Cos’è rimasto dell’opposizione in Russia, dopo Navalny
Tutti i leader politici che potevano affrontare Putin sono morti, all'estero o in prigione: e quello che resta dei movimenti contro il regime riesce appena a sopravvivere
di Eugenio Cau
Alexei Navalny, morto il 16 febbraio in un carcere di massima sicurezza, era il principale leader dell’opposizione in Russia, e la più importante minaccia al regime autoritario di Vladimir Putin: per molti versi, era anche l’ultimo.
Dopo anni di repressione brutale, l’opposizione al regime di Vladimir Putin è oggi priva di leader carismatici e di un progetto politico coerente, e al momento non sembra avere le forze di agire in maniera politicamente incisiva. Questo non significa che in Russia non ci sia malcontento nei confronti di Putin, o che il suo potere sia del tutto incontrastato. Nel paese esistono ancora movimenti di opposizione, organizzazioni più o meno clandestine, singoli individui che affrontano coraggiosamente la repressione. Ma nella Russia di oggi le organizzazioni di opposizione sono attaccate e isolate, e «sono occupate soprattutto a sopravvivere», come dice Giulia De Florio, ricercatrice di Lingua russa all’Università di Parma e membro del direttivo di Memorial Italia.
Attualmente tutti i leader di opposizione noti in Russia a livello nazionale sono in prigione, in esilio all’estero oppure sono morti o sono stati uccisi.
Tra i leader all’estero ci sono alcuni oppositori storici di Vladimir Putin, come il campione di scacchi Garry Kasparov, che vive negli Stati Uniti, o l’ex oligarca Mikhail Khodorkovsky, che oggi vive a Londra dopo aver trascorso quasi dieci anni in prigione. «Questi leader all’estero non hanno influenza all’interno del paese», dice Giovanni Savino, esperto di nazionalismo russo e professore all’Università Federico II di Napoli. «Khodorkovsky ha finanziato la fondazione Russia Aperta [un’associazione per la democrazia e i diritti umani, ndr], che ha provato quanto meno ad avere un ruolo nel dibattito politico russo. Si tratta però ormai di esponenti politici che non hanno più alcun ascendente».
Tra i leader d’opposizione in carcere ci sono Vladimir Kara-Murza, un giornalista e attivista che tra le altre cose è stato vicepresidente di Russia Aperta e che è una tra le figure più note del movimento democratico, e Ilya Yashin, un altro oppositore del governo. Kara-Murza e Yashin erano entrambi alleati di Alexei Navalny, e insieme erano considerati i principali esponenti di una nuova generazione di politici di opposizione, nata dalle proteste del 2011–2012 contro i brogli elettorali alle elezioni legislative e presidenziali di quegli anni.
Navalny fu arrestato nel 2021, mentre Kara-Murza e Yashin sono stati arrestati nel 2022, entrambi con l’accusa di aver diffuso “notizie false” sull’esercito russo impegnato nell’invasione dell’Ucraina. Per questo, Kara-Murza è stato condannato a 25 anni di prigione, e Yashin a otto e mezzo. Le persone vicine a Kara-Murza, che ha 42 anni, sono molto preoccupate per lui e per il trattamento che sta ricevendo in carcere: Kara-Murza ha subìto due tentativi di avvelenamento nel 2015 e nel 2017, e la sua salute è estremamente fragile.
Il più celebre tra gli oppositori di Putin uccisi in circostanze mai chiarite è Boris Nemtsov, che è stato uno dei più carismatici e promettenti politici russi. Nemtsov era stato vice primo ministro ai tempi del presidente Boris Eltsin, il predecessore di Putin, ed era un politico talentuoso e con un forte seguito. Nel 2015 fu ucciso a Mosca, a due passi dal palazzo del Cremlino.
Oltre a quelli imprigionati, esiliati, uccisi o morti, l’opposizione in Russia non ha altri leader di livello nazionale. Anche le organizzazioni che un tempo facevano opposizione più o meno attiva al regime, come la Fondazione anticorruzione creata da Navalny, o quelle che si impegnavano nella difesa dei diritti umani, come Memorial, sono state costrette a chiudere o a trasferirsi all’estero.
Soprattutto, e questo forse è l’elemento ancora più preoccupante, quello che resta dell’opposizione in Russia «al momento non ha le forze e forse nemmeno la capacità di offrire uno sguardo più complessivo, che è quello che servirebbe alla politica», dice Giulia De Florio. «Gli unici con un programma politico reale erano soltanto Navalny, Kara-Murza e Ilya Yashin».
Il malcontento nei confronti di Putin, ovviamente, esiste ancora. Lo si è visto anche la sera stessa della morte di Navalny, venerdì, quando centinaia di persone hanno manifestato nelle principali città russe per protestare contro il regime. La repressione delle forze di sicurezza russe però è ormai soffocante. Le manifestazioni per Navalny sono state sgomberate rapidamente, e sono state arrestate più di 100 persone.
Lo stesso successe anche nei primi giorni dell’invasione dell’Ucraina quando migliaia di persone protestarono contro la guerra: le manifestazioni durarono qualche giorno, prima di essere schiacciate dalla polizia. A oggi, secondo la ong OVD-Info, quasi 20 mila persone sono state arrestate in Russia per aver manifestato contro la guerra. Molte di queste sono poi state rilasciate, ma gli arresti sono riusciti a paralizzare ogni altro tentativo di dissenso.
A questo bisogna aggiungere l’altissimo numero di prigionieri politici, cioè di persone che non sono soltanto state arrestate per aver partecipato a una manifestazione, ma che sono state attivamente perseguitate e private della libertà dal regime perché ritenute un pericolo politico. Sono giornalisti, politici, attivisti, studiosi, che in un paese non autoritario costituirebbero il fondamento dei movimenti di opposizione. Secondo l’associazione Memorial, oggi in Russia i prigionieri politici sono più di 600.
La guerra in Ucraina poi ha contribuito a polarizzare la società russa, facendo leva sul nazionalismo e sul senso di isolamento. L’eliminazione di tutti i media indipendenti (gli ultimi, come Meduza o Novaya Gazeta, sono stati chiusi o costretti a trasferirsi all’estero con l’inizio della guerra) e una propaganda sempre più capillare hanno eliminato tutte le voci di dissenso. Questo ha contribuito a rendere Putin l’unica alternativa possibile agli occhi di molti russi: anche secondo le società di sondaggi ritenute affidabili, dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina la popolarità di Putin è altissima, sopra l’80 per cento.
Nonostante questo, «c’è un settore della società russa che vuole esprimersi ma non riesce a farlo», dice Giovanni Savino. Lo mostrano per esempio le sottoscrizioni per la candidatura di Boris Nadezhdin, un politico russo di opposizione e contrario alla guerra che a sorpresa si era candidato per sfidare Putin alle elezioni presidenziali di marzo ed era riuscito a ottenere le 100 mila firme necessarie per presentare la propria candidatura. Il requisito delle 100 mila firme è estremamente alto, ed è reso particolarmente complicato dal fatto che devono essere raccolte in almeno 40 regioni di un paese enorme come la Russia: è uno stratagemma con cui Putin ha sempre cercato di impedire le candidature dal basso. Per questo il fatto che Nadezhdin fosse riuscito a candidarsi è stato ritenuto come un forte segnale di dissenso. La Commissione elettorale russa, però, ha invalidato la candidatura.
Trovandosi completamente esclusa dalla politica elettorale, oggi l’opposizione in Russia lavora spesso in clandestinità ed «è occupata ad assolvere a compiti molto concreti, come trasferire fuori dal paese persone che non vogliono essere arruolate nell’esercito, cercare alcuni spazi per evitare la censura: tutte pratiche di sopravvivenza», dice Giulia De Florio. Ci sono alcune associazioni e singoli che continuano a operare nel paese, affrontando enormi rischi: giornalisti indipendenti che collaborano con l’estero, avvocati che difendono gli oppositori imprigionati, attivisti per i diritti umani.
Parte del dissenso si è radunata attorno ai movimenti contro la guerra. Un esempio recente è “La strada di casa”, un’associazione di mogli e madri degli oltre 300 mila riservisti che sono stati mandati a combattere in Ucraina. Le donne di “La strada di casa” chiedono la fine della guerra e il ritorno a casa dei soldati, e hanno organizzato alcune caute manifestazioni e ottenuto un certo seguito.
C’è poi l’opposizione che si è organizzata all’estero, formata dalle centinaia di migliaia di russi che sono scappate dal paese negli ultimi anni (alcune stime parlano di più di un milione di persone). In questi anni si sono trasferiti fuori dalla Russia giornali indipendenti, associazioni, ong, e ne sono stati creati di nuovi. Alcune di queste associazioni sono estremamente interessanti, come per esempio la FAS, acronimo russo di Resistenza femminista contro la guerra, un movimento in parte situato all’estero e in parte in clandestinità in Russia che cerca di combattere la violenza del regime di Putin sia fuori sia dentro il paese. Anche l’opposizione all’estero, tuttavia, è frastagliata e poco compatta.
Il problema maggiore è che oggi, nell’opposizione russa, «manca un’idea di futuro», dice Giulia De Florio. Tanto dentro quanto fuori dal paese vent’anni di propaganda e di repressione asfissiante hanno fatto sì che non ci siano le condizioni per pensare a un’opposizione coerente e capace di mettere in seria difficoltà il regime di Vladimir Putin. L’opposizione è divisa, il dissenso è in buona parte dissipato, e Putin è stato brutale ed efficace nel colpire tutti gli esponenti politici che avrebbero potuto raccogliere e unificare la contrarietà al regime. L’ultimo di loro, probabilmente, era Alexei Navalny.
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