Non siamo così d’accordo su cosa sia davvero una specie
Stabilire con certezza i confini tra diversi tipi di esseri viventi non è sempre semplice, e diventa più complicato man mano che aumentano le nostre conoscenze
Il gammaro dei fossi, un crostaceo appartenente all’ordine degli anfipodi, è ampiamente diffuso nei torrenti in Europa e la sua presenza è un valido indicatore della qualità dell’acqua dolce. All’apparenza è simile a un minuscolo gamberetto e per diverso tempo si pensò che tutti i suoi individui appartenessero a un’unica specie (Gammarus fossarum), ma è ormai evidente che le cose stanno diversamente. Si stima che 25 milioni di anni fa iniziarono a prodursi linee di discendenza separate che portarono a sue nuove sottospecie: a seconda di come vengono classificate le differenze genetiche di questi animali, le probabili specie di questi piccoli crostacei sono 32 o addirittura 152.
Quello del gammaro dei fossi non è un caso isolato: i progressi nella ricerca e nella capacità di analizzare gli intricati percorsi evolutivi hanno aggiunto nuove importanti complicazioni nel modo in cui vengono classificate le specie. Nel nostro colossale e instancabile lavoro di classificare gli esseri viventi che condividono con noi il pianeta, il livello di complessità è ormai tale da fare mettere in discussione il modo stesso con cui per lungo tempo abbiamo identificato e definito le specie.
Classificare le specie e provare a organizzarne i complessi gradi di parentela tiene impegnati i naturalisti da molti secoli e il loro lavoro, che si è modificato e arricchito nel corso del tempo, è stato accompagnato da polemiche, critiche e riflessioni filosofiche. Nel suo Saggio sull’intelletto umano pubblicato nel 1689, il filosofo britannico John Locke si interrogò a lungo sulla classificazione delle specie in un discorso più ampio su come si svilupparono la conoscenza umana e l’intelletto. Nel suo trattato scrisse: «I confini delle specie sono quali li fanno gli uomini, e non la natura, ammesso che in natura ci siano confini prefissati».
Le riflessioni di Locke non piacquero al matematico e filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz, che scrisse Nuovi saggi sull’intelletto umano, un trattato che smontava punto per punto la maggior parte delle assunzioni formulate dal filosofo britannico. Tra le altre cose, Leibniz criticava lo scetticismo mostrato da Locke sulla classificazione delle specie e il tentativo di provare a fare ordine nella natura.
Il lavoro di sistematizzazione e classificazione raggiunse l’apice nel diciottesimo secolo grazie agli studi del naturalista svedese Carl Nilsson Linnaeus (quasi sempre italianizzato in Linneo), che perfezionò un sistema di nomenclatura binomiale che viene utilizzata ancora oggi con l’aggiunta di opportune integrazioni. La classificazione linneana organizza gli esseri viventi in vari livelli gerarchici: si parte dai regni (si aggiunse poi il concetto di dominio al di sopra, per includere batteri e archèi) che si dividono in phylum, si prosegue poi con le classi che si diramano a loro volta in ordini e ancora in famiglie, generi e infine specie.
Lavorando su proposte e riflessioni di alcuni importanti suoi predecessori, come lo svedese John Ray, Linneo perfezionò un sistema che prevedeva di utilizzare un binomio latino per identificare ogni specie. Utilizzò il primo nome per indicare il genere, che era per forza comune a più specie, e il secondo per caratterizzare una singola specie e distinguerla dalle altre.
Nel caso del Gammarus fossarum, il minuscolo crostaceo europeo, Gammarus indica il genere, mentre fossarum è l’epiteto per distinguere una certa specie. Ma come abbiamo visto, questo sistema funziona solo fino a un certo punto, perché nel caso del gammaro dei fossi abbiamo via via scoperto l’esistenza di molte specie che per lungo tempo sono state chiamate tutte con lo stesso nome.
Linneo aveva del resto pensato al suo sistema di classificazione in un periodo in cui le conoscenze scientifiche sulle specie erano ancora relativamente limitate, con una certa convinzione che esistessero da sempre più o meno in quel modo e che fossero il frutto di una creazione divina. Si confrontavano le caratteristiche, si identificavano le cose in comune e sulla base di quelle si stabiliva la classificazione.
Fu necessario circa un secolo perché iniziasse a fare presa il concetto di evoluzione, grazie al lavoro di altri naturalisti come Charles Darwin. Le specie non erano dunque da sempre uguali, ma il frutto di un incessante processo di evoluzione, immaginabile come un gigantesco albero genealogico con migliaia di biforcazioni e rami. In quel contesto, stabilire con esattezza quando una specie fosse diventata tale si rivelò più difficile.
A quasi due secoli di distanza dal lavoro di Darwin, sappiamo molte cose in più sull’evoluzione e il caso del gammaro è solo uno dei tanti simili, come ha raccontato di recente il giornalista scientifico Carl Zimmer in un articolo sul New York Times. Nel 1758 Linneo aveva descritto una singola specie di giraffa classificandola come Giraffa camelopardalis e in seguito si aggiunsero nove sottospecie (cioè con differenze minime tali da essere considerate difficilmente una specie a sé). Oggi diversi studi sulle caratteristiche genetiche di questi animali hanno portato a una revisione della tassonomia, sulla quale non sono però tutti d’accordo.
Alla tassonomia classica se ne sono aggiunte altre che identificano tre, quattro e perfino otto specie diverse. La seconda è tra le più condivise e comprende la giraffa settentrionale (G. camelopardalis), la giraffa reticolata (G. reticulata), la giraffa meridionale (G. giraffa) e la giraffa masai (G. tippelskirchi). Ne esistono nel complesso 117mila esemplari in Africa e per questo le giraffe sono considerate “vulnerabili” e non in pericolo immediato di estinzione, ma le cose cambierebbero se fossero considerate come specie distinte. In questo caso la giraffa settentrionale sarebbe tra gli animali a maggior rischio di estinzione, a causa della distruzione dei suoi habitat tra Niger ed Etiopia e del bracconaggio.
Secondo alcune organizzazioni impegnate nella tutela delle giraffe, una classificazione più chiara potrebbe aiutare a salvare questi animali, facendo maggiori pressioni sui governi e sulle istituzioni internazionali. È un esempio di come stabilire il confine tra una specie e un’altra abbia risvolti pratici non indifferenti, rispetto a discussioni e ragionamenti più teorici che possono apparire slegati dalla realtà. La definizione più condivisa di cosa sia una specie è del resto relativamente recente e viene impiegata da circa 80 anni.
Negli anni Quaranta del secolo scorso, l’ornitologo tedesco Ernst Mayr fu infatti tra gli studiosi che provarono a introdurre una nuova definizione di specie, basandosi sul modo in cui gli esseri viventi si riproducono. L’idea di base è relativamente semplice: se due animali non si possono riprodurre tra loro, allora appartengono a specie diverse. Questa distinzione ebbe una grande presa tra i naturalisti, ma presentava comunque qualche problema. Una balena non può riprodursi con un cardellino, questo è abbastanza evidente, ma ci sono molti casi in cui animali di specie diverse in qualche modo imparentate riescono comunque a riprodursi tra loro (il limite successivo è l’eventuale capacità della prole di riprodursi e di non essere sterile).
Zimmer nel suo articolo cita il caso di diverse specie di rane europee, studiate negli ultimi anni dall’erpetologo francese Christophe Dufresnes. Analizzandone il comportamento e le generazioni, Dufresnes ha notato che alcuni gruppi di rane portano di frequente alla nascita di incroci, ma solo in alcuni casi. Studiandone il materiale genetico, il ricercatore ha notato che i gruppi di rane con un antenato comune relativamente recente, e quindi maggiormente imparentate, tendono a produrre incroci con maggiore frequenza. Secondo le stime di Dufresnes sono necessari fino a sei milioni di anni prima che due gruppi di rane – che evolvono da una stessa biforcazione nell’albero evolutivo – perdano la capacità di incrociarsi, diventando di fatto due specie diverse.
Gli studi come quelli di Dufresnes hanno contribuito ad aggiungere un quadro temporale alla definizione data da Mayr, ma non risolvono completamente il problema. Mostrano infatti che la differenziazione tra specie avviene molto lentamente, almeno per i tempi umani, e che ci può essere un periodo molto lungo in cui specie che si stanno differenziando continuano a essere in grado di incrociarsi e riprodursi. È un processo che avviene ancora oggi e che riguarda molti esseri viventi che abbiamo intorno, ma è difficile capire se stia ancora avvenendo o se si sia concluso.
In tempi remoti un fenomeno simile a quello osservato in alcune specie di rane avvenne con gli orsi. Oggi vediamo un orso polare e un orso bruno e sappiamo che si tratta di due animali molto diversi, seppure con qualche elemento in comune. Sappiamo inoltre che la pelliccia molto chiara degli orsi polari è il frutto dell’adattamento all’ambiente circostante, che nel loro caso è quasi sempre fatto di neve e ghiaccio nei quali mimetizzarsi. L’orso bruno si è invece adattato a vivere su terreni dove una pelliccia scura si confonde meglio con l’ambiente che ha intorno. Oltre a questi aspetti più evidenti, queste due specie hanno altre caratteristiche tali da essere distinguibili anche nei resti di orsi risalenti a centinaia di migliaia di anni fa.
Proprio studiando quei reperti e analizzandone il DNA è emerso che per un lungo periodo orsi polari e orsi bruni si incrociarono tra loro. La loro differenziazione iniziò da un antenato comune circa mezzo milione di anni fa, ma per migliaia di anni i due gruppi continuarono a incrociarsi e a rimescolare il loro materiale genetico. Si differenziarono in modo più netto solamente 120mila anni fa e da allora i casi di incroci diventarono via via più sporadici, fino a quando le due specie furono pressoché incompatibili alla riproduzione comune. Il periodo precedente e molto lungo di incroci lasciò comunque il segno, se si considera che ancora oggi il 10 per cento del DNA di un orso bruno deriva da quello degli orsi polari.
Quando si parla di ibridi tendiamo a pensare ad animali con cui abbiamo una certa dimestichezza, come il mulo che è un incrocio tra un asino e una cavalla. In realtà ci sono molti altri esempi come la ligre, che nasce da un incrocio tra un maschio di leone e una femmina di tigre, il cama che ha come genitori un lama e un cammello, e ancora lo zebrallo, che nasce da una zebra e un cavallo. La grande varietà di ibridi osservabili oggi ci ricorda che i confini tra specie diverse sono spesso labili e che ci sono molte eccezioni alla regola di Mayr.
A dirla tutta, un altro animale che conosciamo molto bene è anche il frutto di una ibridazione, per lo meno parziale: l’essere umano. La nostra evoluzione è stata tutt’altro che lineare e ha compreso lunghi periodi di riproduzione tra specie diverse. Le analisi genetiche svolte soprattutto negli ultimi anni sfruttando il DNA antico, per esempio, hanno evidenziato come per diverso tempo ci furono incroci tra gruppi di Neanderthal e umani moderni, tanto che si ritrovano ancora oggi tracce genetiche dei Neanderthal in alcune popolazioni. La differenziazione e classificazione delle specie e sottospecie di umani è ancora oggi molto dibattuta, a ulteriore dimostrazione di quanto sia difficile stabilire che cosa sia davvero una specie.
Chi si occupa di classificazione e tassonomia impara a muoversi nell’incertezza e a gestirla, come del resto fa praticamente chiunque si occupi di scienza, ma la mancanza di punti fermi può essere a volte frustrante. È probabilmente anche per questo motivo che di recente l’Unione ornitologica internazionale ha scelto di provare a mettere ordine nelle diatribe che spesso nascono intorno alla classificazione delle specie di uccelli.
Nel 2021 l’Unione ha incaricato un gruppo di lavoro di riorganizzare le quattro liste più condivise di specie aviarie, realizzando un unico grande catalogo. Per farlo, nove esperti si confronteranno su oltre 11mila specie, votando di volta in volta sulla base di alcuni criteri per definire le singole specie. Il confronto non è sempre pacifico e richiede una certa capacità di mediazione, tra chi vorrebbe spesso mettere insieme più uccelli in un’unica specie e chi invece propone di mantenere una differenziazione più marcata.
Le nuove opportunità offerte dai progressi in campo informatico potrebbero comunque aiutare, non solo nella catalogazione degli uccelli. Alcuni gruppi di ricerca hanno per esempio iniziato a lavorare a sistemi di riconoscimento automatico delle immagini, in modo da mettere a confronto molto più velocemente individui fotografati negli ambienti naturali con gli esemplari conservati nei musei o rappresentati nei loro cataloghi. Dal confronto possono emergere dettagli su somiglianze o altre caratteristiche da approfondire, anche sul piano genetico, in modo da fare meglio ordine.
Al di là degli aiuti offerti dalle nuove tecnologie informatiche e di analisi genetica, il lavoro di catalogazione e costruzione delle tassonomie è comunque lungo e impegnativo, nonché enorme. A oggi la catalogazione ha interessato più o meno 2,3 milioni di specie, ma più si studiano i diversi ambienti e la loro diversità più emerge che ci sono ancora milioni se non miliardi di specie da scoprire e catalogare. Alcuni sono minuscoli e difficili da identificare e studiare a causa della loro alta variabilità, come alcuni gruppi di batteri, altri semplicemente vivono in ambienti dove un tempo non si riteneva potesse esserci la vita, come è il caso degli organismi estremofili.
Ed è proprio studiando e catalogando gli estremofili che iniziano a esserci ipotesi e supposizioni su come potrebbero essere fatte forme di vita su altri pianeti. Forse un giorno dovremo catalogarle insieme alle altre, ma questa è un’altra storia.