Le mozioni parlamentari in favore della Palestina difficilmente portano a qualcosa
Da più di dieci anni il parlamento italiano spende molte energie per spingere i governi a fare scelte che poi i governi non fanno, e non è un problema solo italiano
L’iniziativa del Partito Democratico che ha portato martedì al voto favorevole della Camera per un cessate il fuoco immediato a Gaza è nata molti mesi fa. Il responsabile Esteri della segreteria di Elly Schlein, Peppe Provenzano, l’aveva annunciata ai suoi compagni di partito già il 21 novembre scorso, durante una direzione del PD. Lo scopo originario però era un po’ diverso e non limitato solamente al cessate il fuoco. L’idea di Provenzano, condivisa da Schlein, era di premere sul governo affinché si impegnasse a riconoscere ufficialmente lo Stato palestinese. La scelta di dare priorità al cessate il fuoco è arrivata solo molte settimane dopo, e poi definitivamente negli ultimi giorni, quando gli sviluppi della guerra a Gaza hanno fatto sì che la richiesta di una tregua diventasse prioritaria rispetto al riconoscimento del paese.
Già a novembre, comunque, nonostante alcune perplessità interne al PD soprattutto nell’area centrista e riformista, Provenzano aveva avviato le trattative con esponenti della maggioranza per evitare che la proposta sul riconoscimento della Palestina apparisse come divisiva o azzardata. In quel caso la mediazione non era andata a buon fine. Come spesso accade con le mozioni, infatti, si era deciso di procedere «per parti separate», cioè con singole votazioni differenziate per ciascuno dei punti proposti dai partiti. Il governo aveva acconsentito a esprimere un parere favorevole su alcuni passaggi del testo, e dunque a fare in modo che l’aula li approvasse, solo a patto che il partito di Schlein li modificasse.
Se sul punto riguardante il cessate il fuoco una mediazione è stata trovata, il PD aveva invece rifiutato la riformulazione del governo sul riconoscimento dello Stato palestinese, ritenendola troppo fumosa, e dunque aveva mantenuto la sua versione che è stata poi bocciata dall’aula e che impegnava il governo a promuovere «il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell’Unione Europea, nel rispetto del diritto alla sicurezza dello Stato di Israele». La riformulazione proposta dal governo parlava invece di un impegno «a promuovere, nel quadro di una soluzione complessiva del conflitto israelo-palestinese, ogni iniziativa utile a raggiungere nel minor tempo possibile, nell’ambito del processo di pace, la prospettiva dei due popoli e due Stati internazionalmente riconosciuta».
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Sarebbero stati, in ogni caso, impegni non vincolanti per il governo. Le mozioni parlamentari hanno più che altro un valore simbolico: esprimono un indirizzo del parlamento di cui il presidente del Consiglio e i ministri devono in teoria tenere conto, ma senza che ciò impedisca loro in alcun modo di prendere decisioni che contraddicono in tutto o in parte i testi approvati dalle camere. E non è certo un fatto nuovo, che il parlamento italiano spenda molte energie nella definizione delle mozioni su Israele e Palestina senza che producano conseguenze concrete.
Da quando, nel settembre del 2011, l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen ha presentato all’ONU la richiesta di riconoscimento internazionale dello Stato palestinese, la questione ha più volte animato il dibattito politico. Il governo italiano di allora, guidato da Silvio Berlusconi, si disse subito contrario a questa richiesta unilaterale della Palestina. Il ministro degli Esteri Franco Frattini disse che era una scelta azzardata che avrebbe finito col compromettere le già precarie trattative di pace con Israele: nel far questo, l’Italia si schierò con gli Stati Uniti e la Germania, e contro altri paesi europei invece favorevoli (tra i quali Belgio, Spagna, Portogallo e Svezia).
La richiesta non ebbe comunque seguito, e la Palestina ottenne nel 2012 uno status del tutto peculiare all’interno dell’ONU: pur non essendo riconosciuta come Stato membro, gode di speciali prerogative concesse in qualità di “osservatore permanente”. Fu anche questa una decisione che produsse incertezze e tensioni nel governo italiano, all’epoca guidato da Mario Monti, che dopo aver a lungo valutato di astenersi decise infine di votare a favore di questa piccola ma significativa concessione da parte dell’ONU. In quei mesi nacque una questione che riemerge ciclicamente ogni volta che la guerra in Medio Oriente attraversa nuove fasi particolarmente violente: che fare con la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina?
Il Movimento 5 Stelle e il partito di sinistra radicale SEL (Sinistra ecologia libertà, guidato da Nichi Vendola), a metà ottobre del 2014 depositarono mozioni sia alla Camera sia al Senato in questo senso, spinti anche dal clamore provocato in Italia dall’approvazione di un’analoga mozione da parte della Camera dei comuni inglese a favore del riconoscimento della Palestina. Le iniziative del M5S e di SEL non ebbero esito, ma contribuirono ad alimentare la polemica.
Un momento importante nell’evoluzione di questo dibattitto ci fu il 17 dicembre del 2014, quando il parlamento europeo approvò una risoluzione – anche quella dal valore più che altro simbolico – in cui veniva riconosciuto lo Stato palestinese, sia pure con una formula piuttosto cauta. Secondo il testo votato, infatti, il parlamento europeo sosteneva «in linea di principio il riconoscimento dello Stato palestinese e la soluzione a due Stati»e riteneva che questo dovesse «andare di pari passo con lo sviluppo dei colloqui di pace».
Immediatamente anche in Italia si iniziò a discutere come affrontare la questione in parlamento, e dare così seguito all’iniziativa europea. Il 27 febbraio del 2015 il Partito Democratico, su proposta del capogruppo alla Camera Roberto Speranza, decise di presentare una mozione a favore del riconoscimento. Fu una scelta non banale, sul piano politico, perché del governo allora in carica, guidato da Matteo Renzi, facevano parte anche partiti centristi e membri di Forza Italia riuniti nel movimento Nuovo centrodestra di Angelino Alfano, le cui sensibilità erano molto più in sintonia con Israele.
Finì che venne adottata una soluzione un po’ bizzarra, e cioè due mozioni piuttosto diverse tra loro, entrambe presentate da partiti di governo, ed entrambe approvate dall’aula della Camera. Quella promossa dal PD, sostenuta anche da SEL e dal Centro democratico (un piccolo partito di centro), impegnava il governo «a promuovere il riconoscimento della Palestina quale Stato democratico e sovrano entro i confini del 1967 e con Gerusalemme quale capitale condivisa, tenendo pienamente in considerazione le preoccupazioni e gli interessi legittimi dello Stato di Israele».
Quella del Nuovo centrodestra, sostenuta anche da Scelta civica (il partito di centro fondato da Mario Monti) e l’Unione di Centro di Pier Ferdinando Casini, chiedeva invece al governo di «promuovere il raggiungimento di un’intesa politica tra Al-Fatah [il principale partito laico e moderato della scena politica palestinese, ndr] e Hamas che, attraverso il riconoscimento dello Stato d’Israele e l’abbandono della violenza, determini le condizioni per il riconoscimento di uno Stato palestinese». Ne seguì un dibattito confuso in cui entrambe le componenti del governo rivendicarono la propria vittoria: Speranza esultò per il riconoscimento della Palestina, mentre i dirigenti dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) esprimevano un giudizio più cauto, rammaricandosi per il mancato inserimento nella mozione del PD del riconoscimento «incondizionato e ufficiale».
In quell’occasione anche Fratelli d’Italia, con una mozione presentata da Fabio Rampelli e firmata tra gli altri da Giorgia Meloni, si espresse a favore di una mediazione dell’ONU e dell’Unione Europea «per giungere in tempi rapidi all’obiettivo del riconoscimento dello Stato palestinese nella condizione di reciprocità con Israele, quindi in accordo bilaterale».
In ogni caso, l’approvazione della mozione del PD in favore del riconoscimento dello Stato palestinese non si tradusse poi in alcun modo in un’azione di qualche concretezza del governo Renzi, né di nessuno degli altri governi che gli sono succeduti, nonostante la questione sia riemersa più volte nel dibattito parlamentare, sempre in maniera piuttosto estemporanea e strumentale, specie su iniziativa del M5S. Anche con loro, comunque, ci furono alcuni cortocircuiti: nel luglio del 2019 una quarantina di senatori del M5S depositò una mozione a favore del riconoscimento della Palestina, anche con l’obiettivo di marcare una loro distanza rispetto alle posizioni della Lega di Matteo Salvini, all’epoca loro problematico alleato di governo, storicamente ostile alla causa palestinese. Poche settimane dopo il primo governo guidato da Giuseppe Conte cadde e se ne formò uno nuovo sempre guidato da Conte ma col PD al posto della Lega. La mozione del M5S non fu mai votata.
Dei vari paesi europei in cui tra il 2014 e il 2015 i parlamenti si espressero a favore del riconoscimento dello Stato palestinese (tra gli altri: Regno Unito, Svezia, Francia, Spagna, Portogallo, Irlanda), solo la Svezia riconobbe poi ufficialmente la Palestina. Neppure la Commissione Europea e il Consiglio Europeo hanno dato concreto seguito alla mozione del parlamento europeo del dicembre del 2014.