Quando Navalny fu avvelenato in Siberia
Successe nell'agosto del 2020, col novichok, un agente nervino usato in passato contro altri oppositori del regime di Putin: fu curato in Germania, ma scelse di tornare comunque in Russia
La mattina del 20 agosto del 2020 Alexey Navalny stava lasciando Tomsk, città della Siberia dove era arrivato da alcuni giorni per impegni che riguardavano la sua attività di giornalista investigativo e il suo ruolo di principale oppositore del presidente Vladimir Putin. Aveva raccolto materiale per completare un’inchiesta, che fu poi pubblicata una decina di giorni dopo dai suoi collaboratori, e aveva incontrato attivisti, volontari e aspiranti candidati locali.
Con il suo lavoro, giornalistico ma soprattutto politico, era da tempo diventato un obiettivo del regime di Putin e dei suoi sostenitori. Nel 2017 un attivista filo-putiniano lo aveva attaccato con una sostanza chimica, lasciandolo parzialmente cieco da un occhio. Nel luglio 2019 aveva subito un presunto tentativo di avvelenamento mentre era in carcere per scontare una pena di 30 giorni per aver organizzato una manifestazione non autorizzata.
Quella mattina, salito sull’areo che da Tomsk doveva portarlo a Mosca, Navalny iniziò a sentirsi male: l’aereo fece un atterraggio d’emergenza a Omsk, sempre in Siberia, e Navalny venne ricoverato d’urgenza. Era in stato di incoscienza e respirava grazie a un respiratore, l’ospedale si riempì presto di uomini delle forze dell’ordine e dei servizi d’intelligence russi. I medici dell’ospedale cambiarono più volte versione sul suo stato di salute e sulle possibili cause: l’avvelenamento fu definito «una delle possibili ragioni». Il 21 agosto Alexander Murakhovsky, primario dell’ospedale di Omsk, spiegò in conferenza stampa che Navalny soffriva di «disturbi metabolici» e di un «forte calo dei livelli di zucchero nel sangue».
La famiglia e i suoi collaboratori chiesero che fosse trasferito all’estero, anche perché la struttura non era attrezzata per trattare avvelenamenti di quel genere. I medici prima rifiutarono, dicendo che il paziente era troppo debole, poi acconsentirono a una sua partenza. Il 22 agosto fu organizzato un trasferimento in Germania con un aereo attrezzato da ambulanza pagato dall’ong tedesca Cinema for Peace.
Nel frattempo i suoi collaboratori segnalarono che giovedì 20 agosto Navalny aveva bevuto solamente un tè, che fu indicato inizialmente come possibile strumento dell’avvelenamento. Già quel giorno però alcuni collaboratori avevano cercato possibili cause dell’avvelenamento nell’hotel di Tomsk dove Navalny aveva dormito, accompagnati da un avvocato e riprendendo le ricerche in un video: prelevarono due bottiglie di plastica di acqua da cui aveva bevuto, che sarebbero poi state portate in Germania.
Navalny fu ricoverato in terapia intensiva all’ospedale Charité di Berlino in coma farmacologico e in condizioni molto gravi: restò nella struttura 32 giorni, di cui 24 in terapia intensiva.
Il 2 settembre il governo tedesco annunciò che dai test tossicologici effettuati da un laboratorio speciale dell’esercito era emerso che Navalny era stato avvelenato con un pericoloso agente nervino, il novichok, sviluppato dalla Russia tra gli anni Ottanta e Novanta e già usato in passato per avvelenare gli oppositori del presidente Vladimir Putin. Il novichok è lo stesso agente nervino utilizzato nell’avvelenamento dell’ex spia russa Sergei Skripal e di sua figlia Yulia a Salisbury, avvenuto in Inghilterra il 4 marzo del 2018. Sia Skripal che sua figlia sopravvissero, e indagini successive del governo britannico rivelarono che ad avvelenare i due furono tre agenti dell’intelligence militare russa. La Russia ha sempre negato un proprio coinvolgimento e ha ripetutamente accusato il Regno Unito di aver inscenato l’attacco.
Il 14 settembre laboratori francesi e svedesi effettuarono analisi indipendenti confermando l’avvelenamento con un agente nervino. I collaboratori di Navalny sostennero che tracce di novichok erano state trovate su una delle due bottiglie d’acqua prelevate nella stanza, ma in seguito questa informazione non fu confermata e il modo con cui Navalny entrò in contatto con l’agente nervino non fu mai chiarito del tutto.
Il 23 settembre Navalny fu dimesso dall’ospedale berlinese: i medici dissero che avrebbe potuto recuperare completamente. Quando ancora era ricoverato al Charité, aveva parlato con un magistrato dell’accaduto dicendo anche che sarebbe voluto tornare in Russia non appena si fosse ripreso del tutto.
Il 30 settembre fu intervistato per la prima volta dopo le dimissioni dal settimanale tedesco Der Spiegel. Accusò Putin del suo avvelenamento e ribadì la volontà di tornare in Russia: «Il mio lavoro ora è restare il ragazzo che non ha paura. E io non ho paura!».
Il 14 dicembre 2020 un gruppo di testate internazionali, tra cui il sito di giornalismo investigativo Bellingcat, la CNN, il sito russo The Insider e la rivista tedesca Der Spiegel, con la collaborazione del País, pubblicò una dettagliata inchiesta che sembrava provare che l’FSB — l’agenzia di sicurezza interna dello stato russo, successore del KGB — fosse implicata nell’avvelenamento.
Usando i dati dei viaggi aerei, delle celle telefoniche e della geolocalizzazione degli smartphone, Bellingcat riuscì a verificare che tre agenti del team dell’FSB erano atterrati nella città di Novosibirsk in concomitanza dell’arrivo di Navalny e del suo team e che poi almeno uno di loro aveva seguito Navalny nella città di Tomsk, la seconda tappa del suo viaggio in Siberia. I tre agenti durante l’operazione usavano dei telefoni usa e getta non rintracciabili, ma uno di loro, Alexei Alexandrov, in due circostanze in quei giorni aveva acceso il suo telefono personale, che si era agganciato alle celle telefoniche di Tomsk. Bellingcat verificò anche che tra gli agenti e la dirigenza dell’FBS a Mosca ci fu un intenso incremento di telefonate e messaggi durante la finestra temporale del possibile avvelenamento di Navalny.
L’inchiesta non ebbe risultati sicuri su come fosse stato avvelenato: è possibile che il novichok fu messo sulla biancheria della sua stanza d’albergo o nella bottiglia dello shampoo. In un’intervista, Navalny raccontò che verso le 23:15 ordinò un cocktail Bloody Mary al bar dell’albergo. Il barista gli disse che non aveva gli ingredienti per prepararlo, e gli offrì invece un Negroni. Navalny disse di averne bevuto solo un sorso, perché «sapeva della cosa più disgustosa che abbia mai assaggiato in vita mia».
L’inchiesta, realizzata attraverso tabulati telefonici e geolocalizzazione degli smartphone ottenuti ricorrendo a un mercato nero che in Russia è ampio e accessibile, non provava in maniera irrefutabile che l’FSB avesse avvelenato Navalny, ma ci andava molto vicino, mostrando come un team di esperti di armi chimiche lo seguisse fin dal 2017, e fosse a poca distanza da lui quando fu avvelenato. Il governo russo ha invece sempre smentito ogni coinvolgimento.
– Leggi anche: L’inchiesta sull’avvelenamento di Alexei Navalny
Il 17 gennaio 2021 Navalny ritornò in Russia con un volo da Berlino: doveva atterrare all’aeroporto Vnukovo, dove si era radunata una piccola folla di sostenitori, ma il volo fu dirottato all’aeroporto internazionale Sheremetyevo. Qui, al controllo passaporti, fu immediatamente arrestato: da allora non è mai tornato in libertà, accumulando una serie di condanne motivate politicamente. Venerdì il servizio penitenziario russo ha annunciato la sua morte, e sabato mattina la sua portavoce ne ha dato la conferma.