Le persone non trovano lavoro, le aziende non trovano lavoratori
È un fenomeno paradossale dell'economia italiana: c’entrano i percorsi di studio e le differenze territoriali, ma anche la demografia
di Mariasole Lisciandro
Secondo l’ISTAT in Italia a fine 2023 c’erano 1,8 milioni di persone disoccupate, cioè che cercano lavoro ma non lo trovano: la disoccupazione è al 7,2 per cento, mentre gli inattivi tra i 15 e i 64 anni sono il 33,2 per cento (tra questi molti giovani che non lavorano perché stanno studiando). Allo stesso tempo, secondo i dati di Anpal e Unioncamere, sempre nel 2023 su 5,5 milioni di offerte di lavoro “attivate” dalle imprese, come si dice in gergo, nel 45 per cento dei casi è stato difficile riempire le posizioni, con tempi superiori ai 4 mesi. È una situazione paradossale: idealmente con solo un terzo di tutte le posizioni aperte lo scorso anno si sarebbe potuto risolvere il problema della disoccupazione in Italia.
Ed è anche controintuitiva rispetto a quello che insegna la teoria economica, secondo cui la domanda e l’offerta di lavoro riescono sempre a bilanciarsi grazie alla dinamica degli stipendi: se le imprese non trovano lavoratori basta che li aumentino per attrarli, al contrario se i lavoratori non trovano lavoro basta che siano disposti ad accettarne uno più basso. Ma nel mondo del lavoro reale questo non avviene, e non solo perché le cose sono molto più complicate dei modelli economici, ma anche perché esiste un mismatch, ossia un disallineamento strutturale tra domanda e offerta di lavoro che dipende da fattori più qualitativi, difficili da spiegare solo con la teoria economica di base.
Le persone non scelgono un lavoro solo per lo stipendio offerto ma anche per quanto risponde ai loro interessi, alle loro attitudini e al loro percorso di studi, per il luogo in cui si trova e per quanto permette di conciliare il lavoro con la vita privata. Allo stesso modo, le imprese non vogliono assumere persone con una formazione o competenze non in linea con il lavoro offerto. Queste valutazioni qualitative sono solo alcune tra le cause del mismatch sul mercato del lavoro, che è un fenomeno «talmente complicato che non ha una sola soluzione, ma per cui si possono fare vari tentativi, muovendosi su più fronti», dice Francesco Seghezzi, presidente di Adapt, un centro di ricerca specializzato negli studi sul mercato del lavoro.
Il mismatch è evidentemente una condizione che causa dei grossi problemi all’economia e alla società: da un lato non consente alle aziende di trovare le persone e le competenze di cui hanno bisogno, con ricadute sulla loro produttività e sui loro risultati; dall’altro lato lascia inevasa la richiesta di molte persone che vorrebbero lavorare, ma che rimangono disoccupate e senza uno stipendio. È uno scenario grave soprattutto per i disoccupati sotto i 24 anni, che costituiscono il 20 per cento della forza lavoro in quella fascia di età.
Questo disallineamento esiste un po’ ovunque, anche in paesi con un’economia paragonabile a quella italiana, come Francia e Germania. In Italia è però particolarmente grave per una serie di caratteristiche strutturali della sua economia. Due su tutte sono particolarmente notevoli: la prima è legata alle differenze geografiche nel settore produttivo, per cui i distretti più floridi si trovano concentrati in certe regioni, mentre in altre non ci sono poi così tante aziende a offrire lavoro; la seconda riguarda il fatto che spesso i giovani scelgono percorsi di studio che non rispondono efficacemente alle esigenze formative delle imprese.
La questione territoriale crea particolari problemi in Italia, secondo Andrea Garnero, economista del lavoro dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). E questo perché le differenze nella struttura produttiva tra Nord, Centro e Sud del paese sono ancora elevatissime: può essere il caso di un luogo particolarmente popolato da aziende, per esempio in alcuni distretti industriali del Nord-Est, in cui c’è tantissima richiesta di lavoratori da parte delle imprese ma dove non ci sono più molte persone libere da assumere; oppure, dalla prospettiva dei lavoratori, un territorio con molte persone disposte a lavorare ma con poche aziende che assumono.
Le differenze geografiche effettivamente si vedono anche nei dati di Anpal e Unioncamere, che sono quelli tipicamente consultati per stabilire l’entità del mismatch in Italia: si basano sui dati raccolti da Excelsior, un sistema che incrocia dati pubblici – come quelli di INPS o di ISTAT – con questionari fatti alle aziende, che danno una dimensione più qualitativa: devono dichiarare tra le altre cose se hanno avuto difficoltà o meno a riempire una posizione, e perché. Secondo questi dati il grado di difficoltà nel reperire il personale da parte delle imprese è piuttosto eterogeneo tra le regioni, più marcato nelle zone industriali del Nord e meno in quelle del Sud: nel Nord-Est c’è difficoltà a colmare nel 50,4 per cento delle posizioni, nel Nord-Ovest nel 45,9 per cento, percentuale che poi scende al Centro, col 43,2 per cento, e al Sud e nelle isole, col 40,9 per cento. I dati comunque non dicono se effettivamente poi le posizioni sono state riempite o meno.
Nonostante esistano e siano comunque molto frequenti le migrazioni dal Sud, dove le opportunità di lavoro sono più scarse, al Nord, dove invece ci sono più occasioni, non sono però abbastanza da sopperire alla carenza di lavoratori. E questo perché «va bene il telelavoro, va bene lo smart working, ma il mercato del lavoro resta una questione sempre piuttosto locale», dice Garnero. Un po’ perché non tutti i lavori si possono fare da remoto, un po’ perché chi cerca lavoro non sempre è disposto a spostarsi, anche per una questione relativa al costo della vita: al Centro e al Nord – ma in generale nelle grandi città dove è più possibile trovare un lavoro – c’è un costo della vita che non è sempre alla portata degli stipendi offerti, e che rende meno allettante l’idea di spostarsi.
Nel dibattito politico a volte ritorna il concetto delle cosiddette “gabbie salariali”, ossia della differenziazione degli stipendi sulla base dell’area geografica e del costo della vita: è un tema però molto complesso e di cui si discute in modo spesso assai ideologico.
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C’è poi la seconda grande ragione che spiega l’esistenza del mismatch, forse quella più conosciuta e discussa: riguarda le competenze, ossia il fatto che le aziende cercano lavoratori che sappiano svolgere determinate mansioni, talvolta anche piuttosto specifiche, ma trovano candidati che non sono adatti, perché poco o troppo qualificati. In alcuni casi, non ci sono proprio candidati.
Secondo i dati di Anpal e Unioncamere, è diventato difficile per esempio trovare operai specializzati: le imprese hanno dichiarato che hanno avuto difficoltà per il 60 per cento dei quasi 836mila profili cercati. Gli operai specializzati hanno mansioni più di responsabilità rispetto a un operaio generico: possono lavorare in ogni settore, dalla meccanica all’edilizia, e la loro specializzazione può essere realizzare prodotti finiti o saper lavorare su macchine o materiali particolari o montare un certo tipo di componenti. Ci sono poi figure ancora più tecniche e ancora più difficili da trovare, sebbene meno richieste in termini assoluti: l’81 per cento degli ingegneri dell’informazione è difficile da trovare, su 5mila richieste complessive; ci sono poi gli infermieri e gli ostetrici, difficili da trovare nell’80 per cento delle 42mila posizioni aperte, e i tecnici delle costruzioni civili, con il 79,3 di difficoltà rispetto alle oltre 8mila offerte di lavoro.
In questo caso sono due i motivi per cui esiste questo skill mismatch, come viene comunemente chiamato il disallineamento dovuto alle competenze: uno riguarda il fatto che spesso si scelgono percorsi formativi non in linea con le richieste del mercato, e l’altro riguarda la sostanziale debolezza delle politiche attive del lavoro in Italia, ossia di tutta quella rete di istituti che dovrebbero aiutare i disoccupati a trovare lavoro.
Per quanto riguarda il primo, secondo Garnero «un punto molto debole nella catena del mercato del lavoro è proprio il passaggio tra scuola e lavoro», e l’orientamento degli studenti verso il percorso accademico più in linea con le richieste del mercato. Un rapporto dell’Osservatorio conti pubblici italiani mostra come gli studi scelti da chi si laurea rispondano solo in parte alla richiesta di laureati delle imprese: mentre queste cercano soprattutto laureati in economia (nel 26,4 per cento dei casi), a concludere un percorso di studi economici è solo il 17 per cento dei laureati; lo stesso vale per le professioni ingegneristiche, richieste nel 22,6 per cento dei casi contro il 12 per cento dei laureati. Allo stesso modo, rispetto alla richiesta è bassa la percentuale di laureati in informatica, architettura e ingegneria civile. Al contrario, il numero di laureati in scienze politiche e della comunicazione è molto alto rispetto alla domanda delle aziende.
Questo dipende un po’ da una questione culturale, per cui gli studenti tendono a scegliere i percorsi di cui hanno più sentito parlare da familiari e amici, e che ritengono quindi una scelta più sicura, a prescindere dall’effettivo riscontro sul mercato del lavoro. Ma dipende anche molto dal fatto che i percorsi di orientamento sono ancora carenti e poco informativi, soprattutto riguardo a quegli studi innovativi e che formano professionalità assai ricercate nelle aziende.
Un esempio è quello degli ITS, gli Istituti Tecnici Superiori, un percorso formativo post diploma introdotto alla fine degli anni Novanta: sono alternativi ai classici corsi universitari e prevedono corsi pratici e specialistici negli ambiti più svariati, dalla tecnologia alla cultura e alla meccanica. Nonostante abbiano un nome simile, non vanno confusi con gli istituti tecnici secondari, che sono appunto una scuola superiore. In Italia ce ne sono 104 ma sono ancora poco frequentati, rispetto alle loro potenzialità: è iscritto agli ITS appena lo 0,4 per cento degli studenti italiani contro il 37 per cento in Germania, dove sono un caso di successo e ormai parte importante dell’offerta formativa post diploma.
La scarsa attrattività degli ITS dipende dal fatto che sono relativamente recenti rispetto ai classici percorsi universitari, che nell’immaginario comune sono ancora più conosciuti e attraenti, e dal loro essere relativamente poco promossi nei percorsi di orientamento: li conoscono poco sia gli studenti che le persone che si occupano dell’orientamento nelle scuole, dove vengono sponsorizzati più spesso i percorsi più tradizionali.
Inoltre alcuni mestieri per i quali gli ITS permettono di prepararsi, soprattutto quelli tecnici come l’operaio specializzato, sono ancora percepiti come poco desiderabili. Secondo Seghezzi «non è più attuale pensare che l’operaio specializzato sia un lavoro da tuta blu sporca, di fatica e da turno di notte. Oggi lavora in ambienti molto diversi, molto più sani e stimolanti. Ed è un problema perché spesso questo le scuole non lo sanno e le imprese faticano molto a raccontarsi».
Secondo Garnero «non è detto che alcuni lavori che vengono visti come non desiderabili poi lo siano veramente: per esempio fare l’operaio in realtà paga molto meglio e offre migliori condizioni di lavoro, con orari di lavoro fissi e contratti a tempo indeterminato, rispetto all’ambìto ruolo dello chef, che è un lavoro durissimo con orari non tradizionali e per la maggior parte dei casi non pagato bene».
Ci sono poi posizioni meno desiderabili per ragioni più fondate e non per un’ingiusta fama, per esempio quelle particolarmente faticose o usuranti. In questi casi ci sono due strade, dice Seghezzi: investire sull’automazione, in modo che in futuro serviranno sempre meno persone a farli, o aumentare i salari per renderli più attrattivi.
La questione dei salari o delle scarse condizioni di lavoro è spesso citata come causa principale per cui le persone non si candidano per certi lavori. Talvolta il problema è che questi impieghi sono offerti in settori a poco valore aggiunto, per cui i margini delle aziende per offrire stipendi migliori sono molto bassi. È un problema generale del mercato del lavoro italiano, che offre un livello di retribuzioni generalmente molto basso rispetto alla media degli altri paesi europei: in Italia chi lavora guadagna generalmente poco e parecchio meno di quanto accada, a parità di lavoro e formazione, nei principali paesi europei.
Il secondo problema alla base dello skill mismatch è legato poi alle politiche attive del lavoro, che consistono in una complessa rete di enti che dovrebbero facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, per esempio promuovendo corsi per formare i disoccupati a fare mestieri particolarmente richiesti. In Italia le politiche attive sono promosse soprattutto dai centri per l’impiego e dalle regioni: vengono stanziati ogni anno moltissimi soldi pubblici, che però talvolta finanziano meccanismi con logiche vecchie e inefficienti.
Il problema non riguarda solo gli enti, ma anche i disoccupati che spesso sono persone ai margini, senza un’istruzione, magari non più giovanissimi: in questi casi i percorsi sono già particolarmente ambiziosi in partenza, e difficilmente portano a un risultato positivo per via dell’inefficacia dei percorsi formativi.
I due tipi di mismatch – quello territoriale e di competenze – sono poi accompagnati da un grande tema strutturale: il declino demografico. Seghezzi dice che «stiamo vivendo un calo demografico significativo e il disallineamento è quindi più strutturale, cioè avremo sempre meno offerta di lavoratori e una domanda che invece è o uguale o crescente da parte delle aziende».
Il problema è già molto evidente e parte dell’attuale mismatch è dovuta proprio a questo, soprattutto in alcuni territori meno densamente popolati. Le politiche di incentivo alla natalità impiegano molto tempo a dare effetti: se anche si iniziasse a fare più figli da domani gli effetti si vedrebbero tra almeno vent’anni. Una possibile soluzione di medio termine potrebbe fare leva sulle politiche di immigrazione, per accogliere e integrare lavoratori stranieri che facciano i lavori che con l’attuale popolazione residente non si riesce a coprire. È un tema però molto sensibile dal punto di vista politico e nell’opinione pubblica, e quasi mai lo si riesce a trattare in maniera equilibrata.
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