Giorgia Meloni sta con Donald Trump e contro Donald Trump
Costretta a un equilibrismo ambiguo, non può rinnegare la vicinanza ideale ai Repubblicani statunitensi per non perdere voti, ma neanche ammetterla per via del suo ruolo istituzionale
Sabato 24 febbraio si è conclusa la Conservative Political Action Conference (CPAC), il congresso dei principali movimenti politici conservatori statunitensi, a cui vengono invitati anche politici di destra e di estrema destra stranieri. Nata nel 1974 su iniziativa dell’ex presidente statunitense Ronald Reagan, negli ultimi anni la CPAC è stata sempre più monopolizzata da Donald Trump e dai suoi sostenitori, ed è diventata tra l’altro l’evento in cui i leader politici italiani approfittano per dimostrare la propria vicinanza al mondo ultraconservatore americano che ruota attorno all’ex presidente e di fatto prossimo candidato Repubblicano contro Joe Biden.
La presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni è andata due volte, nel 2019 e nel 2022. Nel 2023 ha inviato una nutrita delegazione di oltre dieci rappresentanti del suo partito, Fratelli d’Italia, guidati dal capo delegazione del partito al Parlamento Europeo, Carlo Fidanza, e da Nicola Procaccini, il presidente del partito dei Conservatori e riformisti europei (ECR) di cui Fratelli d’Italia fa parte. Quest’anno, a seguire la CPAC sono andati solo in quattro: la senatrice Cinzia Pellegrino e i deputati Manlio Messina, Mauro Rotelli e Antonio Giordano, che è segretario generale di ECR. Al di là della composizione della delegazione scelta, meno numerosa e meno prestigiosa rispetto a quelle degli anni passati, è stato evidente come Meloni stavolta abbia voluto partecipare al CPAC più in sordina: nessun comunicato ufficiale del partito, nessun commento di Meloni e dei dirigenti del partito, che anzi hanno raccomandato ai membri della rappresentanza di non farsi notare troppo.
Almeno in parte, questa scelta si spiega con il fatto che ora Meloni ha un ruolo istituzionale, e quindi per lei può essere sconveniente condividere molte delle tesi sostenute da Trump, specie in politica estera. La prima volta che partecipò al CPAC, nel marzo del 2019 a Oxon Hill, nel Maryland, Meloni celebrò i risultati economici ottenuti da Trump, allora presidente degli Stati Uniti, e poi pronunciò un discorso connotato da una violenta retorica antieuropea.
Descrisse l’Unione Europea come una «entità sovranazionale e non democratica» che «ha imposto alle nazioni europee le scelte delle élite mondialiste e nichiliste volute dalla grande finanza», criticò il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel come rappresentanti dell’Europa «di chi vuole sempre maggiore cessione di sovranità degli Stati nazionali verso i tecnocrati». Sono toni e argomenti che oggi Meloni non può più adottare, da presidente del Consiglio italiana che collabora a stretto contatto, sia pure con qualche assestamento, con i rappresentanti e i dirigenti di tutte le istituzioni europee, e che si accinge a sostenere Ursula von der Leyen per la sua riconferma come presidente della Commissione Europea dopo le elezioni europee del giugno prossimo.
Il 26 febbraio 2022, a Orlando, in Florida, Meloni tenne invece un discorso incentrato sulla necessità di garantire convintamente il sostegno dell’Occidente alla resistenza dell’Ucraina. «Di fronte a questo inaccettabile attacco [quello della Russia di Vladimir Putin, ndr] essere qui è il modo migliore per chiarire da che parte stiamo in questo conflitto. Noi siamo dalla parte del diritto internazionale, della libertà, e in definitiva siamo dalla parte di una nazionale orgogliosa che sta insegnando al mondo cosa significa combattere per la libertà», disse Meloni.
Anche in questo caso, sarebbe arduo per lei ripetere le stesse parole davanti alla platea del CPAC oggi: stavolta non perché sia stata lei a cambiare idea sulla guerra in Ucraina, ma perché Trump e i suoi seguaci Repubblicani al Congresso statunitense hanno assunto posizioni sempre più ostili all’invio di nuove armi all’Ucraina (per ragioni di politica interna nel tentativo di mettere in difficoltà Biden, e perché ormai la politica estera di Donald Trump è sempre più isolazionista e ostile a impegnarsi militarmente in difesa degli alleati).
Insomma, Meloni è costretta a tenere un complicato equilibrio quando si pone di fronte alla politica americana, in vista delle elezioni di novembre che vedranno con ogni probabilità Trump contro l’attuale presidente, Biden. Ovviamente negli Stati Uniti la scelta della presidente del Consiglio italiana di sostenere un candidato o l’altro è irrilevante: la comunità italiana negli Stati Uniti può essere solo vagamente influenzata dalle sue scelte, o forse non influenzata affatto, e in generale l’Italia ha un peso diplomatico molto inferiore a quello del Regno Unito o della Francia sullo stesso tema. Il posizionamento è semmai significativo per la politica interna, perché testimonia il loro orientamento generale in politica estera, contribuisce al modo in cui vengono percepiti i leader italiani nei contesti internazionali, e in una certa misura può riformulare il loro orizzonte di valori anche nel dibattito interno.
Succede spesso che un presidente del Consiglio italiano debba collaborare con un presidente americano di colore politico diverso. Per l’Italia non c’è altra opzione se non mostrarsi affidabili alleati degli Stati Uniti, data l’enorme influenza economica e diplomatica che questi hanno sulle vicende del nostro paese. Ma nel caso di Meloni, questa relazione è particolarmente controversa, in parte per la natura estrema del trumpismo e in parte per le contraddizioni enormi che Meloni stessa ha dovuto affrontare nella sua transizione da leader di opposizione di estrema destra a capo del governo.
Per i tanti partiti sovranisti europei, l’elezione di Trump nel novembre del 2016 fu un momento di svolta decisivo. Ancor più della vittoria di chi voleva l’uscita dall’Unione Europea del Regno Unito nel referendum su Brexit nel giugno di quell’anno, il successo elettorale di Trump ha dato una sorta di legittimazione politica al sovranismo radicale in Europa: era il segnale che davvero si potesse aspirare alla guida di un grande paese occidentale – il più grande – adottando posizioni nazionaliste, protezioniste e di rifiuto in qualche modo dei legami internazionali in favore di decisioni più autonome dei singoli Stati.
Non a caso, sia Meloni sia Matteo Salvini mostrarono subito e in maniera plateale molta simpatia per Trump. Il leader della Lega, oltre a scimmiottare alcuni slogan e alcune pose del presidente americano, costruì negli anni alcune relazioni con i suoi collaboratori, soprattutto grazie al lavoro di un suo deputato, Guglielmo Picchi. L’idea di consolidare i rapporti tra la Lega e lo staff di Trump, però, si rivelò più complicata del previsto, e il progetto abortì definitivamente a seguito del viaggio a Washington nel giugno del 2019 fatto da Salvini, allora ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio nel primo governo di Giuseppe Conte. La visita doveva sancire la sintonia ideologica tra il leader della Lega e il presidente americano, ma si risolse in un fallimento diplomatico. Trump si rifiutò d’incontrare Salvini e dal governo statunitense arrivarono commenti un po’ irritati per il modo in cui la delegazione italiana aveva organizzato la visita.
Meloni seguì una via meno appariscente per dimostrare la sua vicinanza a Trump e alla sua ideologia, lavorò per guadagnarsi un credito con lo staff del presidente americano soprattutto costruendo un rapporto solido con Steve Bannon, ex consigliere politico e stratega di Trump e molto interessato a sostenere i movimenti estremisti e nazionalisti europei, con l’obiettivo di disgregare l’Unione Europea e rafforzare i legami bilaterali dei vari Stati membri con gli Stati Uniti. Più di Salvini, però, Meloni seppe costruirsi contatti anche con la corrente meno radicale del “trumpismo”, rappresentata per esempio dall’ex segretario di Stato Mike Pompeo.
La vittoria di Joe Biden nel novembre del 2020 costrinse Meloni e Salvini a un precipitoso e ambiguo cambio di approccio, soprattutto per il modo turbolento e antidemocratico con cui Trump decise di gestire il passaggio di consegne. Il 6 gennaio, a seguito dell’assalto al Congresso di migliaia di sostenitori radicali di Trump, Salvini fece un commento un po’ vago, come del resto anche Meloni, ed entrambi furono piuttosto assolutori nei confronti dell’atteggiamento del presidente uscente, ignorando di fatto il suo ruolo attivo nel provocare le violenze.
Meloni, investita dalle polemiche per l’eccessiva morbidezza del suo commento («mi auguro che le violenze cessino subito come chiesto dal presidente Trump»), scrisse poi una lunga lettera al Corriere della Sera in cui argomentava meglio il suo pensiero, ma sempre senza esprimere un giudizio netto su Trump, e anzi includendo nel suo ragionamento riferimenti agli scontri causati da “Black Lives Matter”, il movimento nato per protestare contro gli abusi della polizia nei confronti delle persone afroamericane; oppure facendo paragoni tra gli assalitori del Congresso americano e Carlo Giuliani, il manifestante no global ucciso da un carabiniere durante le manifestazioni violente del G8 di Genova nel 2001.
Dopo quel gennaio del 2021 Meloni ha evitato accuratamente ogni riferimento a Trump, lasciando che l’eco del suo sostegno ai Repubblicani svanisse gradualmente. Da presidente del Consiglio (è entrata in carica nell’ottobre del 2022) è stata sempre molto accorta ad assecondare il Democratico Biden, prendendo decisioni inequivocabili e non scontate su almeno due questioni molto care all’amministrazione americana: il sostegno incondizionato dell’Italia alla resistenza dell’Ucraina e l’uscita dell’Italia dall’accordo politico e commerciale con la Cina, la Belt and Road Initiative (nota anche come “Nuova Via della Seta”), firmato ai tempi del primo governo Conte nel 2019. Anche così, Meloni si è guadagnata una certa stima tra i collaboratori dei funzionari della Casa Bianca, dove la presidente del Consiglio andrà in visita diplomatica il primo marzo: sarà la sua seconda missione a Washington, e servirà anche per impostare i lavori per l’anno di presidenza italiana del G7, la storica riunione informale dei sette più influenti Paesi occidentali.
La notizia del viaggio imminente è stata diffusa venerdì 23 febbraio, prima della partenza di Meloni per Kiev, dove ha presieduto la prima riunione del G7 proprio accanto al presidente ucraino Zelensky. Negli stessi giorni in cui a Washington si svolgeva la Conferenza dei conservatori, la CPAC.
Anche questo spiega la scelta di inviare una delegazione non troppo ampia e rumorosa alla CPAC. I quattro rappresentanti di Fratelli d’Italia sono rimasti a Washington tre giorni: hanno visitato l’ambasciata italiana, hanno incontrato imprenditori italoamericani attivi in America, hanno avuto colloqui con rappresentanti di vari think tank insieme ai colleghi dell’ECR, aderendo peraltro all’iniziativa del Repubblicano Grover Norquist e cioè firmando un impegno a non introdurre nuove tasse (negli Stati Uniti o in Italia, questo non è chiaro).
Hanno poi seguito i lavori della Conferenza, partecipando anche alla cena di gala, la cosiddetta “Ronald Reagan Dinner”, sedendo allo stesso tavolo di altri leader di estrema destra, come il rumeno George Simion, coinvolto in qualche polemica politica anche in Italia per via di alcuni suoi recenti insulti a Ursula von der Leyen. La senatrice di Fratelli d’Italia Cinzia Pellegrino ha detto poi che «ai conservatori americani ci accomunano la tutela dell’identità e delle libertà, nonché il contrasto alla cancel culture, alla woke culture e alle “follie gender”». Non è chiaro cosa intendesse Pellegrino con «follie gender», ma il riferimento in generale è ad alcuni cavalli di battaglia dell’alt-right, l’estrema destra americana: sono però aspetti ideologici e di valore, che poco hanno a che fare con la politica estera.
Salvini nel frattempo non ha perso una sola occasione per complimentarsi su X (Twitter) con Trump per le sue recenti e costanti vittorie alle primarie del Partito Repubblicano, mentre Meloni ha evitato qualsiasi commento che avesse a che fare con le elezioni americane. La sua posizione al momento si regge su un equilibrio ambiguo: da un lato non può rinnegare esplicitamente Trump, per evitare che molti simpatizzanti di destra italiani critichino la sua incoerenza e che i loro voti vadano a Salvini; dall’altro non può neppure esplicitamente dichiarare il suo rinnovato apprezzamento per Trump, dal momento che questo contraddirebbe i principali punti della sua politica estera, a partire dall’impegno a sostenere l’Ucraina.