontarono di un poliziotto che, afferrandolo per i capelli, gli aveva sbattuto la testa contro il muro. Ma al processo non furono credute. Erano altri tempi e i mezzi di comunicazione non erano capillari come oggi. Viene però da chiedersi cosa sarebbe successo se ci fossero stati i telefoni con cui filmare»
Valmaura è un quartiere della periferia meridionale di Trieste tagliato a metà da un’antica strada romana, via Flavia, che porta verso l’Istria. A differenza di altri rioni lontani dal centro, è attraversato ogni settimana da molte persone: c’è il palazzetto per il basket, il campo sportivo dell’atletica, lo stadio del calcio e ci sono i cimiteri.
Vivo a Trieste da quasi otto anni e a Valmaura non ci vado spesso, ma in un giorno preciso dell’anno prendo la linea 10 che parte dal centro, attraversa il rione di San Giacomo dove abito e arriva al capolinea, in via Valmaura, che è un viale alberato costeggiato da un muro tutto dipinto.
Uno dei murales è il ritratto di Stefano Furlan. A fianco c’è una data – 8.2.1984 – e una frase: «Noi non dimentichiamo». Quando nel dicembre del 2017 gli artisti Caktus&Maria lo stavano dipingendo con le bombolette spray io ero là, perché accompagnavo il mio amico Emi. Non ricordo come mi ero fatta incastrare, ma ricordo bene il freddo di quella sera. Se non avessi conosciuto una persona che va allo stadio, avrei mai sentito parlare di Stefano Furlan?
Quando è morto era un ragazzo di vent’anni. L’8 febbraio 1984 era andato a vedere una partita e all’uscita aveva ricevuto un colpo in testa da un agente di polizia. Dopo venti giorni era morto.
La storia di Stefano è anche la storia di Renata Furlan, sua madre (e mi chiedo se, a volte, anche la ricerca di verità per un famigliare ammazzato non sia un altro lavoro di cura in mano alle donne) perché un padre in questa storia non c’è, non si sa chi sia, Stefano porta il cognome di sua madre.
Da un po’ di anni ogni 8 febbraio il luogo in cui Stefano è stato colpito diventa un punto di ritrovo per molte persone. Scendo al capolinea della linea 10 e mi incammino con le Bikini Kill nelle cuffiette. Il primo che mi si avvicina è Paolo R., parlando ci chiediamo perché certe parti politiche di Trieste qui non vengano mai: «Cose da ultras», ci rispondiamo, un po’ lapidari.
Intanto arriva sempre più gente e si sentono i primi cori. Le tifoserie hanno portato striscioni e mazzi di fiori. Anche io ho le mie rose in mano. Con un po’ di ritardo per aspettare tutti, la cerimonia comincia. Succede ogni anno, ma quest’anno è stato speciale. Per il quarantesimo anniversario sono arrivate persone da tutta Italia e da altri paesi.
Prima hanno parlato alcuni ultras e poi il cugino di Stefano, l’unico famigliare ancora in vita. Quando Paolo F., un tifoso, ha urlato nel megafono il nome di Stefano e tutti hanno risposto, si è sentito il muro tremare. Provate a immaginare cinquecento persone che urlano tutte insieme, nello stesso momento, contro un muro di cemento, un unico nome.
Dopo i cori e i fumogeni (e i miei colpi di tosse), la cerimonia è continuata dentro lo stadio. Non sono una tifosa, c’è una distanza siderale tra me e ogni forma di attività sportiva. Vado perché mi sembra giusto partecipare al ricordo di una storia di ingiustizia per cercare di non farla dimenticare. Negli anni sono state fatte diverse ricostruzioni dei fatti, forse la più accurata si trova nel volume Mi ricordo quel giorno allo stadio.
Il 15 maggio del 1983 l’Unione Sportiva Triestina raggiunge dopo anni la promozione in serie B. C’è una foto di Stefano di quel giorno. I tifosi hanno invaso il campo, la confusione è evidente ma c’è un ragazzo al centro, fermo, che guarda dritto nell’obiettivo. Lo si riconosce dalla cavelada, una marea di ricci castani. Si è tolto la maglietta e la tiene in mano, ha la sciarpa della squadra legata in vita. Ha vent’anni, è uno studente all’ultimo anno dell’istituto per geometri e lavora in un negozio di fiori.
Lo vedono spesso allo stadio, ci va con i suoi amici nel settore popolari. Anche l’8 febbraio 1984, un mercoledì pomeriggio, per la partita Triestina-Udinese degli ottavi di finale di Coppa Italia. Finisce 0-0, ma la fine della partita segna l’inizio di questa storia.
Stefano esce dalla curva nord dello Stadio Grezar diretto verso via Macelli, dove ha parcheggiato la macchina. Mentre attraversa via Valmaura viene fermato da quattro agenti. Non si sa esattamente che cosa facesse lui e che cosa sia successo in seguito: Stefano potrebbe essere stato preso per i capelli e spinto contro il muro, ma la sentenza lo escluderà, oppure essere stato colpito da una manganellata. Sicuramente, batte la testa.
Viene portato in questura insieme a altri tifosi. Quando lo rilasciano, torna alla sua Fiat 128 blu. Nell’autoradio sta andando Gloria di Umberto Tozzi, e nessuno toglierà mai più la cassetta. Quando arriva a casa sono le 9 di sera. Per giustificare il ritardo, spiega alla madre di essere stato colpito alla testa. La nonna Amabile gli fa impacchi di acqua e aceto prima di mandarlo a dormire. Ma il giorno dopo Stefano sta ancora male; quando la madre Renata va in questura per chiedere spiegazioni, le rispondono che suo figlio stava danneggiando un’automobile e per questo era stato fermato.
Sono le 17 del 9 febbraio e le condizioni di Stefano Furlan sono peggiorate. Viene portato all’Ospedale Maggiore dove arriva ormai in coma. La diagnosi è «trauma cranico in regione occipitale, sospette lesioni ossee, sospetto ematoma sottodurale e stato di coma vigile».
La stampa inizia a interessarsi alla vicenda. I primi resoconti della partita parlano di un clima elettrico, ma non menzionano scontri tra tifosi o con la polizia. Solo nei giorni successivi si inizia a parlare di disordini.
Su Il Piccolo, il quotidiano locale, appaiono diverse testimonianze. Una delle prime è di tre ragazze che raccontano di un poliziotto che ha afferrato Stefano, lo ha portato vicino al muro di cinta dello stadio, gli ha fatto allargare le gambe con un manganello e poi, afferrandolo per i capelli, gli ha sbattuto la testa contro il muro.
Dopo venti giorni di coma, il primo marzo 1984 alle 22:30, Stefano Furlan muore. C’è un filmato che lo mostra a letto, attaccato a dei tubi.
Alla madre, che vuole sapere cosa sia successo e chi siano i responsabili, nessuno dà risposte. Anche i giornali iniziano a raccontare che Stefano era un violento. Con il sostegno dell’avvocato Fabio Degiovanni, che ora è in pensione e vive in Austria, ma ricorda molto bene la vicenda, la madre si costituisce parte civile nel processo.
Cominciano a arrivarle telefonate per intimarle di ritirare la denuncia. Alcune persone le si avvicinano anche mentre è al cimitero. Come se non bastasse, il 16 ottobre 1985 il questore Antonino Allegra le invia una proposta su carta intestata.
Si prega di far conoscere se la S.V. sia disponibile ad accettare la somma di ottanta milioni di Lire […] a titolo di totale risarcimento danni patrimoniali e non patrimoniali e di qualsivoglia altro accessorio subiti dalla S.V. in conseguenza dell’incidente dell’8.2.84, quale genitrice del defunto Stefano Furlan, a condizione della rinuncia alla costituzione di parte civile e senza che ciò comporti ammissione di responsabilità.
Renata Furlan non risponde nemmeno. Al giudice arriveranno una trentina di testimonianze, tra cui quelle delle tre ragazze e di altri due testimoni secondo cui la testa di Stefano era stata «violentemente e brutalmente» sbattuta contro il muro di cemento da un poliziotto, ma vengono ritenute inattendibili. Per i periti medico legali, se fosse andata così sulla cute ci sarebbero stati segni dell’impatto, di cui però non c’erano testimonianze. Ho domandato a una gentile impiegata del tribunale che fine abbiano fatto i documenti dell’istruttoria, mi ha detto che dopo quarant’anni con molta probabilità sono diventati carta straccia. È rimasto soltanto il testo della sentenza, datato 7 novembre 1985.
Dei quattro agenti rinviati a giudizio soltanto Alessandro Centrone, un allievo della Scuola di polizia di Trieste di 21 anni, coetaneo di Stefano, viene condannato a un anno di reclusione per «eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi». Essendo incensurato, non va in carcere. Centrone è rimasto nella polizia e nel 1999 è andato ai campionati mondiali militari di triathlon di Stoccolma a rappresentare l’Italia.
Secondo la sua versione dei fatti quel giorno c’erano auto con i vetri infranti e un ragazzo con il volto coperto di sangue che chiedeva aiuto, era arrivato l’ordine di disperdere gli esagitati, tra cui Stefano, che sarebbe stato a volto coperto. La sua intenzione era colpirlo alla spalla «dall’alto in basso, con direzione lievemente obliqua» solo che, proprio in quel momento, il ragazzo si era girato, «forse per fuggire, e scivolava rimanendo mezzo inginocchiato a terra». Il poliziotto aveva aggiunto di averlo anche aiutato a rialzarsi e ad appoggiarsi «al cofano di una macchina, anche perché il Furlan accusava un dolore al capo». Insomma, la manganellata gli era finita in testa per sbaglio, forse. Secondo Lollo, portavoce della curva Furlan, «la storia di Stefano è una storia di abusi di potere, e non è l’unica in cui c’è stato un “uso improprio di armi” e di repressione da parte della polizia».
Erano altri tempi e i mezzi di comunicazione non erano capillari come oggi. Viene però da chiedersi cosa sarebbe successo se le tre ragazze, o qualcun altro, avessero avuto un telefono con cui filmare. Forse, chi lo sa, questa storia sarebbe rimasta etichettata comunque come roba da ultras, una morte non degna di essere considerata quanto le altre.
Se Stefano Furlan viene ricordato ancora oggi, il merito è di Paolo F., un altro tifoso della curva della Triestina. L’8 febbraio 1984 aveva 13 anni ed era la prima volta che andava allo stadio da solo. Nel 1994, dieci anni dopo i fatti, sarebbe stato lui a contattare la madre per organizzare qualcosa in ricordo del figlio. «Avevo letto gli articoli dell’epoca – mi racconta – e mi ricordavo della madre. Così ho preso l’elenco del telefono e ho cercato Furlan Renata. Mi sono fatto un po’ di coraggio e l’ho chiamata. Le ho detto che anche io ero un ragazzo che andava a vedere la Triestina e che volevamo andare con lei a mettere un fiore al cimitero». Il primo marzo 1994 una decina di ultras andò al camposanto ad aspettare Renata che arrivò accompagnata da una cugina. «L’ho riconosciuta perché mi ricordavo le foto pubblicate sui giornali. Avevamo dei fiori e una sciarpa da depositare sulla lapide». Il giorno dopo Renata scrisse una lettera al giornale.
«Vorrei ringraziare gli Ultras triestini per aver voluto ricordare, con una semplice e molto sentita commemorazione, i dieci anni dalla brutta giornata in cui Stefano è stato bastonato a morte. In un mondo in cui tutto è dimenticato subito, sapere che dopo tanti anni gli amici di Stefano lo ricordano ancora, mi aiuta a sopportare il dolore».
Paolo F. si ricorda bene della lettera: «Quel giorno è iniziato un percorso di vita insieme». Nel 1984 il capocannoniere della Triestina era Totò De Falco che in un evento per il quarantennale ha detto: «La storia non deve dare fastidio, la storia è un punto di partenza».
Nel 2002 l’amministrazione comunale ha messo una targa commemorativa sul muro di via Valmaura, dove oggi c’è anche il ritratto di Stefano. Nel 2004 c’è stato un primo corteo ed è cominciata la tradizione della cerimonia dell’8 febbraio.
Negli ultimi anni ci sono andata anche io: con la pioggia, con le mascherine e distanziati. Anche Renata Furlan andava spesso. La si vede nei video, fa sorridere. È una signora ormai anziana, vestita con un cappotto bordeaux molto lungo e una sciarpa di lana bianca avvolta intorno al collo. L’ultima volta che riuscì a esserci era il 2014, l’anno del trentennale.
La memoria si costruisce anche vietando dei cori. Da qualche anno, ogni volta che viene intonato «Trieste, la curva non l’ha dimenticato: Stefano Furlan, ucciso dallo stato», la società riceve una multa di 100 euro per oltraggio nei confronti dello stato. Accade a ogni partita, e in questo modo la storia di Stefano da ricordo lontano si trasforma in un fatto concreto, soprattutto per i più giovani.
Come si costruisce la memoria? Come si fa a trasformare la storia di un ragazzo ucciso nella storia di un gruppo? Lollo, il portavoce della curva, dice che ricordare Stefano è una forma di rispetto nei confronti di Renata, ma anche che il suo ricordo «contribuisce a costruire un senso di appartenenza». La memoria è un esercizio collettivo, che ha bisogno di eroi, di martiri e di rituali. Oggi la curva nord del nuovo stadio, il Nereo Rocco, porta il nome di Stefano Furlan.
La linea 6 degli autobus parte dal rione di San Giovanni, attraversa il centro per poi allontanarsene lungo la costa. Se si scende alla fermata del Porto Vecchio si può andare al Magazzino 26, uno spazio espositivo di proprietà del Comune che ha concesso all’associazione “Stefano presente” di organizzare la mostra “Col tuo nome addosso – 40 anni di ricordi nel nome di Stefano Furlan”. Chiara Pellizzari, la curatrice, dice: «Ho cercato di umanizzare Stefano, non volevo che fosse solo un nome su uno striscione o un nome gridato allo stadio, ma un ragazzo di vent’anni».
All’inaugurazione erano presenti diversi politici, compresi quelli che da anni stanno spingendo per armare anche la Polizia locale. La memoria si costruisce anche attraverso il riconoscimento istituzionale, che però tende a presentare Stefano Furlan come un ragazzo morto, e a dimenticarsi che è morto per «eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi».
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