La storia della “strage di Natale” del 1984 in cui morirono 16 persone
Il 23 dicembre una bomba esplose su un treno che viaggiava da Napoli a Milano; la procura di Firenze ha riaperto l'inchiesta sul caso
La procura di Firenze ha riaperto l’inchiesta sulla cosiddetta “strage di Natale”, l’attentato avvenuto il 23 dicembre del 1984 su un treno che viaggiava da Napoli a Milano, nel quale furono uccise 16 persone. I pubblici ministeri Luca Turco e Luca Tescaroli sarebbero entrati in possesso di nuovi elementi di indagine che hanno richiesto la riapertura del fascicolo, elementi di cui però i magistrati non vogliono parlare e di cui non si sa molto. La storia della strage è stata raccontata in due puntate del podcast Altre Indagini di Stefano Nazzi, disponibile per le abbonate e gli abbonati del Post.
Alle 19:08 del 23 dicembre 1984 una bomba esplose nella nona carrozza del treno rapido 904 che viaggiava da Napoli a Milano. Il treno si trovava all’interno della Grande galleria dell’Appennino, vicino alla stazione di San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna. Erano i giorni vicini al Natale, e il treno era pieno di persone che tornavano a casa o si spostavano per raggiungere i parenti. Quando il treno partì dalla stazione di Santa Maria Novella, a Firenze, a bordo c’erano 697 passeggeri.
La bomba fu attivata a distanza con un telecomando: 15 persone morirono sul colpo, e un’altra poco dopo a causa dei traumi riportati. Più di 260 persone rimasero ferite. Al tempo la Grande galleria dell’Appennino era la più lunga d’Italia (lo rimase fino al 2009), e l’esplosione avvenne quando il treno viaggiava a 140 chilometri orari. Tutti i finestrini e i vetri andarono in frantumi, la carrozza nove fu sventrata e il treno si bloccò in mezzo al tunnel, una posizione che complicò notevolmente le operazioni di soccorso.
Inevitabilmente la strage del 1984 fu associata a quella del treno Italicus, di dieci anni prima. In quella stessa galleria, nella notte tra il 3 e il 4 agosto del 1974, una bomba esplose a bordo di un treno partito da Roma e diretto a Monaco di Baviera, in Germania, causando la morte di 12 persone. Alcune inchieste ipotizzarono che l’attentato dell’Italicus fosse stato preparato e realizzato da organizzazioni neofasciste nell’ambito di quella che venne chiamata “strategia della tensione”, cioè la strategia che puntava a diffondere paura e incertezza nella società per favorire una svolta autoritaria nel paese ed evitare invece il radicarsi di tendenze progressiste. Per la strage del treno Italicus furono processati, ma poi assolti, tre esponenti di gruppi neofascisti.
– Ascolta anche: Grande Galleria dell’Appennino, 23 dicembre 1984: la strage di Natale
La “strage di Natale” avvenne dieci anni dopo, in un periodo particolare della storia italiana. Le stragi, le violenze e la lotta armata che caratterizzarono i due decenni precedenti – i cosiddetti “anni di piombo” – erano terminate, ed era iniziata una forte ripresa economica accompagnata da una generale sensazione di ottimismo nel paese. Intanto, però, la criminalità organizzata e i gruppi sovversivi ne stavano approfittando per riorganizzarsi dopo anni di intense lotte.
Inizialmente l’attentato fu rivendicato da diversi gruppi neofascisti di estrema destra. In seguito, invece, la strage del 1984 fu riconosciuta come la prima della strategia stragista e terrorista mafiosa, che sarebbe proseguita negli anni successivi con le stragi del 1992 che uccisero i magistrati Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, in Sicilia, e le bombe a Roma, Milano e Firenze del 1993.
Per capire il contesto nel quale avvenne la “strage di Natale” è importante considerare anche le dinamiche tra i vari gruppi criminali attivi in quel periodo. Proprio nel 1984 fu estradato per la seconda volta in Italia dal Brasile Tommaso Buscetta, un ex mafioso palermitano diventato collaboratore di giustizia. Buscetta iniziò a parlare con i magistrati del pool antimafia di Palermo, descrivendo la struttura della mafia siciliana, nota come Cosa Nostra, e le sue dinamiche interne: le sue dichiarazioni avrebbero portato all’arresto di 366 persone e all’inizio del cosiddetto “maxiprocesso” contro 476 imputati accusati di reati di mafia.
Cosa Nostra era strettamente alleata della camorra, l’organizzazione criminale attiva nella zona di Napoli e guidata al tempo da Raffaele Cutolo. Entrambe, poi, collaboravano con associazioni neofasciste, con gruppi di estrema destra e gruppi criminali come la banda della Magliana, attiva a Roma. Negli anni Ottanta tutte queste associazioni eversive finirono al centro di numerose indagini e, per quanto formalmente indipendenti, si pensava fossero legate da due obiettivi comuni: distogliere l’attenzione della magistratura dalle loro attività e intimidire lo Stato.
A differenza dei decenni precedenti, la criminalità si muoveva in gran parte fuori dall’attenzione pubblica: come dicevamo, complessivamente il paese stava attraversando un periodo di ottimismo e prosperità, e gli attentati e le violenze pubbliche degli anni di piombo iniziavano a sembrare qualcosa di appartenente al passato.
Delle indagini sull’esplosione sul treno 904 si occupò il magistrato Piero Luigi Vigna, che aveva una lunga esperienza in casi di sequestri e operazioni legate alla mafia. Le perizie rivelarono che la bomba pesava all’incirca 16 chili ed era tenuta insieme dal Semtex H, un prodotto di marca cecoslovacca che nel 1992 venne utilizzato anche nella bomba che uccise Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta nella strage di via D’Amelio, a Palermo.
Grazie alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, le indagini si indirizzano subito verso diversi esponenti di Cosa Nostra, della camorra e di alcune organizzazioni di estrema destra. La figura principale fu individuata in Giuseppe Calò, un mafioso appartenente a Cosa Nostra che ebbe rapporti con la banda della Magliana, con la loggia massonica Propaganda 2 (detta comunemente P2) e con il Vaticano.
Nel marzo del 1985 vennero trovati a casa di un complice di Calò vari congegni radioelettrici, considerati idonei a provocare l’esplosione a distanza di una bomba. Nelle scatole mancava però un ricevitore. Calò venne arrestato.
Si scoprì poi che i congegni erano stati realizzati da Friedrich Schaudinn, un elettrotecnico di nazionalità tedesca che viveva a Zagabria, su richiesta di Guido Cercola, il più stretto collaboratore di Calò. In una successiva perquisizione, in una proprietà di Calò vennero trovati due pani di esplosivo plastico Semtex H, di cui uno parzialmente utilizzato, sei chili di tritolo e nove detonatori.
Le indagini proseguirono rapidamente e coinvolsero altre persone, tra cui il camorrista Giuseppe Misso, noto negli ambienti della destra neofascista napoletana, e Massimo Abbatangelo, un consigliere comunale di Napoli eletto con il Movimento sociale italiano (MSI), erede del partito fascista. Le autorità individuarono quindi una rete molto opaca di rapporti che coinvolgeva Cosa Nostra, la camorra e i gruppi di estrema destra.
Nel gennaio del 1986 il magistrato Vigna chiese il rinvio a giudizio per 10 persone, tra cui Calò e il suo collaboratore Cercola, Misso e Abbatangelo. Secondo Vigna, la strage era stata organizzata per «distogliere l’impegno della società civile dalla lotta contro la mafia» e produrre «effetti destabilizzanti sulla compagine statale e di blocco del paese sulla via della democrazia».
La richiesta di rinvio a giudizio venne accolta per tutti gli imputati tranne che per Abbatangelo, che nel frattempo era stato eletto alla Camera con l’MSI ed era poi scomparso (venne trovato in un appartamento di Posillipo, a Napoli). Il processo iniziò il 4 ottobre del 1988 a Firenze, e le sentenze di primo grado furono emesse il 25 febbraio del 1989: cinque persone, tra cui Calò, Cercola e Misso, vennero condannate all’ergastolo per i reati di strage, attentato per finalità terroristica ed eversiva, banda armata e fabbricazione e detenzione di esplosivi.
Schaudinn, responsabile dei sistemi per far detonare la bomba, fu condannato a 25 anni di carcere, che poi vennero ridotti a 22. La sua storia è molto particolare: ammise di aver costruito i congegni elettronici ma disse di non sapere che sarebbero stati usati per scopi terroristici. Iniziò a collaborare con i magistrati e gli vennero concessi gli arresti domiciliari in un appartamento a Ostia, vicino a Roma. A un certo punto, però, riuscì a lasciare l’Italia grazie a un passaporto consegnatogli da un funzionario del consolato tedesco, si rifugiò a Francoforte, in Germania, e le autorità tedesche rifiutarono l’estradizione in Italia. Nella fuga fu aiutato da due persone, un uomo e una donna, la cui identità non è mai stata scoperta. Anni dopo Schaudinn venne coinvolto in una rete di traffico di armi legato a gruppi paramilitari nazionalisti di estrema destra, in Croazia.
Dopo le prime sentenze iniziò una lunga e complessa serie di processi d’appello. Inizialmente le condanne furono annullate dal giudice Corrado Carnevale, a cui i giornali si riferivano come «l’ammazzasentenze» perché era solito annullare le condanne per reati di mafia e terrorismo. Era considerato un magistrato vicino alle cosche e alla criminalità organizzata: nel corso della sua carriera fu sospeso temporaneamente dal servizio e finì più volte a processo, ma venne sempre assolto.
Il procedimento per la “strage di Natale” si chiuse nel novembre del 1992, con la conferma dell’ergastolo per Calò, Cercola e un altro membro di Cosa Nostra, mentre Misso e altri due uomini vennero assolti per non aver commesso il fatto. In sostanza, la mafia siciliana venne ritenuta l’unica responsabile dell’attentato, mentre gli altri gruppi criminali vennero esclusi.
Parallelamente si era svolto un procedimento a carico del deputato Abbatangelo, che inizialmente fu condannato all’ergastolo per il reato di strage, ma poi fu assolto e condannato a sei anni di carcere per detenzione d’esplosivo.
Nel 2014, trent’anni dopo la strage, fu aperto un nuovo processo per chiarire le responsabilità dell’attentato: fu accusato Totò Riina, il boss di Cosa Nostra, e si tornò a parlare di possibili accordi tra Cosa Nostra e camorra. Alla fine Riina venne assolto per mancanza di prove. Morì nel 2017, mentre era in corso il processo d’appello. Nonostante i tanti processi, sulla strage del 1984 rimangono ancora molte domande irrisolte. Per esempio, non sappiamo chi azionò il telecomando che provocò la strage, né chi posizionò la bomba sul treno o chi aiutò l’elettrotecnico Schaudinn a fuggire dall’Italia.