Continua il periodo d’oro dei “film musicali”
Tra gli altri, sta per uscirne uno su Bob Marley, e Sam Mendes ha annunciato che ne farà uno per ogni membro dei Beatles: dice qualcosa dell'industria discografica
Martedì il regista britannico Sam Mendes ha annunciato che dirigerà quattro film dedicati rispettivamente a John Lennon, Paul McCartney, Ringo Starr e George Harrison, i membri dei Beatles, che saranno prodotti e distribuiti da Sony Pictures Entertainment, e dovrebbero essere completati entro la fine del 2027. È la prima volta che la Apple Corps (l’azienda che cura gli interessi del gruppo, composta da Paul McCartney e Ringo Starr e dai familiari di John Lennon e George Harrison) concede i diritti di utilizzo dell’immagine e della musica dei Beatles per la realizzazione di un’opera di finzione.
Da qualche anno i film “musicali” – da quelli che raccontano concerti, ai più classici musical, ma soprattutto i documentari e i film biografici incentrati sulla vita di cantanti o gruppi – sono un genere su cui l’industria cinematografica e quella discografica stanno investendo molto, e non sembrano voler smettere.
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Tra i film più pubblicizzati dell’ultimo anno ci sono stati parecchi musical: Wonka, Il colore viola e il remake di Mean Girls e solo su Elvis Presley negli ultimi due anni sono usciti Elvis, di Baz Luhrmann, e Priscilla, di Sofia Coppola, che racconta la storia vera della moglie Priscilla Beaulieu. Attualmente, ci sono in lavorazione diversi biopic dedicati ai cantanti, come Back to Black di Ridley Scott, incentrato sulla vita di Amy Winehouse, e un nuovo documentario su Michael Jackson diretto da Antoine Fuqua.
Giovedì invece uscirà anche in Italia Bob Marley: One Love, film diretto da Reinaldo Marcus Green e dedicato alla carriera del più famoso cantante reggae di sempre, che nella sua prima settimana di programmazione negli Stati Uniti ha ottenuto ottimi risultati in termini di vendite, incassando più di 28 milioni di dollari.
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Dopo un periodo di forte calo, stanno tornando di moda anche i film dedicati ai concerti: il più visto dello scorso anno era stato Taylor Swift: The Eras Tour, un film di 165 minuti sull’ultimo tour negli stadi della cantante statunitense Taylor Swift, con riprese fatte durante diverse tappe. Il film era riuscito a superare 100 milioni di dollari con la sola prevendita dei biglietti, numeri che possono essere paragonati ad alcuni film della Marvel, e a gennaio è diventato il film-concerto con gli incassi più alti di sempre, superando This Is It di Michael Jackson, del 2009.
Alcuni dirigenti di case di distribuzione e produzione cinematografica sperano che l’interesse generato da questi film possa rappresentare l’inizio di una nuova era dei concerti al cinema. Secondo Tim Richards, amministratore delegato della catena europea di cinema Vue, «i grandi artisti si stanno improvvisamente rendendo conto che c’è un altro modo di monetizzare i loro concerti dal vivo», che già rappresentano ormai la principale fonte di introiti per molti cantanti e band, viste le quote marginali che ricevono dalla musica in streaming.
I film sui concerti hanno il vantaggio di poter raggiungere i fan dei mercati più piccoli, zone molto distanti dalle grandi città o paesi in cui gli artisti organizzano raramente dei concerti. Questo era stato il caso, all’inizio del 2023, del documentario BTS: Yet to Come in Cinemas sul concerto della band sudcoreana dei BTS, al momento in pausa, che aveva guadagnato 53 milioni di euro a livello globale.
Ma oltre a questo caso, il cui successo è certamente dovuto anche all’enorme fama raggiunta da Taylor Swift nell’ultimo anno, ci sono molti altri documentari musicali meno costosi e ambiziosi, perché fatti di interviste e immagini d’archivio, che hanno avuto comunque un discreto successo, come il documentario di Netflix ReMastered: Who Killed Jam Master Jay? (2018), che racconta l’omicidio del membro fondatore dei Run-DMC Jason Mizell, e l’italiano Io tu noi, Lucio (2020), diretto dal regista Giorgio Verdelli e dedicato alla vita di Lucio Battisti.
Il Wall Street Journal parlava di questo crescente interesse per i «film che girano intorno alla musica» già nel 2019, in un articolo intitolato “Video Saved the Radio Star”. Probabilmente, questa tendenza si è intensificata a partire dal 2018 con l’uscita di Bohemian Rhapsody, il film sui Queen che in quell’anno fu tra i più visti al mondo e il più visto anche in Italia. Si stima sia costato 50 milioni di dollari, e ne abbia incassati globalmente quasi un miliardo.
Tra i prodotti più noti che allora avevano fatto parlare di questa “età dell’oro”, c’erano in primo luogo i film documentari (e le serie) presenti nei cataloghi dei servizi di streaming. Netflix mette a disposizione – e in certi casi produce direttamente – decine di prodotti di questo tipo, come per esempio Rolling Thunder Revue, documentario diretto da Martin Scorsese e dedicato a un tour del 1975 di Bob Dylan.
Nel 2021 era stata pubblicata su Disney+ The Beatles: Get Back, la docuserie diretta da Peter Jackson che racconta i giorni in cui, nel gennaio del 1969, i Beatles passarono tre settimane insieme per scrivere e provare alcune canzoni per un nuovo disco, con l’obiettivo di suonarle poi in uno spettacolo televisivo dal vivo davanti a un pubblico.
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Anche se sono sempre più presenti nelle sale e nelle piattaforme di streaming, fare un film musicale di qualsiasi tipo è piuttosto difficile: bisogna infatti ottenere il permesso di chi controlla i diritti delle canzoni che saranno usate nei film, cioè le case discografiche.
In passato i registi avevano molte più difficoltà nel convincere musicisti e case discografiche a concedere loro il permesso di utilizzare i cataloghi. Dopo l’enorme successo di Bohemian Rhapsody, però, le cose sono cambiate: cantanti e gruppi, in particolare quelli inattivi da molti anni o la cui fama è legata a un certo periodo storico, hanno colto le potenzialità di questi film, che rappresentano spesso un’occasione per far conoscere la propria musica a una nuova generazione di ascoltatori.
I diritti per una serie di canzoni da usare in un film possono costare molto o molto poco, con prezzi che variano a seconda delle canzoni e dell’uso che intende farne il film. Per esempio, per risparmiare sui costi diverse produzioni preferiscono rinunciare alle canzoni originali e scegliere cover suonate da altri musicisti (come succede sempre più spesso nei trailer).
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Negli ultimi anni poi è diventato sempre più comune ricorrere a un particolare tipo di accordi di licenza, i cosiddetti upfront, in cui la casa di produzione paga una certa somma al momento della sottoscrizione del contratto e la casa discografica non riceve nessuna percentuale sugli incassi del film.
Nonostante la diffusione degli accordi upfront, le case discografiche cercano sempre più di mettere mano ai progetti per i film, offrendo consigli e supporto e cercando di sviluppare campagne promozionali comuni, che vadano a beneficio sia del film che degli artisti le cui canzoni sono usate. Per esempio, subito dopo l’uscita di Bohemian Rhapsody, i Queen organizzarono una serie di concerti assieme al cantante Adam Lambert per cavalcare il successo ottenuto dal film.
Ci sono anche case di produzione che scelgono di prodursi in maniera più o meno diretta e interna i film: come è successo con la Universal Music e il film su Pavarotti, prodotto da PolyGram Entertainment, una sussidiaria della Universal Music, che nel 2016 produsse il documentario The Beatles: Eight Days a Week.
Collaborazioni e sinergie di questo tipo fanno parte di un settore in crescita per il marketing delle case discografiche: si chiama sync, da “sincronizzazioni”, e riguarda tutti quei casi in cui una canzone viene “attaccata” a un prodotto di altro tipo.
Capita anche che film non strettamente musicali finiscano per diventare famosi per le loro colonne sonore: l’esempio più recente è quello di Saltburn, film del 2023 diretto da Emerald Fennell e interpretato tre gli altri da Barry Keoghan e Jacob Elordi. Saltburn ha ricevuto giudizi contrastanti da parte della critica, ma tutti hanno apprezzato la scelta delle musiche del film, che ha fatto riscoprire agli ascoltatori più giovani canzoni che ebbero grande successo agli inizi degli anni Duemila, come Murder on the Dancefloor di Sophie Ellis-Bextor.
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