L’Europa s’è fatta cogliere alla sprovvista da Donald Trump, ancora una volta
Le dichiarazioni dell'ex presidente americano sulla NATO hanno allarmato i leader europei, anche se la questione non è per niente nuova
Un discorso elettorale in South Carolina di Donald Trump, probabile candidato Repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti attualmente in vantaggio nei sondaggi, ha riportato improvvisamente la questione di una difesa comune al centro del dibattito in Europa. Nel comizio Trump ha raccontato un presunto dialogo con un leader europeo, in cui avrebbe esposto le sue intenzioni nel caso di invasione di un paese NATO da parte della Russia: ha detto che inviterebbe la Russia «a fare il diavolo che vuole», se quel paese non rispetta i suoi impegni di spesa militare.
Trump ha abituato tutti a dichiarazioni molto dirette ed estreme in campagna elettorale, ma il tema del contributo militare degli alleati della NATO, e in particolare dei paesi europei, non è certo nuovo. E il fatto che ancora una volta i leader europei abbiano dato l’impressione di essere stati colti alla sprovvista dalle dichiarazioni dell’ex presidente, con risposte piuttosto preoccupate sulla necessità di rafforzare le difese europee, mostra che la questione della difesa e dell’autosufficienza dell’Europa davanti alle minacce esterne è stata a lungo ignorata.
La possibilità che Donald Trump torni alla presidenza preoccupa decisamente i leader europei. Trump è sempre stato molto critico sui termini con cui si è sviluppata l’alleanza atlantica, fortemente dipendente dalle capacità militari ed economiche degli Stati Uniti. In particolare, Trump critica il fatto che appena un terzo dei paesi della NATO, tra cui gli Stati Uniti e pochi altri, rispettino gli impegni di destinare almeno il 2 per cento del PIL nazionale alla difesa e alle spese militari: è a questo che Trump si riferisce quando dice che gli alleati europei devono «pagare».
Trump però non è il primo presidente a sottolineare questo sbilanciamento: critiche al poco impegno in campo militare dei paesi europei sono ricorrenti sin dai tempi di Dwight Eisenhower (presidente fra il 1953 e il 1961), anche se sono diventate più frequenti nell’ultimo decennio.
In una famosa intervista all’Atlantic del 2016 Barack Obama esternò la sua frustrazione per quelli che definì i «free riders» europei, gli “scrocconi”. Obama si lamentò di come su temi sensibili per tutti come il terrorismo, le operazioni militari russe e la crescente ostilità cinese, faticasse a «stimolare un’iniziativa autonoma» da parte degli alleati europei principali, che allora comprendevano anche la Gran Bretagna (poi uscita dall’UE). Subentratogli alla Casa Bianca, Trump esasperò questo concetto: prese decisioni di politica estera in modo autonomo e non coordinato con la NATO, chiese polemicamente ai suoi collaboratori a cosa servisse un’alleanza del genere. In quell’occasione Macron arrivò a definire la NATO «cerebralmente morta» e vari leader europei sottolinearono l’esigenza di pensare a una difesa comune indipendente dagli Stati Uniti.
Nel 2020 la vittoria elettorale di Biden, convinto atlantista, fece presto dimenticare quelle risoluzioni: il presidente Democratico rivitalizzò l’alleanza e impegnò economicamente gli Stati Uniti per sostenere la difesa militare dell’Ucraina. Oggi quel sostegno è bloccato dal Congresso statunitense: i Repubblicani si sono mostrati meno disponibili a un nuovo finanziamento delle spese, subordinandolo a questioni politiche interne (come il controllo dei confini), nel contesto di un processo di radicalizzazione del confronto politico in ottica elettorale.
Mancano più di otto mesi alle elezioni statunitensi, ma se anche Trump non dovesse essere eletto, la questione del contributo alla NATO è destinata a rimanere centrale. È ormai piuttosto consolidata l’opinione che gli Stati Uniti non si occuperanno della difesa dell’Europa per sempre, indipendentemente da chi sarà il presidente: negli Stati Uniti è in corso ormai da più di un decennio un percorso di progressiva riduzione delle attenzioni dedicate a Europa e Medio Oriente, per spostarle invece sull’Asia e sul Pacifico.
Attualmente solo 11 dei 31 membri della NATO rispettano gli obiettivi di spesa militare fissati nei termini dell’alleanza. È previsto che ogni paese contribuisca per una cifra pari il 2 per cento del proprio prodotto interno lordo: secondo le stime elaborate in un report della NATO nel luglio scorso, oltre agli Stati Uniti (3,49%), lo hanno fatto la Polonia (3,9%), la Grecia (3,01%), l’Estonia (2,73%), la Lituania (2,54%), la Finlandia (2,45%), la Romania (2,44%), l’Ungheria (2,43%), la Lettonia (2,27%), il Regno Unito (2,07%) e la Slovacchia (2,03%). La Francia si avvicina al limite (1,90%), la Germania è ampiamente sotto (1,57%) e la sua percentuale è destinata salire il prossimo anno solo per la contrazione dell’economia e quindi del PIL. L’Italia con l’1,47% è 24esima, al di sotto della media NATO che è dell’1,65 per cento.
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La Polonia è il paese che spende di più per le proprie forze armate in Europa e dopo un incontro lunedì con il presidente francese Emmanuel Macron il nuovo primo ministro Donald Tusk ha ribadito la necessità di un cambio di prospettive, sostenendo che l’Unione Europea debba diventare una «potenza militare» indipendente: «Non c’è ragione per cui dobbiamo essere così più deboli a livello militare rispetto alla Russia. Aumentare la produzione e intensificare la cooperazione sono priorità non più discutibili».
Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha invece invitato l’Europa a una «produzione di massa» di armi, necessaria perché «sfortunatamente non viviamo in tempi di pace». Dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia gli investimenti militari dei paesi membri e le capacità produttive sono aumentate, ma al momento restano ancora ampiamente insufficienti anche solo a rispondere alle esigenze dell’Ucraina.
L’Unione Europea aveva promesso di fornire all’esercito ucraino 1 milione di munizioni entro marzo, ma riuscirà a consegnarne poco più della metà, arrivando a 1,1 milioni di munizioni solo alla fine dell’anno. Da quando è iniziata la guerra poi molti paesi hanno destinato a Kiev buona parte dei propri arsenali “di scorta”, che dovranno essere rimpiazzati: con una guerra che si prospetta lunga, aumentare le capacità produttive è un’esigenza, ma implica spostare molti fondi, sia nazionali che europei, togliendoli a altri progetti o a tagli delle tasse.
Un maggiore impegno economico per quel che riguarda la spesa militare è però impopolare in molti paesi dell’Europa occidentale, soprattutto dopo alcuni decenni in cui l’esigenza di difendersi da un’aggressione esterna sembrava superata. Anche se vincendo le resistenze interne gli stati decidessero di intraprendere questa strada, il processo sarebbe lungo e richiederebbe alcuni anni.
Aumentare il coordinamento delle politiche di difesa a livello europeo e creare quella che viene spesso definita una “difesa comune” appare almeno altrettanto complesso: oggi nell’Unione non esiste un commissario alla Difesa, funzioni e competenze all’interno della Commissione europea sono divise fra il vicepresidente, che è anche capo ufficiale dell’Agenzia europea per la difesa, e il commissario responsabile del mercato interno, che si occupa della parte relativa all’industria bellica e gli investimenti. L’Agenzia europea si occupa di «coordinare politiche comuni di difesa», una formula vaga che lascia ai singoli stati membri la totale sovranità sull’argomento, mentre l’impegno della Commissione europea per il prossimo triennio è quello di favorire l’aumento della capacità produttiva militare.
Ciclicamente ritornano ipotesi di creazione di forze armate europee, che operino non solo in missioni di peacekeeping, ma al momento sembrano decisamente premature e poco realizzabili, in un panorama politico poco unitario a livello europeo (anche l’approvazione del finanziamento all’Ucraina ha dovuto superare parecchi ostacoli) e che è destinato a cambiare ulteriormente dopo le elezioni europee del prossimo giugno.
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