La lingua perduta della moda
«Per le strade distinguevi a metà degli anni ’80 perfettamente un dark da un paninaro, uno che abitava a San Siro da uno che abitava sui Navigli, uno di destra da uno di sinistra, un gay da un etero, uno dentro o uno fuori dal sistema. Era più facile esistere ma era più difficile essere giovani. Il mondo si era velocemente innamorato del classico rassicurante di Armani o del glamour di Versace, ma per sfuggire a questo soffocante abbraccio si erano formati anche molti nuclei di resistenza a Parigi, a Londra, a New York e anche a Milano»
Sono arrivato a Milano intorno all’ottobre del 1986 e per qualche mese ho dormito in una camera piccola e spoglia nel pensionato dell’Istituto Sacro Cuore, fondato nientedimeno che da Don Giussani, quello di Comunione e Liberazione. Frequentavo contemporaneamente il corso di laurea in Lingue europee in Statale e il corso in Fashion Design all’Istituto Marangoni. Ogni mattina percorrevo un lungo tratto di strada che partiva da via Rombon 78, praticamente fuori Milano, e arrivava alla fermata della metropolitana di Lambrate. Erano quasi due chilometri sul ciglio di una strada molto trafficata, in un inverno terribilmente freddo, in una Milano alla quale mi sentivo completamente estraneo perché ero venuto su in posti piccoli, in cui se camminavi due chilometri eri in un’altra città.
Nei lunghi viaggi in treno da Milano a Viareggio e ritorno, tutti i fine settimana, con i posti che non si potevano prenotare e i tragitti che duravano più di quattro ore, leggevo. Ho letto talmente tanto in quel periodo che molti libri non riesco a ricordarli anche se so per certo di averli avuti tra le mani per ore, con il rumore dello sferragliare dei binari in sottofondo.
Quando ho letto La lingua perduta delle gru, un romanzo del 1986 di David Leavitt che parla delle difficoltà di coming out di un adolescente newyorkese, avevo 19 anni, subivo l’eccitazione e il terrore di far parte di una comunità culturalmente e sessualmente libera che stava morendo in massa a causa dell’Aids. E mi sentivo solo, molto solo.
All’interno del romanzo, una delle protagoniste racconta una vicenda inquietante che è poi quella che dà il titolo al libro. Un bambino abbandonato nel suo box per lungo tempo sviluppa uno strano linguaggio di comunicazione fatto di movimenti meccanici e apparentemente incomprensibili, abbandonando del tutto la parola. Gli assistenti sociali che se ne prendono cura scoprono che il bambino ha preso ad imitare i movimenti di una gigantesca gru che è l’unica cosa che riesce a vedere dalla finestra della sua stanza, in pratica riconoscendola come madre.
Questa straordinaria immagine è una metafora del senso di abbandono che in molti soffrivamo ma anche della potenza, cresciuta a dismisura in un momento di orrore, di creare linguaggi nuovi o forse, appunto, di ricostruire linguaggi perduti. Lo dico perché penso che il dolore e la frustrazione siano un incredibile nutrimento per l’immaginazione. Non l’unico ma uno dei più potenti. E anche perché penso che oggi questo nesso si sia interrotto.
Nel momento in cui mi sono avvicinato alla moda, prima studiandola e poi lavorandoci, ho capito che la potevo usare non solo come uno strumento di interpretazione del mondo, ma anche come un rifugio, un’arma, una specie di bacchetta magica. Negli anni ’90 il mondo era molto più facilmente leggibile di oggi perché era schierato, non esisteva una mescolanza così profonda tra pensieri mainstream e indipendenti. Gli scontri e gli incontri avvenivano per le strade, non davanti a uno schermo e i vestiti erano una parte fondamentale dell’espressione di sé, del tracciato che portava al riconoscimento sociale, all’accettazione o al rifiuto degli altri.
Per le strade distinguevi perfettamente un dark da un paninaro, uno che abitava a San Siro da uno che abitava sui Navigli, uno di destra da uno di sinistra, un gay da un etero, uno dentro o uno fuori dal sistema. Era più facile esistere ma era più difficile essere giovani perché c’era poco spazio per i compromessi, o almeno così io credevo all’epoca.
I miei giorni passavano perso nella filmografia di Marguerite Duras, nel teatro sperimentale dei Raffaello Sanzio, nei club underground come il Primo Piano o il Plastic, andando in vacanza in macchina fino a Marrakech o passando l’ultimo dell’anno a Trieste in un pub mezzo vuoto, insieme a un paio di prostitute e alla mia più cara amica. Tutto per sfuggire al pensiero dominante, a ciò che era normato, il bello e sano, il tranquillizzante e accondiscendente quotidiano di chi guardava Domenica In.
Per quanto forse oggi sia difficile da credere, anche la moda era pesantemente schierata in due poli opposti che non solo non si parlavano ma si detestavano, volevano la sparizione reciproca.
Il mondo si era velocemente innamorato del classico rassicurante di Armani o del glamour di Versace, ma proprio per sfuggire a questo soffocante abbraccio si erano formati molti nuclei di resistenza a Parigi, a Londra, a New York e anche a Milano. Era intervenuto un approccio radicale e intellettuale che fino a quel momento apparteneva alla musica, all’arte ma raramente alla moda e i nuovi designer seguivano sentieri alternativi per tentare di raccontare una realtà che a molti faceva schifo e che non era più rappresentata nelle inutilmente spumeggianti sfilate di Saint Laurent o di Dior dell’epoca.
Visioni alternative, cupe e introspettive come quelle di Romeo Gigli, dei giapponesi di Comme des Garçons e poi di Martin Margiela, Raf Simons, Alexander McQueen o John Galliano costruivano una prospettiva diversa che portava la moda a occuparsi di dolore, frustrazione, disagio sociale, violenza e a volte anche di morte. Per questi geniali designer la moda era un modo per raccontare un pezzo di realtà meno piacevole, creando un dialogo con i propri clienti, una relazione strettissima di tipo fortemente emotivo, oggi si direbbe costruire una community.
Non facevano vestiti e basta, scavavano nel mondo per farne emergere le contraddizioni, in gran parte creando linguaggi liberatori che ancora vengono usati. Un atteggiamento molto vicino a quello che oggi si chiama attivismo ma che viene operato in modi molto diversi perché nella moda non esiste più. Non c’era nessuna volontà commerciale, nessun attaccamento a visioni nostalgiche, nessuna voglia di compiacere ma solo la volontà precisa di esplorare nuovi territori e di renderli noti, significativi, importanti, anche se due minuti prima sembravano irricevibili.
Esistono due esempi fondamentali che segnano la separazione tra pensiero dominante e avanguardie e che potrebbero essere un momento interessante di riflessione per chi oggi nella moda vede solo un’occasione di profitto.
Se su YouTube cercate Romeo Gigli Fall/Winter 1990-91 vi apparirà invece il video integrale della collezione autunno/inverno 1988-89, che sfila nel 1987. La sfilata dura 25 minuti, che oggi sarebbe un tempo improponibile ma è interessante osservarla con calma e interamente. Prima di tutto per notare la differenza tra come erano vestite le giornaliste di moda al tempo e gli abiti in passerella, notando il livello di ridicolo che ci ispirano le capigliature gonfie e le spalline abbondanti delle suddette. Intensificando l’attenzione si riesce poi a vedere un linguaggio, minimalista, puro e radicale che non solo non ha subito i segni del tempo ma che oggi invade le collezioni di marchi come The Row o Loro Piana.
Quell’insieme di segni all’epoca così divisivo ha di fatto segnato un cambiamento profondo nel modo di vestirsi delle persone nel mondo perché rappresentava innanzitutto un disagio, l’espressione di un pensiero contrario.
La mitica quotidianista Natalia Aspesi ne scriveva così su La Repubblica il 14 marzo 1987:
«Romeo Gigli, 37 anni, definito con affetto, per la sua scontrosa mancanza di esibizionismo, timida mammola. Le sue modelle predilette, bambine sui quattordici anni che ostentano sperdimento, fragilità e mal curata scoliosi, non sembrano più uscire, nell’arruffio dei loro panni attorcigliati attorno allo scheletrino, da un tentativo di brutalizzazione, ma piuttosto avviarsi nei loro scialletti cadaverici e negli stivaletti da ergastolana, verso il patibolo: abbigliate come Luisa Sanfelice in carcere, gonna lunga e rigonfia sui fianchi, di tela di lana, color umida cella, oppure simili ad Anna Bolena, spogliata di ori e rasi e rivestita da un mortificante eppure eccitante abitino nero incollato sul piatto corpicino, il collo pronto alla decapitazione che sbuca da un minuscolo volant di pizzo nero. Il nuovo astro della mortificazione, che piace sia alle giovanissime miliardarie cui è antipatica la haute couture sia alle fotografe di mezza età magari culone ma ansiose di intellettualizzarsi almeno con il vestito, ha avuto molto successo anche disegnando la collezione Callaghan».
Una recensione di questo tipo oggi sarebbe impossibile per molti motivi. Il più importante non è il riferimento alla violenza sessuale o al body shaming ma la critica aspra e diretta che non lascia spazio a nessuna possibilità di redenzione. Un patibolo mediatico in formato cartaceo. Semplicemente, questo tipo di disperata opposizione non esiste più perché gli interessi dei giornali e dei brand sono talmente tanto mischiati da aver cancellato ogni possibilità di vera critica, ma anche perché i designer non hanno più atteggiamenti radicali. Chiusi dentro studi di lusso, con paghe miliardarie, hanno tutto da perdere il giorno che decidessero veramente di scendere in campo. Natalia Aspesi andrà peraltro incontro a più di un attacco diretto e le verrà poi tolto l’incarico di critica di moda di Repubblica. Il livello di conflitto si è abbassato per poi sparire.
La seconda storia si svolge in Francia. Il ventesimo arrondissement si trova alla periferia est di Parigi. È la zona in cui c’è Belleville, il quartiere di Pennac, ed è anche uno dei posti più multietnici e all’epoca malfamati di Parigi. Quando nel 1989 Martin Margiela decide di fare sfilare la sua terza collezione, Estate 1990, non esiste nessun precedente di questo tipo, nel senso che nessun designer si è mai spinto così lontano dal centro città, dal tepore rassicurante dei palazzi settecenteschi del primo arrondissement.
Gli abiti di Margiela sono al tempo quasi del tutto incomprensibili alla massa. Lacerati, sporchi, disordinati, apparentemente senza un senso e senza un vero approccio progettuale, i suoi vestiti sembrano un casuale raffazzonamento di stili e le sue sfilate spoglie, fatte di modelle non professioniste, in luoghi disperatamente nichilisti, stanno esattamente dalla parte opposta del glamour delle passerelle ufficiali.
Alla ricerca di una location, Margiela trova un parco giochi a Belleville ma quando lo portano a fare il sopralluogo i bambini del luogo, quasi tutti di origine magrebina o africana, gli chiedono candidamente dove andranno a giocare se lui occuperà per giorni il loro unico posto di svago, in mezzo a quella grigia periferia. Margiela decide quindi di coinvolgerli nella sfilata, li fa sedere per terra, con un atteggiamento di accoglienza non esattamente tipico della moda dell’epoca. Ma durante la sfilata succede qualcosa di magico: i bambini invadono lo spazio delle modelle, camminano con loro e le ragazze li prendono per mano, in braccio, anche in spalla. La realtà della periferia interferisce in maniera positiva e destabilizzante nel rituale solitamente rigido della sfilata. È un atteggiamento totalmente punk che rivoluzionerà la moda perché improvvisamente costruirà un linguaggio alternativo, odiatissimo da molti, compreso me che lavoravo ancora per Gigli che in qualche modo era stato l’ispiratore di Margiela, ma allo stesso tempo era diventato obsoleto a causa sua.
Di queste due storie che sembrano così lontane nel tempo, oggi rimangono i riferimenti estetici che invadono le passerelle ma la loro potenza esplosiva, accesa dal dolore e fabbricata senza vincoli commerciali, non esiste più da nessuna parte. Volendo essere nostalgici si potrebbe dire che quello era un periodo romanticamente creativo. La realtà dei fatti è che in quel momento storico la moda riusciva ancora a mettere in scena i cambiamenti sociali usando un livello simbolico molto profondo, senza avere paura delle conseguenze.
A volte, raramente, questa cosa accade anche oggi, per esempio nel lavoro di Luca Magliano, di Rick Owens o, recentemente, di John Galliano per Maison Margiela, ma in generale gli orizzonti, soprattutto dei giovani designer, sono confinati al successo commerciale, alla fatica di sopravvivere, all’allucinazione collettiva del plauso delle celebrity.
È probabile che sia venuto il momento di rileggere la parte oscura della moda assorbendone l’oscurità, il freddo, la solitudine, senza tentare di sanificare il messaggio per renderlo commestibile a platee sempre più ampie che sembrano non volersi più nutrire di autorialità ma di stupida e innocua serialità. Linguaggi e contenuti per portare a un cambiamento devono inizialmente essere indigesti, fare male e poi, con il tempo, diventare narrazione comune, avendone assorbito le istanze rivoluzionarie e, in qualche modo, avendo cambiato le cose.