Il dibattito su come ridurre le morti sul lavoro è lo stesso da anni
Si concentra soprattutto su alcune misure inattuate, come la “patente a punti” per le imprese e la cronica mancanza di controlli: il PNRR potrebbe muovere qualcosa
L’incidente in cui venerdì 16 febbraio sono morti cinque operai nel cantiere di un supermercato Esselunga a Firenze ha rianimato il dibattito sulla sicurezza sul lavoro in Italia, che da anni ruota sempre intorno alle stesse proposte inattuate: la “patente a punti” per le imprese e la cronica mancanza di ispettori del lavoro, soprattutto, ma anche una struttura burocratica spesso inefficiente e che anzi entra in competizione con se stessa.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), il grande piano di investimenti e riforme promosso dalla Commissione Europea di cui l’Italia beneficia per oltre 200 miliardi, prevede obiettivi ambiziosi per il nostro paese in tema di controlli sul lavoro irregolare: e questo per certi versi potrebbe essere uno stimolo ad affrontare in maniera efficace alcuni problemi irrisolti da tempo. Se uno Stato membro non raggiunge gli obiettivi concordati con la Commissione entro i tempi stabiliti, infatti, non riceve i finanziamenti corrispondenti, e dunque perde miliardi di euro.
Il PNRR italiano prevede che entro la fine del 2024 l’Italia aumenti il numero di ispezioni sul lavoro del 20 per cento rispetto alla media annuale del periodo 2019-2021. Significa che i controlli svolti dagli ispettori dell’Ispettorato nazionale del Lavoro e dai funzionari delle ASL (le aziende sanitarie locali che fanno capo alle regioni) devono salire da circa 85mila a circa 102mila all’anno. L’impegno non si limita a questo pur importante aspetto quantitativo. L’Italia dovrà infatti definire un piano generale per verificare l’efficacia di questi aumentati controlli nel fare emergere il lavoro “sommerso”, cioè quello svolto da persone che non hanno un regolare contratto.
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In particolare, l’obiettivo è ridurre di almeno un terzo la distanza tra il dato italiano relativo all’incidenza del lavoro “sommerso” nell’economia e la media europea. Deve cioè diminuire la percentuale del prodotto interno lordo (il PIL, l’indicatore che misura la ricchezza complessiva di un paese nell’anno) generata o favorita da lavoro non regolare. Per avere un’idea dell’ordine di grandezza di questo impegno, è utile citare un recente studio di alcuni ricercatori del ministero dell’Economia che mostra come la media europea sia di 4,6 punti percentuali più bassa rispetto al dato italiano.
Tra il 1991 e il 2015, il PIL “sommerso” nei 28 Stati membri (viene preso in considerazione anche il Regno Unito) era il 20,3 per cento del totale. Il paese più virtuoso è l’Austria (8,9 per cento), e quasi tutti i paesi fondatori dell’UE sono al di sotto della media, insieme a quelli scandinavi. La Germania è al 12 per cento, la Francia 14,2. Il dato italiano è invece considerevolmente più alto, più o meno in linea con gli altri paesi mediterranei: 24,9 per cento. Per rispettare gli impegni del PNRR, l’Italia dovrebbe ridurlo entro il 2024 di 1,5 punti.
Il PNRR ha comunque già costretto l’Italia ad adottare alcune misure importanti e attese da tempo per limitare il lavoro irregolare. Nel decreto fiscale approvato dal governo di Mario Draghi nell’ottobre del 2021 vennero incluse infatti alcune misure volute dall’allora ministro del Lavoro Andrea Orlando, che avviò un piano di assunzioni per l’Ispettorato nazionale del Lavoro, l’organismo che vigila sulla regolarità dei contratti e sul rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro.
Nel complesso quel piano ha portato a oltre 2mila assunzioni, su un organico complessivo di poco più di 4mila funzionari: un ampliamento significativo del personale, che ha tuttavia dovuto far fronte a un aumento notevolissimo del numero di cantieri edili attivi in Italia come conseguenza dei generosi bonus edilizi promossi in questi anni e che comunque serviva a compensare oltre dieci di pensionamenti senza assunzioni.
Anche per questo, oltre che per affrontare la ripartenza delle attività produttive dopo la chiusura generalizzata durante la pandemia di Covid, il primo maggio del 2020 la deputata del Partito Democratico Chiara Gribaudo propose di assumere 10mila nuovi ispettori, scontrandosi con alcuni rappresentanti del mondo industriale che avevano visto questa iniziativa come un atto di sfiducia nei loro confronti. «Quella proposta resta per me un’indicazione valida, un obiettivo a cui tendere in tempi ragionevolmente brevi», dice ora Gribaduo, attuale presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia. «Non è tuttavia solo una questione di numeri, ma anche di metodo: il problema dei controlli è che sono troppo squilibrati sulla parte documentale e burocratica, quindi non c’è un impatto concreto sulla realtà delle condizioni di lavoro, soprattutto nei settori più a rischio».
D’altro canto, a dispetto di una convinzione piuttosto diffusa, gli ispettori non devono solo fare sopralluoghi nei cantieri dove si costruiscono case, nelle fabbriche, nei laboratori o nei campi dove si coltiva la terra: devono svolgere anche molte attività d’ufficio, per verificare ad esempio il rispetto e l’applicazione dei contratti, il regolare versamento dei contributi ai propri dipendenti da parte dei datori di lavoro.
Il decreto fiscale del 2021, tra le altre cose, rese più severi i vincoli che le imprese devono rispettare per non essere obbligate a sospendere la propria attività. In particolare, ridusse dal 20 al 10 per cento la soglia massima di lavoro irregolare oltre la quale scatta il blocco delle attività, e stabilì tredici casi di gravi violazioni di sicurezza sui luoghi di lavoro che, se presenti, determinano ugualmente la sospensione dell’attività dell’impresa nel luogo ispezionato.
«La norma era stata contestata da alcuni rappresentanti del mondo industriale perché si temeva avrebbe fatto fallire molte imprese», dice il giudice Bruno Giordano, capo dell’Ispettorato nazionale del Lavoro tra il 2021 e il 2022. «I dati hanno smentito questo timore. Quella norma prevedeva che entro le 12 del giorno seguente a quello dell’ispezione le aziende potessero adeguarsi alle normative, dimostrando di avere sanato la propria posizione, oppure avrebbero dovuto sospendere concretamente le loro attività. Ebbene, oltre il 90 per cento delle aziende si è messa in regola nel giro di 24 ore, a dimostrazione di come il mancato rispetto delle regole non dipendesse da una effettiva impossibilità a lavorare in modo sicuro», prosegue Giordano.
Ma su un altro aspetto il decreto fiscale del 2021 si è rivelato meno efficace: migliorare il coordinamento tra i due enti che hanno il compito di fare i controlli, cioè l’Ispettorato e le ASL. A queste ultime era stata assegnata quasi in esclusiva la verifica delle condizioni di sicurezza e di salute sui luoghi di lavoro fin dalla fondazione del servizio sanitario nazionale, nel 1978.
Il decreto fiscale estendeva anche all’Ispettorato la competenza sulla sicurezza ovunque (prima era limitata principalmente a cantieri, ferrovie e agricoltura), e gli riconosceva di fatto un potere di iniziativa nel promuovere questo coordinamento sul territorio, in un’ottica di maggiore collaborazione tra i direttori provinciali dell’Ispettorato stesso e i dirigenti degli organi di controllo sul lavoro delle ASL, che hanno nomi diversi nelle varie regioni. «Il coordinamento è un obbligo, in realtà, non un auspicio», spiega Giordano. «Ed è un obbligo fondato sul valore della complementarietà: le ASL hanno di certo maggiori competenze sugli aspetti igienico-sanitari, mentre l’Ispettorato è più attrezzato per i controlli sulle norme contrattuali, per esempio. In verità, però, troppo spesso i due enti lavorano in competizione tra loro, il che non aiuta».
Andrea Orlando, ex ministro del Lavoro e ora deputato del Partito Democratico, dice che «con quel decreto dell’ottobre del 2021 avevamo avviato un percorso, su cui ci sarebbe bisogno di un’azione di monitoraggio e di incentivo costante da parte del ministero, cosa che non mi risulta però stia avvenendo».
Walter Rizzetto, deputato di Fratelli d’Italia e presidente della commissione Lavoro della Camera, dice che è intenzione del governo intervenire in questo senso, «con una norma che dovrà peraltro garantire il rispetto dei vincoli di coerenza contrattuale sul tema dei subappalti». Si vorrebbe fare in modo cioè che se un’azienda vince l’appalto per la realizzazione di un’opera, prima di subappaltare parte di quel lavoro ad altre aziende debba verificare che queste applichino un tipo di contratto coerente con il lavoro svolto.
Oltre agli ispettori del lavoro che mancano e al coordinamento tra le ASL e l’Ispettorato, c’è almeno un’altra misura di cui si discute da anni: la cosiddetta “patente a punti”, che consentirebbe di valorizzare le imprese che rispettano le regole sulla sicurezza. Era prevista fin dalla nascita del decreto 81, il “Testo unico sulla sicurezza sul lavoro” del 2008, che all’articolo 27 parla della «definizione di un sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi». Parliamo quindi di una sorta di certificazione da attribuire a ciascuna azienda, con l’indicazione di un punteggio tanto più alto quanto più l’azienda rispetta le norme sulla sicurezza e risultava in regola durante le ispezioni che riceve, e che viceversa venga penalizzata in caso di violazione delle norme fino al punto di vedersi esclusa dalla partecipazione a bandi pubblici e impossibilitata a ottenere lavori.
Nuovi decreti e regolamenti sulla “patente” vennero approvati nel 2009, quando si decise di avviare la sperimentazione solo sul settore dell’edilizia, e nel 2013. Tuttavia non c’è mai stata una definizione delle regole e delle procedure necessarie per introdurre la “patente”, di cui tuttora si continua a discutere, nonostante si siano avvicendati nel frattempo otto diversi ministri del Lavoro di otto diversi governi. La difficoltà è perlopiù politica, e ha a che vedere con lo scetticismo diffuso nel settore edile nei confronti di questo strumento.
«La “patente” può rivelarsi molto utile, da troppo tempo aspetta di essere adottata. Spesso la politica si divide e si accapiglia in lotte tra maggioranza e opposizioni, questa invece, se il governo volesse intervenire, sarebbe una misura su cui facilmente si troverebbe un’intesa», dice Gribaudo. Nel settembre del 2023 la ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone aveva detto che «in tempi brevissimi» il governo di Giorgia Meloni avrebbe provveduto a introdurre la “patente a punti” per le imprese. Al momento non risulta che il governo stia lavorando a una norma su questo specifico argomento.