A Rafah 1,4 milioni di palestinesi aspettano l’esercito israeliano
In tendopoli, con poca acqua e cibo e senza vie di fuga: la situazione è destinata a precipitare con l'offensiva militare annunciata dal governo di Israele
Nella notte fra domenica e lunedì le forze armate israeliane hanno effettuato un grosso bombardamento su Rafah, l’ultima grande città della Striscia di Gaza che Israele non ha ancora attaccato via terra nell’ambito della guerra contro Hamas. Venerdì il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva di fatto annunciato la prossima invasione dell’area, che negli scorsi giorni è stata bloccata dalle richieste degli alleati di salvaguardare il più possibile i civili.
A Rafah e nei suoi dintorni sono attualmente ospitati circa 1,4 milioni di palestinesi, che in questi mesi si sono rifugiati nell’estremità meridionale della Striscia di Gaza in seguito alle progressive evacuazioni del resto del territorio, in corrispondenza delle operazioni militari israeliane. Quella di Rafah era l’ultima area definita sicura, ma presto rischia di trasformarsi in una città assediata, da cui le vie d’uscita sicure praticamente non esistono.
Israele vorrebbe che i palestinesi, fuggiti da ogni parte della Striscia di Gaza, lasciassero anche Rafah, ma non è affatto chiaro verso quale direzione dovrebbero spostarsi. Rafah confina a sud con l’Egitto, a ovest con il mar Mediterraneo, a est con Israele e a nord con il resto della Striscia, per lo più distrutto, non considerato sicuro e attualmente occupato dall’esercito israeliano. Spostare una tale quantità di persone sarebbe già normalmente complesso: lo è a maggior ragione perché non esiste una destinazione sicura e perché già oggi la situazione a Rafah è gravissima. Come ha scritto il giornalista di Repubblica Daniele Raineri, i palestinesi a Rafah sono «intrappolati».
Il governato di Rafah (una suddivisione territoriale e amministrativa accomunabile a una nostra provincia) prima della guerra ospitava circa 275mila persone sui suoi 64 chilometri quadrati di territorio: già allora era una delle aree più densamente popolate della Striscia di Gaza, che a sua volta è una delle aree più densamente popolate al mondo. Oggi quella popolazione è aumentata di almeno cinque volte e la densità media è stata stimata in 22mila persone per ogni chilometro quadrato, anche se nelle aree cittadine è ancora maggiore. Per avere un termine di paragone, a Milano la densità della popolazione è di circa 2.000 persone per chilometro quadrato, all’interno dei confini del Comune.
Le immagini satellitari danno una rappresentazione piuttosto evidente della situazione a Rafah, dove quasi ogni spazio aperto si è trasformato in una tendopoli.
Jens Laerke, portavoce dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari (OCHA), ha definito Rafah una «pentola a pressione piena di disperazione», dicendo di aver «paura di cosa può succedere in futuro» e che la maggior parte della popolazione vive in tende, strutture di fortuna o all’aperto.
A ovest della città molti palestinesi hanno cercato rifugio nell’area di Muwasi, lungo la costa, su spiagge in precedenza disabitate: era stata dichiarata “zona sicura” dall’esercito israeliano, anche se nelle ultime settimane sono stati segnalati attacchi. Ma anche tutta la zona fra la città e il mare, per lo più di dune e deserto, è stata occupata da tende, così come le piazze, i parchi e le strade di Rafah. Le strutture dell’ONU, principalmente scuole, sono notevolmente sovraffollate, mentre in un solo appartamento vivono ora famiglie estese, composte magari da 30 persone. Si stima che attualmente a Rafah ci siano oltre 600mila minori.
Ma a Rafah manca tutto, non solo rifugi sicuri: la rete elettrica è definita come “pressoché inesistente” e dove sono presenti pannelli solari funzionanti si organizzano stazioni di ricarica per i telefoni cellulari. Le uniche reti telefoniche attive sono quelle egiziana e israeliana, e anche le medicine sono praticamente introvabili: le farmacie ancora aperte e saltuariamente rifornite sono poche, e all’esterno si formano lunghe code che possono durare ore.
Code e lunghi spostamenti sono necessari anche per arrivare alle cisterne che distribuiscono acqua potabile, mentre il 90 per cento della popolazione di Rafah mangia meno di un pasto al giorno, secondo l’ONU. I generi alimentari, quando disponibili, sono aumentati di prezzo anche di dieci volte, un singolo uovo può costare un dollaro. Gli aiuti umanitari non raggiungono tutti e in un contesto di crescente bisogno sono comuni gli assalti ai tir che li trasportano, per accaparrarsi razioni di cibo.
In un contesto sovraffollato e in cui è impossibile rispettare precauzioni igieniche sono frequenti scabbia, pidocchi e influenze, ma si segnalano anche focolai di epatite A. Gli ospedali ancora attivi, fra cui l’Abu Yousef Al Najjar e l’Al Kuwaiti, faticano a gestire anche solo le emergenze causate dai bombardamenti.
Questa situazione già tragica è destinata a peggiorare ulteriormente in vista dell’offensiva di terra che Israele vuole iniziare nell’area in tempi piuttosto brevi. Anche gli alleati, fra cui gli Stati Uniti, hanno evidenziato come un’operazione militare in queste condizioni non sia sostenibile, perché causerebbe un numero elevatissimo di perdite civili. Netanyahu ha detto che l’obiettivo della prossima operazione sarà distruggere quattro battaglioni di Hamas che l’intelligence israeliana ritiene siano a Rafah: ha ordinato ai vertici militari di studiare un piano di evacuazione per i civili, che però è decisamente complesso.
I palestinesi di Rafah non possono cercare riparo in Egitto, perché il governo egiziano ha più volte ribadito di non essere disposto ad accogliere i rifugiati sul proprio territorio. L’Egitto ha recentemente spostato 40 carri armati e personale militare vicino al confine e ha fatto presente per vie diplomatiche che riterrebbe responsabile Israele di una eventuale crisi umanitaria sul proprio territorio.
Le soluzioni alternative consistono in un ulteriore concentramento di persone nell’area costiera occidentale, quasi totalmente priva di strutture e già sovraffollata, o un ritorno verso le zone del centro e del nord della Striscia, dove i palestinesi spesso troverebbero solo macerie. Molti media internazionali definiscono questa situazione “una trappola”, ma i rifugiati palestinesi si preparano comunque a una nuova fuga, cercando una soluzione almeno per i propri parenti più prossimi e scommettendo su quella che può presentare un tasso di rischio minore.
Lo ha raccontato anche il giornalista di Gaza Sami al Ajrami su Repubblica, lunedì: «Ho passato la notte a chiedermi cosa fare, ne ho discusso con mia moglie, con mio fratello, con gli altri capi delle famiglie con cui dividiamo la stanza e mezzo dove siamo alloggiati da un mese. E alla fine la soluzione che mi sembra più sicura, è anche una delle più difficili ed estreme». La sua scelta sarà di spostarsi verso la spiaggia di Khan Yunis, zona che però oggi è ancora luogo di combattimenti, ma che potrebbe smettere di esserlo quando l’esercito israeliano concentrerà le proprie forze su Rafah.
Non è nemmeno certo però che l’esercito israeliano permetterà ai palestinesi di andare verso nord, perché in quel caso sarebbe difficile distinguere fra civili e militanti di Hamas.
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