Il tentativo dell’Unione Europea di garantire più diritti ai rider è fallito di nuovo

È stata respinta per la seconda volta la direttiva che imponeva alle piattaforme digitali che si occupano di consegne a domicilio di garantire contratti migliori e maggiori tutele

Alcuni rider in sciopero di fronte al tribunale di Milano, lo scorso ottobre
Alcuni rider in sciopero di fronte al tribunale di Milano, lo scorso ottobre (Claudio Furlan/LaPresse)
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Per la seconda volta i paesi dell’Unione Europea non sono riusciti a trovare un accordo per approvare la cosiddetta “direttiva rider”, cioè le nuove regole per garantire più tutele ai lavoratori delle piattaforme digitali che fanno consegne a domicilio. Un tentativo era già stato fatto lo scorso dicembre e nell’ultima settimana sembrava fosse stato trovato un accordo per superare la posizione contraria di Francia, Germania, Estonia e Grecia. Venerdì, tuttavia, durante un confronto del COREPER, il consiglio dei rappresentanti permanenti dei governi all’Unione Europea, dove si svolgono le trattative tra gli ambasciatori europei, si è capito che non sarebbe stato possibile approvare la direttiva.

La proposta iniziale era stata presentata dalla Commissione europea nel dicembre del 2021. L’obiettivo era garantire più diritti ai cosiddetti rider, i fattorini che fanno servizio di consegna a domicilio attraverso piattaforme come Glovo, Deliveroo, Just Eat e Uber Eats, e dei driver, cioè gli autisti dei servizi di taxi come Uber.

La parte più importante della direttiva riguardava l’inquadramento contrattuale dei lavoratori delle piattaforme. Secondo le stime più recenti fatte dalla Commissione, in Europa i lavoratori delle piattaforme digitali sono più di 30 milioni, destinati a diventare 43 milioni entro il 2025, di cui moltissimi sono senza contratto giusto: fanno cioè il lavoro di un dipendente pur avendo un contratto da lavoratore freelance.

– Leggi anche: Come funzionano gli algoritmi dei rider

Molti lavoratori delle piattaforme chiedono da tempo di essere inquadrati come lavoratori dipendenti: negli ultimi anni in vari paesi europei sono stati organizzati scioperi e sono stati presentati molti ricorsi. Le piattaforme sostengono invece che la maggioranza dei propri lavoratori prediliga l’indipendenza data da contratti flessibili, e che comunque la loro funzione sia semplicemente quella di intermediari tra i lavoratori e i clienti, non di datori di lavoro.

Per risolvere questo problema, la Commissione aveva messo a punto una serie di criteri che dovrebbero determinare se una piattaforma digitale è o no un datore di lavoro. Secondo la Commissione, le piattaforme potrebbero essere datori di lavoro se fissano i limiti massimi di remunerazione, supervisionano il lavoro con sistemi elettronici, impongono orari e turni, impongono di indossare divise, limitano la possibilità di costruirsi una propria clientela o di lavorare per altre piattaforme.

Le regole proposte inizialmente dalla Commissione europea prevedevano che se una piattaforma imponeva almeno due di questi criteri allora doveva essere considerata automaticamente un datore di lavoro, e i suoi lavoratori dovevano avere una serie di diritti come ferie, salario minimo, congedi parentali, permessi per malattia e contributi per la pensione, tra le altre cose.

Diversi paesi non erano mai stati convinti di questa proposta. Nell’ultima versione, risultato di un compromesso che aveva di fatto snaturato l’impostazione europea della direttiva, veniva lasciato a ogni Stato il potere di stabilire quali e quanti criteri introdurre per imporre le assunzioni alle piattaforme. Il compromesso, tuttavia, non è bastato a risolvere i dubbi dei paesi contrari. Considerato come è andata finora, è molto difficile che venga trovato un nuovo accordo prima delle elezioni europee in programma a giugno.

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