Come si vive nel paese che muore
Civita di Bagnoregio è isolata e allo stesso tempo visitata ogni giorno da migliaia di persone, una condizione unica e complicata per i suoi 13 abitanti
di Isaia Invernizzi
Agli abitanti di Civita di Bagnoregio spesso capita di trovarsi persone sconosciute che guardano dentro le loro case. Più di rado qualcuno entra senza suonare il campanello o chiedere il permesso. «Scusi, lei che ci fa qui?», ha chiesto tempo fa Maurizio Rocchi a un uomo fermo in piedi all’ingresso con una macchina fotografica a tracolla. «Sto a fa’ ‘na foto», ha risposto lui con leggero imbarazzo.
Rocchi abita qui da 13 anni e ormai ci ha fatto l’abitudine: per le centinaia di migliaia di turisti che ogni anno visitano Civita è come aggirarsi in un museo da esplorare, dove tutto si può vedere e fotografare. In realtà tra i vicoli di questo piccolo paese in provincia di Viterbo oltre a Rocchi e a sua moglie abitano altre 11 persone che negli anni hanno imparato a convivere con i turisti e accettato compromessi per continuare a rendere Civita un posto abitato e abitabile.
Civita costituisce uno dei panorami italiani più noti al mondo. Il paese si trova a poco meno di due ore in auto da Roma, in cima a una rupe di tufo al centro della valle dei calanchi, formazioni di argilla e calcare modellate dall’erosione e dal vento. È collegato a Bagnoregio, il comune di cui è frazione, da un ripido ponte di cemento armato costruito nel 1965 da cui si può passare soltanto a piedi o al massimo con piccoli mezzi a motore e motorini. Qui sono stati girati film, serie televisive e negli ultimi anni diversi spot pubblicitari. Il caratteristico effetto di sospensione delle case tra le nuvole, visibile soprattutto durante i mesi invernali, ispirò il regista giapponese di film di animazione Hayao Miyazaki per il suo Laputa – Castello nel cielo uscito nel 1986.
Lo scrittore Bonaventura Tecchi, nato a Bagnoregio nel 1896, descrisse così Civita nel racconto intitolato “Antica terra”:
«Tutto quel che è rimasto – un ciuffo di case e di mura in rovina, nere sul tufo, erette come sul vuoto – respira ormai l’atmosfera della fine. La fiaba del paese che muore – del paese che sta attaccato alla vita in mezzo a un coro lunare di calanchi silenziosi e splendenti, e ha dietro le spalle la catena dei monti azzurri dell’Umbria – durerà ancora».
La precarietà fa parte della storia di questo paese e in un certo senso è il principale motivo della sua fortuna. Il rischio di non poter rivedere più Civita spinge ogni anno centinaia di migliaia di turisti a deviare il tragitto nel viaggio tra Roma e Firenze per visitare “il paese che muore”, diventato un marchio.
Negli ultimi vent’anni la crescita del turismo è stata notevole. Si è passati dai 40mila visitatori del 2010 al milione del 2019, l’anno che ha preceduto la pandemia. I picchi sono soprattutto nei periodi delle feste – a Pasqua e durante i ponti primaverili – e nei mesi estivi. La presenza di tante persone in un paese così piccolo e fragile ha portato il comune a interrogarsi sui rischi del cosiddetto overtourism, cioè il sovraccarico di turisti che in alcuni periodi dell’anno rende caotica la visita delle città e dei paesi più turistici, così come la vita di chi ci vive.
Molti anni prima di Venezia, Bagnoregio è stato uno dei primi comuni in Italia a introdurre un pagamento per regolare e limitare l’arrivo dei turisti. Dal 2013 chiunque passa sul ponte di accesso deve pagare un biglietto: inizialmente era di 1,5 euro, saliti poi a 3 e ancora fino agli attuali 5. Grazie a questo contributo le tasse comunali sono bassissime. Tra le altre cose, gli incassi servono a sostenere i costi dei cantieri per contrastare il dissesto idrogeologico dovuto all’erosione, che non si ferma mai.
Quando era piccolo Maurizio Rocchi veniva a Civita solo d’estate, nella casa che da sempre era della sua famiglia. Nacquero qui i suoi nonni e anche suo padre, che tuttavia negli anni Settanta lasciò il paese insieme a molti altri abitanti, in cerca di comodità. Rocchi è tornato dopo aver ristrutturato con pazienza la casa di famiglia, dove abita con la moglie. Le condizioni di chi abita a Civita sono molto particolari, uniche in Italia: si vive quasi isolati eppure ogni giorno a contatto con migliaia di persone provenienti da quasi ogni parte del mondo.
Far fronte alle scomodità è tutta una questione di organizzazione, dice Rocchi. Gli abitanti possono usare un motorino per superare il ponte, ma solo la mattina presto o la sera tardi perché se c’è molta gente è pericoloso. Non ci sono scuole, poste, banche, farmacie, ambulatori medici. L’auto viene lasciata in un parcheggio oltre la valle e gli spostamenti dipendono molto dal meteo: quando piove, tira vento o si forma il ghiaccio è tutto più difficile. Si cerca di fare poche grandi spese e di gestire le scorte perché se manca qualcosa non si può andare al negozio sotto casa, visto che non ce ne sono.
«Dimenticare qualcosa in macchina è un vero disastro», dice Rocchi ricordando alcune scarpinate su e giù dal ponte. «A Civita vale un proverbio, nel nostro caso con un significato letterale: chi non ha buona testa, ha buone gambe». L’isolamento ha anche i suoi vantaggi. Rocchi fa il poliziotto a Orvieto e gli capita di tornare a notte fonda o alla mattina presto: «Vedere l’alba e stellate spettacolari su Civita, senza nessuno, in un silenzio “assordante”, non ha prezzo».
Nonostante l’invadenza e le scocciature, gli abitanti considerano i turisti una risorsa: oltre al pagamento del biglietto di ingresso, l’arrivo di migliaia di persone al giorno ha contribuito a creare nuovi posti di lavoro. A Bagnoregio sono stati aperti negozi, bar e gelaterie, molte case di Civita sono state trasformate in B&B. «Il turismo serve, dà lavoro, però non è semplice trovare un equilibrio», continua Rocchi. «Più che un discorso di quantità, bisognerebbe ragionare sulla qualità e sull’educazione. Soprattutto quando arrivano grandi gruppi c’è molto rumore. Vogliono vedere tutto, quasi fosse un parco giochi».
Per il comune non è semplice capire qual è il limite, anche se spesso il sindaco Luca Profili ha fatto riferimento al passato recente – al milione di visitatori del 2019 – parlando di “eccessi”. «Dobbiamo sempre ricordare che questo luogo deve la sua bellezza alla sua fragilità», dice.
Negli ultimi anni qualcosa è cambiato: alla promozione internazionale di Civita e alle candidature a entrare nei siti patrimonio dell’Unesco e a capitale italiana della cultura è stato affiancato un lavoro per incentivare il turismo sostenibile e la scoperta di percorsi intorno al paese. Per esempio, sono sempre di più i turisti che frequentano la valle dei calanchi. È un modo per farli fermare più giorni limitando in piccola parte il cosiddetto turismo “mordi e fuggi”, cioè le visite di poche ore. È stata migliorata la distribuzione dei parcheggi e l’organizzazione degli spostamenti per tenere lontano il traffico dal centro di Bagnoregio.
Ci sono poi i piani per ridurre l’impatto del dissesto idrogeologico. Diversi studi di geologi stimano che negli ultimi 500 anni la superficie della rupe si sia ridotta del 20%. Ogni anno ci sono frane e smottamenti. Anche se è difficile calcolarne l’impatto, il passaggio di migliaia di persone ogni giorno non aiuta a preservare la stabilità del centro storico. Nel maggio del 2023 il comune di Bagnoregio ha ottenuto un contributo da quasi un milione di euro dal ministero dell’Economia per realizzare dei pozzi che serviranno a far defluire l’acqua e ridurre il rischio di frane sul versante a nord. «Abbiamo fatto molto, ma bisogna intervenire in continuazione», dice il sindaco. «Noi ci mettiamo del nostro, ma gli aiuti dei ministeri e in generale del governo sono essenziali per dare un futuro a Civita».
Non mancano pareri molto meno indulgenti nei confronti dello sviluppo turistico. In un articolo pubblicato da Artribune e intitolato “Civita di Bagnoregio, il paese che muore (di marketing)”, il professore di Urbanistica dell’università Sapienza di Roma Giovanni Attili ha scritto che i turisti accorrono a Civita «sedotti dal branding spettacolare del “paese che muore”. Cercano rovine e abbandono: frammenti di una morte miniaturizzata e accessibile. Vorrebbero respirare un’apocalisse tascabile da immortalare nel proprio cellulare. Loro malgrado trovano un paese abitato e ricostruito. Un paese completamente trasformato dall’industria turistica e dai suoi tentacoli mercificanti».
Rossana Medori ha 77 anni, è nata a Civita e ha sempre abitato in una casa accanto alla chiesa, nell’unica grande piazza del paese. I genitori coltivavano campi nella valle dei calanchi. Ogni giorno salivano e scendevano dal paese col mulo. Medori ricorda che anni fa ai piedi della rupe c’erano giardini e orti che ora non ci sono più, portati via dalle frane. Tra gli anni Settanta e Ottanta molti abitanti pensavano che Civita sarebbe crollata nel giro di pochi anni e per questo si trasferirono in un quartiere di Bagnoregio, non a caso chiamato Civita Nova. «Il paese è stato abbandonato per comodità e per paura», dice Medori. «Molte case sono state vendute per pochi soldi, ora hanno un valore enorme».
Tra turisti americani, australiani, norvegesi, coreani e cinesi, gli abitanti di Civita continuano a conoscersi tutti tra loro e a frequentarsi. Ogni tanto organizzano delle cene e ci si ritrova anche per le festività religiose. «Devo dire la verità: a me piaceva anche il paese con pochi abitanti», dice Medori ridendo. «Ma d’altronde il mondo cambia e Civita è cambiata in bene perché sono nate tante nuove attività grazie ai turisti. Sono tanti, ma senza di loro qui non ci sarebbe più nessuno».
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