Si può detestare la propria madre da sempre
Così racconta Antonio Franchini all'inizio del suo nuovo romanzo autobiografico, "Il fuoco che ti porti dentro"
Negli ultimi anni sono stati scritti e pubblicati molti romanzi autobiografici e memoir, cioè libri di memorie, dedicati ai genitori degli autori ma nella maggior parte dei casi non cominciano con una dichiarazione di detestazione per la madre o il padre in questione. È però questo il caso di Il fuoco che ti porti dentro, il nuovo romanzo-memoir – così lo definisce l’editore Marsilio – di Antonio Franchini, scrittore, editor e direttore editoriale di Giunti. Il libro, di cui pubblichiamo le prime pagine, parla della vita e della morte di Angela, madre di Franchini, e indaga sulle ragioni del suo essere una donna che odiava molte cose e persone. Franchini ne parlerà durante la nuova edizione di Pensavo Peccioli, il festival progettato e curato dal direttore del Post Luca Sofri a Peccioli in provincia di Pisa, sabato 9 marzo, conversando con Giorgio Zanchini.
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Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza.
Tra noi se ne parla senza allusioni.
«Pare ’e trasì dint’ ’a grotta d’ ’o cane» dice mio padre uscendo dalla camera da letto alla fine del loro riposo pomeridiano. Si riferisce a un passaggio sotterraneo nella solfatara di Pozzuoli, dove i miasmi di anidride carbonica ristagnano al di sotto del metro di altezza lasciando indenne l’essere umano ma soffocando il cane che s’avventuri incauto per quel budello.
Forse è la vasta cicatrice slabbrata, che come un cratere di carne devasta il suo ventre operato poco dopo la mia nascita, a giustificare il marciume che le fermenta dentro ed esala il fetore inconfondibile che rende vana l’ultima risorsa di chi scorreggia: addossare la colpa a un altro.
Lei del resto neppure ci prova, e a ogni sfiato, che l’allerta familiare immediatamente rimarca con risate e schiamazzi, fa sempre seguire una smorfia di rivendicazione soddisfatta il cui significato è: di questa putredine io mi sono liberata, adesso respiratevela voi.
Ma nessuno di noi sente imbarazzo, nessuno prova vergogna. Il corpo umano puzza e lo testimoniano le filastrocche che mia nonna, sua madre, ci insegna:
Fieto fieto fietillo,
chi l’ha fatto? L’ha fatto chillo, e l’ha fatto don Ciccillo,
come puzza lu malandrino…
O un’altra in cui si parla di una bambina, una certa Luciella, che ha fatto «na cazz’ ’e loffa» e mette in fuga il poeta che versifica in un astruso dialetto campano, irriconoscibile ai più e adeguato allo squallore della situazione: «Uh, come puzzanne! Io fuietti fore…»
E così si dimostra una verità senza scampo: al mondo puzzano tutti, anche i bambini, anzi i bambini più degli altri.
Mi rendo conto che l’odore materno è complesso e ha tante sfumature e i figli piccoli lo cercano su cuscini e vestiti, e crescendo ancora lo riconoscono, affievolito dal tempo, sugli abiti vecchi e negli armadi stipati della biancheria dei genitori defunti, e mi chiedo quanto abbia pesato su di me che l’odore di mia madre fosse una puzza e quanto abbia contribuito a un’avversione che dura da sempre.
Ai miei occhi, alla luce di tutto ciò in cui ho creduto, lei che adesso sta chiusa in casa e aspetta la morte ha avuto una vita di merda.
E pur essendo giusto che i miei giudizi non contino niente e lei possa benissimo essere convinta di aver avuto una vita meravigliosa, resta il fatto che adesso sta chiusa in casa e aspetta la morte e non ha altro con cui distrarsi se non rimuginare il passato, rimasticare, come ha sempre fatto, le scorie della sua esistenza, compitare con monotonia selvaggia quell’inesauribile odio che la nutre da quando è nata.
Mia madre si chiama Angela e tra le infinite cose che non ama la prima è il suo nome.
Quando qualcuno la chiama «Angela» spesso reagisce aggiungendo, con tono infastidito: «Carmela Candida!», ovvero declinando il suo secondo e il terzo nome. Come a significare due cose, che anche gli altri nomi con i quali è stata identificata all’anagrafe le fanno schifo e che la cosa migliore che il suo prossimo possa fare è lasciarla perdere, non chiamarla affatto, se non a proprio rischio e pericolo.
Da quindici anni si è trasferita al Nord e abita al piano terra in un appartamento che confina col mio. È un monolocale dal quale è certa che io voglia cacciarla per chiuderla in un istituto, convinzione non priva di fondamento.
Sono andato via di casa a diciannove anni per non vederla più, ho vissuto lontano decenni per mantenere, a di stanza, un rapporto formalmente decoroso, poi il destino, che ha spesso il talento di predisporre le cose nel modo peggiore, ci ha riunito.
Del Nord non ha visto molto oltre il giardino condominiale, ma le basta per schifarlo, anche se è stata lei a volerci venire.
Concorde in questo con lo spirito del nostro tempo, non solo non teme la contraddizione ma disprezza la coerenza.
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La detesto da sempre, da quando la mia vita ha cominciato a staccarsi dalla sua e si è aperta sul mondo, perché ci ho messo poco a capire che il mondo giusto – quel luogo inesistente che i giovani sognano e alcuni adulti idealisti si impegnano a fargli credere che esista – faceva, diceva, pensava tutto ciò che mia madre non faceva, non diceva, non pensava.
Mi ha dato un’educazione a rovescio: i valori ai quali si ispira o li esprime in una forma riprovevole o sono disvalori veri e propri.
Detestare è il verbo più preciso. Non so se la odio, anche se spesso ho pensato di odiarla, ma forse erano sentimenti più miseri e meno radicali quelli che mi ispirava: irritazione, o rabbia. La detesto, neanche l’aborro, nel verbo aborrire c’è un’idea di fiera opposizione della quale il mediocre orrore che lei mi suscita non è degno. Nel detestare è invece implicita una presa di distanza, da un essere umano come da un’idea, e il desiderio di non volerci avere a che fare, di volersi spostare da ogni possibile linea di collisione. Un movimento evasivo facile, se la persona da tenere lontana non è la propria madre.
È infatti la sua concezione della vita che mi ha sempre fatto schifo; ma qualche sera fa, non so perché, forse la sentivo silenziosa da troppo tempo, mi sono issato alle inferriate della sua finestra e le ho guardato dentro casa.
Era stesa di traverso sul letto – ormai è ridotta a un nido di ossa e quando giace rannicchiata occupa poco spazio –, assopita o quasi, mentre il televisore andava, buttata là come un oggetto che, lasciato cadere, ha trovato una sistemazione sbilenca ma non può che rimanere dove sta, e non si è accorta che la fissavo.
Per una volta, scoprendola nella sua postura di cosa abbandonata, mi sono reso conto che è mia madre e che sta morendo e che tutto ciò contro cui ho lottato per tutta la vita si dissolverà con lei, nel vuoto, in un niente.
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