L’Arabia Saudita è a corto di liquidità
Per finanziare gli enormi ed eccentrici progetti di sviluppo voluti dal principe ereditario Mohammed bin Salman non le bastano i proventi del petrolio, e ha iniziato a indebitarsi
In Arabia Saudita il Public Investment Fund (PIF), il fondo sovrano finanziato dai proventi del petrolio con cui lo stato saudita finanzia enormi e pomposi piani di sviluppo, è da qualche mese a corto di liquidità, ossia di denaro immediatamente spendibile. Questo sta spingendo il governo saudita a cercare nuovi metodi per trovarne.
Il fondo è stato usato negli ultimi anni per progetti assai ambiziosi, come per esempio quello – piuttosto contestato – di costruire una città iper futuristica nel deserto tra Arabia Saudita, Egitto e Giordania, ed enormi edifici a forma di cubo nella capitale Riyad. Con i soldi del fondo, l’Arabia Saudita ha acquistato varie squadre sportive in giro per il mondo, ospitato eventi di rilievo internazionale, e così via.
Il fondo ha dichiarato di recente che a settembre i suoi livelli di liquidità erano scesi a circa 15 miliardi di dollari, il livello più basso da dicembre 2020, quando ha iniziato a pubblicare i dati. Per tenere attivi i progetti l’Arabia Saudita ha dunque bisogno di soldi nell’immediato e secondo il Wall Street Journal starebbe sperimentando alcune modalità da cui si era tenuta alla larga negli ultimi decenni: i prestiti e la vendita di parte della quota azionaria che il PIF detiene nella grande azienda petrolifera di stato, la Saudi Aramco.
È una cosa abbastanza eccezionale, perché il fondo saudita è tra i più ricchi al mondo: vale complessivamente 700 miliardi di dollari in investimenti, ed è il sesto al mondo. È anche il fondo sovrano più attivo a livello globale, ossia quello che fa più operazioni straordinarie: secondo la società di dati Global SWF nel 2023 il PIF ha speso 32 miliardi di dollari in 49 acquisizioni e altre operazioni, un terzo in più rispetto all’anno precedente, diventando il fondo con il più alto ritmo di spesa al mondo.
Tra i suoi obiettivi c’è il finanziamento di “Vision 2030”, l’ampio e controverso piano di riforme presentato dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman con l’obiettivo di portare alla diversificazione dell’economia entro il 2030, in modo che lo sviluppo e la crescita del paese non dipendano più solo dai proventi dell’industria petrolifera. Per farlo prevede l’accumulazione di oltre mille miliardi di dollari di investimenti entro il 2025 e di almeno il doppio entro il 2030, diventando così il più grande fondo sovrano al mondo, superando quello norvegese, che gestisce investimenti per oltre 1.400 miliardi di dollari.
Ma a fronte di questi sempre più costosi piani di espansione – con anche grossi problemi etici e di rispetto dei diritti umani – i proventi del petrolio, ossia la principale fonte di finanziamento del paese, sono rimasti stabili. Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale nel 2023 il prezzo del petrolio avrebbe dovuto essere superiore a 86 dollari al barile per pareggiare il bilancio del governo: invece è stato in media sugli 81 dollari.
Per colmare il divario, all’inizio di gennaio l’Arabia Saudita ha emesso a sorpresa 12 miliardi di dollari di titoli di stato, ossia i tipici strumenti finanziari con cui gli stati chiedono soldi in prestito sui mercati finanziari. Poche settimane dopo, il PIF ha venduto separatamente 5 miliardi di dollari in obbligazioni, anche in questo caso per raccogliere denaro.
Un altro modo per raccogliere fondi è vendere le azioni della compagnia petrolifera statale Saudi Aramco. Secondo il Wall Street Journal il fondo sovrano saudita avrebbe in programma di vendere l’1 per cento della compagnia petrolifera statale, che potrebbe fruttare circa 20 miliardi di dollari. Il fondo sovrano ne possiede l’8 per cento.
Tutto questo si aggiunge anche all’eccezionale rallentamento dell’economia saudita, avvenuto nonostante l’enorme spesa pubblica a sostegno dell’economia: dall’8,7 per cento di crescita del 2022 rispetto all’anno precedente, nel 2023 il Prodotto Interno Lordo saudita è cresciuto solo dello 0,8 per cento.
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