Il nuovo romanzo di Chiara Valerio, con Sellerio
Alcune pagine di "Chi dice e chi tace", che racconta una sorta di indagine ed è ambientato a Scauri, paese di origine della scrittrice
È uscito in libreria il nuovo romanzo di Chiara Valerio, si intitola Chi dice e chi tace. Diversamente dai precedenti libri della scrittrice, editi da Einaudi, è stato pubblicato da Sellerio. Fa parte della collana “La memoria”, quella con le copertine blu in cui sono pubblicati i libri di Andrea Camilleri, Marco Malvaldi e Antonio Manzini, tra gli altri. Chi dice e chi tace non è un giallo, come i romanzi per cui questi autori sono famosi, ma racconta di un’indagine. Ambientato negli anni Novanta, ha per protagonista un’avvocata che dopo la morte di un’amica scopre una serie di cose sul suo conto che non sapeva, e impara anche qualcosa su di sé che fino a quel momento non aveva capito.
«Volevo fare un romanzo con Sellerio da tanto tempo», racconta Valerio. Aveva scritto Chi dice e chi tace contemporaneamente a Così per sempre (2022), il suo precedente romanzo. Dice di averlo proposto alla casa editrice siciliana anche perché è ambientato a Scauri, il suo paese d’origine, che si trova in provincia di Latina: «Per me è un “posto dove uno torna”, quindi un’isola, e Sellerio è l’editore delle isole». Molti romanzi della “Memoria” sono peraltro ambientati in posti d’Italia diversi dalle grandi città. Pubblichiamo alcune pagine del romanzo in cui si parla di Scauri e viene descritta Vittoria, la donna che muore all’inizio della storia. Valerio ne parlerà con maggiori dettagli insieme a Marino Sinibaldi durante la nuova edizione di Pensavo Peccioli, il festival progettato e curato dal direttore del Post Luca Sofri a Peccioli, in provincia di Pisa, venerdì 8 marzo.
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Vittoria sarebbe potuta diventare una di quelle guaritrici che si trovano nei paesi e sembrano non avere arte né parte ma vivono accanto alla natura, non solo quella umana. Non aveva mai voluto, nonostante avesse grande intuito diagnostico e tutti le chiedessero qualsiasi cosa. La sua vita sembrava tranquilla, restava in farmacia le ore che doveva, e passava il resto del tempo a passeggiare, nuotare, leggere libri di botanica e coltivare il giardino. Le piaceva avere gente per casa e giocare a carte. Mi interesso di piante terrestri e piante celesti, diceva ridendo.
Mia madre aveva cercato per anni i mali del corpo, insieme a mio padre, con un pendolino, non erano imbroglioni, solo molto religiosi, e pensavano che la religiosità fosse un flusso, una specie di liquido inodore e incolore che loro erano in grado di intercettare, annodare e sciogliere.
Il pendolino era nero. Liscio. Forse bachelite. Una forma strana, tra un cuore e un cono gelato, una ghianda. Anche le mie figlie giocavano col pendolino sulla pancia del gatto e una volta lo avevano usato come strummolo, la trottola di legno che di tanto in tanto torna di moda. Mia madre aveva fatto le corna e alzato gli occhi al cielo.
Volevo andare a casa di Vittoria ma non sapevo cosa dire a Mara. Le vacanze mi facevano sentire in colpa. Se non fossi andata a Ponza, probabilmente avrei incontrato Vittoria come tutti i sabato mattina a comprare le paste da Vezza o Morelli. Ridevamo dell’abitudine di comprare le paste per il pranzo del sabato. La domenica è il giorno di riposo dello stomaco, diceva. Vittoria la domenica, tornata dal mare, a sentire Franca che andava a sistemare casa perché gli altri giorni era impegnata, se ne stava in giardino, nel patio se pioveva, sotto l’acacia se c’era il sole, a leggere, poteva restarci tutto il pomeriggio, o almeno questo è ciò che raccontavano i Nocella che le avevano venduto la casa e vivevano nell’unica altra proprietà che erano riusciti a tenersi, dall’altro lato della strada. La domenica, verso le sei del pomeriggio, Vittoria si alzava e apriva il cancelletto perché così chi doveva lasciare il cane o il gatto sapeva di poter entrare e a quel punto, di solito, si formava un piccolo gruppo di persone che bevevano un bicchiere, vino o birra. Sciroppi di menta e tamarindo non mancavano mai. A Vittoria piaceva la birra durante il giorno, la sera l’ho vista bere vino, non molto, non credo si ubriacasse. A casa loro c’era sempre da bere. Prima della pensione per cani e gatti di via Romanelli, l’alcol riguardava le donne solo quando era etilico, o puro, e serviva per pulire i vetri e disinfettare le sbucciature e le magagne sulle ginocchia dei bambini. Oppure per i liquori di limoni e noci che si tenevano in casa per le occasioni, matrimoni e funerali, e per le visite, parenti di fuori.
L’acacia di Costantinopoli era l’albero sotto il quale Madama aveva trascorso il suo primo soggiorno da Mara e Vittoria. Prima di allora non avevo mai saputo il nome dell’albero, né, una volta saputo, mi ero rassegnata al fatto che un albero portasse il nome di una città o di una madonna. Qualcuno la chiamava mimosa timida, perché se passavi le dita sui fiori rosa si chiudevano, qualcuno mimosa giapponese, perché i fiori avevano i colori dei petali del ciliegio. Non era né l’una né l’altra. Non era nemmeno una mimosa. Col passare del tempo, la pianta aveva dato il nome alla casa. E dalla casa, il nome era passato a tutta la via. Ci davamo appuntamento a Costantinopoli. D’estate, quando arrivavano i turisti nuovi, questa abitudine creava confusione nelle indicazioni stradali, o negli appuntamenti tra i ragazzi. Il cinema sta nella parallela a Costantinopoli. Gira per Costantinopoli che fai prima. Dopo le sei non si parcheggia a Costantinopoli. Cose così. Vittoria si divertiva, diceva che le piaceva vivere a Costantinopoli e forse veniva davvero da Costantinopoli, per quanto ne sapevamo.
Quando Mara e Vittoria erano arrivate, avevamo pensato fossero uscite da una comune. Anche a Scauri avevano tentato di fondarne una qualche anno prima, dietro Monte d’Argento, ma alla fine il progetto era naufragato. Soprattutto a causa delle ossa trovate mentre scavavano il pozzo. Si diceva fossero di epoca romana, all’inizio. Invece erano della guerra, la seconda. Il progetto della comune era naufragato perché, così si diceva, uno dei fondatori aveva riconosciuto la nonna tra quelle ossa mischiate come in uno shanghai.
C’era il teschio di nonna, così ripeteva al bar.
Ha visto il teschio di sua nonna e il teschio gli ha parlato, questa la voce che girava.
Ma nonna da parte di madre o di padre?, si informavano.
E che ha detto il teschio?, insistevano.
Qualcuno proponeva una raccolta firme perché le parrocchie smettessero di organizzare le recite. Tutti si sentivano Amleto col teschio in mano.
Si diceva Vittoria avesse adottato Mara. Che l’avesse rapita, come per i bambini che arrivavano insieme al circo o i gatti che sparivano quando il circo levava il tendone e smontava le gabbie. Si dicevano tante cose e molte di più venivano taciute. Si diceva che Mara, con quei colori da tedesca ma quell’allegria nei movimenti, fosse figlia di nazisti scappati in Sudamerica al contrario di Kappler e Reder che si erano fatti il carcere a Gaeta. Si diceva che i genitori di Mara fossero morti e che Vittoria se ne fosse fatta carico.
Tuttavia, quando dal lungomare le si vedeva passeggiare sulla spiaggia circondate dai cani che Mara portava a passeggio, e Mara si scioglieva le trecce e ballava qualche passo avanti a Vittoria, con volte e giravolte, ecco, la natura di questa presa in carico, di questa adozione, non era più così chiara. I capelli biondi, i fianchi che ondeggiavano al ritmo di qualche musica che nessuno di noi poteva sentire. Un rapimento, insomma. Ma in che senso? Vittoria faceva dondolare la stanghetta degli occhiali tenendola tra i denti.
La farmacista stessa, che pure aveva grande stima di Vittoria e si confrontava con lei su preparazioni galeniche che prima a Scauri non si erano mai viste, e infusi che facevano dormire, aiutavano la fertilità, miglioravano l’umore e facilitavano la digestione delle ciambelle fritte del Lido del Pino che erano buone, e infatti uno esagerava, la farmacista stessa nutriva dubbi sul legame tra Vittoria e Mara. Ma se ne fregava. Ci teneva a dire che veniva da Livorno, da sempre porto franco. Di Vittoria, insomma, nonostante l’allegria, nonostante la confidenza che tutti sentivamo con lei, sapevamo ciò che vedevamo. Era distante ma curiosa, accogliente ma riservata, esatta ma evasiva. C’era nel suo parlare un certo fatalismo che lasciava sgomenti. O affascinati. Io ero tra gli affascinati. Era arrivata un giorno con la sua risata che cominciava bassa e finiva acuta, aveva comprato una casa nella quale tutti potevano entrare e uscire, non aveva mai litigato con nessuno, non aveva mai cambiato taglio di capelli ed era morta in una vasca da bagno che tutti conoscevamo molto bene, senza mai esserci entrati, solo perché era in fondo al corridoio, all’esatto opposto della porta di ingresso. Un incidente, avvocato, un brutto incidente. La sfortuna.
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