La transumanza degli insegnanti del sud
«Il primo giorno di scuola ero disorientato dall’insistenza con cui gli studenti mi chiedevano di andare in bagno. Però che sollievo quando, nella prima ora buca della mia vita, ho messo piede in una ciarliera aula docenti. Colleghe sorridenti, tutto un gran da fare tra computer e stampanti prima del suono della campanella. E, soprattutto, l'eterogeneità di accenti: in un attimo rispolveravo i vecchi seminari di dialettologia che avevo seguito alla Federico II: le consonanti occlusive aspirate della bidella calabrese, le semiconsonanti del collega di Salerno, per non parlare delle vocali platealmente aperte della dirigente catanese che rimbombavano nel refettorio. A volte, nell’atrio della scuola, magari nel tepore di un raggio di sole, mi pareva di essere tornato a casa solo perché i due bidelli gridavano in un napoletano sguaiato contro l’autista della Milano ristorazione che non riusciva a fare manovra»
Ho iniziato a insegnare per caso. Ammetto che questo lavoro non era nelle mie priorità.
Mi ero licenziato da un ufficio i cui orari non andavano d’accordo con i miei ritmi circadiani, i pomeriggi chiusi in una redazione buia compromettevano troppo il mio livello di serotonina. Da Napoli mio padre si stupiva di fronte alle mie velleità editoriali, dando per scontato che con la mia laurea in Lettere avrei potuto trovare una soluzione a tutti i problemi di un mercato del lavoro impossibile: insegnare.
Ma avevo attraversato gli anni universitari pieno di sciocco snobismo. Mi ero aspettato che il chiostro di Porta di Massa, l’assolata sede del Dipartimento di studi umanistici della Federico II, mi avrebbe accolto con il gusto di una corte medicea e invece ero circondato da futuri insegnanti che già durante la triennale sommavano i crediti necessari per le classi di insegnamento di allora: A22 (italiano, storia e geografia nella secondaria di I grado) o A012 (discipline letterarie nella secondaria di II grado) a me suonavano come volgari schematizzazioni di un sapere alto, talmente alto che alla fine non ho più capito dove dovesse poi condurmi. La mia presunzione da universitario si è dovuta parecchio ridimensionare quando una mattina, mentre mandavo curriculum a caso e rimaneggiavo la mia eterna raccolta di racconti, ho ricevuto la laconica telefonata dalla segreteria di un liceo di Milano, zona Niguarda, per la mia prima presa di servizio.
Poche storie, mi metto sul primo treno disponibile e per un po’ faccio il pendolare da Lecco dove avevo un appoggio provvisorio. Sveglia alle cinque e selfie tra la nebbia della stazione buia da mandare a mio padre accompagnati da messaggi come: «Guarda che fine ho fatto». Il primo giorno di scuola ero disorientato dall’insistenza con cui gli studenti mi chiedevano di andare in bagno. Ricevo il primo richiamo perché non potevo fumare in cortile – «c’è una legge del 2013», mi spiega una collega tabagista che mi porta a fumare alle spalle della palestra. Però che sollievo quando, nella prima ora buca della mia vita, ho messo piede in una ciarliera aula docenti. Colleghe sorridenti, tutto un gran da fare tra computer e stampanti prima del suono della campanella. E, soprattutto, l’eterogeneità di accenti: in un attimo rispolveravo i vecchi seminari di dialettologia che avevo seguito alla Federico II: le consonanti occlusive aspirate della bidella calabrese, le semiconsonanti del collega di Salerno, per non parlare delle vocali platealmente aperte della dirigente catanese che rimbombavano nel refettorio durante il collegio unitario. A volte, nell’atrio della scuola, magari nel tepore di un raggio di sole, senza accorgermene mi pareva di essere tornato nel quartiere di periferia dove sono cresciuto solo perché i due bidelli all’ingresso gridavano in un napoletano sguaiato contro l’autista della Milano ristorazione che non riusciva a fare manovra.
Qualche giorno dopo la mia presa di servizio la scuola ospitò nella sala mensa una giovane compagnia di teatro. Non ricordo lo spettacolo, ero troppo impegnato a vigilare sui miei studenti e ancora intontito dalle levatacce per entrare alla prima ora, ma ricordo solo un attore che impersonava un vecchio professore in pensione. Recitava con uno smaccato accento siciliano, una macchietta. Dal nulla una collega napoletana si volse verso di me con aria di sussiego per dirmi: «Capisci? Loro ci vedono così».
Che la maggior parte dei docenti delle scuole lombarde avesse origini meridionali era una delle tante cose che ignoravo di Milano. Troppo concentrato sul dramma degli amici che espatriavano, non avevo mai riflettuto sull’esistenza di una migrazione interna. La transumanza dei docenti è un fenomeno antico, la meridionalizzazione dell’impiego pubblico (di cui un quarto è costituito da personale docente) è uno di quei luoghi comuni che hanno un fondo di verità.
A occuparsi di fenomeni migratori interni sono stati Stefano Gallo e Michele Colucci, entrambi ricercatori in storia contemporanea del Cnr, con il loro studio del 2017 In cattedra con la valigia. La ricerca esamina per la prima volta le regole del mercato del lavoro nel mondo della scuola, dando particolare importanza al fenomeno della mobilità. Secondo i dati raccolti dagli studiosi per i docenti meridionali iscritti in Gae (Graduatorie a esaurimento, ovvero quelle dei soli docenti abilitati) prevale l’intenzione di abbandonare il Mezzogiorno e migrare verso il centro-nord; «in particolare la regione da cui è più alta la percentuale di domande extra-regionali tra il 2011 e il 2014 è la Basilicata (17,2%), seguita dalla Sicilia (15,3%) e dalla Campania (14,7%)». Non vengono quindi contate le richieste di mobilità di tutti i docenti che hanno fatto domanda nelle graduatorie d’istituto, cioè quelle dei non abilitati, dalle quali si può essere poi convocati direttamente dai dirigenti scolastici, un po’ un’ultima spiaggia per completare l’organico.
Tra queste – circa settecentomila domande nel solo triennio 2017/2020 (le graduatorie si aggiornano ogni tre anni) – c’era anche la mia, quella senza cui non sarei stato convocato a scuola una mattina di novembre. Da allora ho sempre lavorato in scuole in cui almeno la metà del personale docente era emigrato dal sud. Ho condiviso con loro il dramma dei rientri a Natale. Ho assistito a molte storie felici, di chi è partito lasciando amori e famiglia, e una volta accumulato punteggio e messe tutte le carte in regola, si è ritrovato vincitore di concorso con una cattedra non più a mille chilometri da casa ma magari a venti, trenta, facilmente raggiungibili in macchina lungo la costa ionica. Eppure c’è anche chi, come me, non vuole avere niente a che fare con le proprie origini e preferisce i vantaggi di una regione dal Pil più alto. Anche se poi capita, magari durante un intervallo rumoroso, fissando da un oblò della porta antipanico un parcheggio vuoto di Sesto San Giovanni, che mi domandi: «Ma io, come ci sono arrivato fin qui?»
Se ancora adesso mi diverto a riconoscere gli accenti dei miei colleghi, in molti invece fanno fatica a riconoscere il mio. In classe sto attento ad ammorbidire la mia cadenza, a evitare le semiconsonanti nelle parole niente e miele, addolcire i dittonghi di buono e fuoco. Ancora adesso quando gli alunni mi chiedono «prof, lei di dov’è?» evito di rispondere, ci metto un po’ a lasciarmi andare. Per me il napoletano è sempre stata una lingua violenta, forse perché ancora oggi la utilizzo quando perdo il controllo, se mi sento minacciato. A scuola, soprattutto durante i primi anni di servizio, mi è capitato di perdere la pazienza, di non riuscire a tollerare l’insistenza delle domande di un dodicenne, i capricci di una classe che ha deciso che non sei tu, per il momento, a gestire la lezione. A quel punto il dialetto torna, prepotente, se ne frega degli sguardi sgomenti degli studenti. Qualcuno a quel punto sussurra al compagno di banco: «Hai visto? Te l’avevo detto, non è pugliese. È di Napoli».
Da precario ho cambiato molte sedi. In ogni scuola in cui ho lavorato mi sono sempre sentito a casa. Mi è capitato di incontrare vecchi compagni dell’università, o amici di amici, nessun grado di separazione, addirittura quest’anno mi ritrovo come collega la madre di un mio vecchio compagno di corso. Ma che il mercato del lavoro avesse le sue regole migratorie l’ho scoperto solo quando, durante una riunione di dipartimento, quelle in cui si programmano le uscite didattiche, mi sono lasciato intruppare come accompagnatore per la più classica delle uscite sul territorio lombardo: il villaggio operaio di Crespi d’Adda.
Non la migliore delle giornate, una pioggia fitta che ci costringe a girare sotto l’ombrello, a saltare la visita al cimitero e rifugiarci in una grande sala ristoro dove insieme a noi si sono ammassate altre classi di altri istituti. Potete immaginare il caos di voci sotto il padiglione, tavolate piene di ragazzini urlanti, file infinite per i bagni, docenti che guizzano e abbaiano da una parte all’altra come cani da gregge, nel tentativo di non lasciarsi scappare nessuno e portare anche quella giornata a casa.
Mentre vigilo sui miei studenti incrocio lo sguardo di un’insegnante di un’altra scuola. Ha la mia stessa età, sguardo severo. La riconosco, non ho dubbi, abbiamo seguito gli stessi corsi alla Federico II, mi sfugge il nome ma me la ricordo bene sempre in prima fila con il flaconcino dell’amuchina. Indossa una giacca militare, i capelli ricci raccolti in una coda. Che fine hanno fatto le braccia ingioiellate, il fard che le copriva il viso in qualsiasi stagione dell’anno? Me la ricordo ancora ripetere con cadenza catatonica dei versi di Montale per poi giustificarsi con il professore di letteratura italiana contemporanea perché nella sua dispensa questo Tomasi di Lampedusa proprio non compare, è colpa della copisteria, lei purtroppo sul Gattopardo non ha proprio nulla da dire. E noi sulla soglia dell’ufficio del professore a sghignazzare sadicamente di fronte a quella figuraccia.
Eppure adesso ci ritroviamo qui, nel villaggio operaio, esempio virtuoso di archeologia industriale d’Italia, altro che Italsider di Bagnoli, tra migliaia di ragazzini. Per un attimo ci fissiamo, probabilmente abbiamo rivisto in quell’istante due versioni diverse della leggerezza degli anni universitari. Ci salutiamo con un cenno preoccupato, ma non c’è tempo per parlare, bisogna correre dietro a un altro dodicenne che sta ordinando un caffè al bar a nostra insaputa.
Oramai sono quasi dieci anni che insegno a Milano e ho smesso di sorprendermi quando, appena approdato in una nuova scuola, mi ritrovo ancora colleghi e dirigenti per la maggior parte meridionali. Non rispondo nemmeno alle battute di circostanza dei bidelli: «Ma cosa ci fate qua, Napoli è così bella». Piuttosto ho iniziato a ridefinire il mio rapporto con i luoghi, a ridisegnare la mia mappa dell’Italia, a collocare tutti noi docenti in un’unica cordata solidale che da sud risale un’autostrada del sole diretta verso scuole immerse nella nebbia, in attesa di un ufficio scolastico regionale che ci assegni una sede finalmente nostra.