L’Emilia-Romagna ha regolamentato l’accesso al suicidio assistito
Con una delibera e non con una legge: uno strumento assai meno incisivo, ma che ha permesso di evitare una discussione in consiglio regionale
La regione Emilia-Romagna ha approvato una delibera regionale e delle linee di indirizzo per regolamentare l’accesso al suicidio assistito, o morte assistita, la pratica con cui a determinate condizioni ci si auto-somministra un farmaco letale (diversamente dall’eutanasia, in cui il farmaco viene somministrato da un medico). L’Emilia-Romagna è la seconda regione italiana a essersi dotata di strumenti per poter ricorrere alla morte assistita – lo aveva già fatto la Puglia, sempre con una delibera regionale – ma è la prima a stabilire dei tempi certi precisi entro cui si dovranno valutare le richieste.
Gli strumenti adottati dall’Emilia-Romagna prevedono l’istituzione di un comitato etico territoriale per valutare le richieste (il Comitato regionale per l’etica nella clinica, il COREC) e poi l’invio di linee di indirizzo alle aziende sanitarie locali. Insieme, i due atti prevedono che entro massimo 42 giorni la richiesta di suicidio assistito rivolta all’azienda sanitaria competente sia valutata sia da una commissione di medici e specialisti che dal comitato etico. In questo modo chi presenterà la richiesta potrà accedere al suicidio assistito entro quel termine, oppure sapere se e con quali motivazioni è stata respinta.
In Italia il suicidio assistito è già legale: venne depenalizzato ad alcune condizioni da una sentenza della Corte Costituzionale del 2019, che a suo tempo invitò il parlamento a fare una legge per regolamentare in modo preciso modalità, procedure e tempi di accesso alla pratica. Il parlamento però non ha mai approvato alcuna legge, con conseguenze molto negative per le persone che avrebbero potuto ricorrere alla pratica: alcune hanno dovuto affrontare lunghe vicende giudiziarie per poter infine ottenere il suicidio assistito, altre sono morte tra grandi sofferenze, altre ancora sono andate a uccidersi all’estero in paesi dove è legale.
Per questo motivo le regioni hanno iniziato ad arrangiarsi come possono, in modo da avere procedure strutturate per affrontare i casi in cui viene richiesto il suicidio assistito, anche perché le aziende sanitarie locali che devono gestire le pratiche sono controllate dalla regione. Diverse regioni hanno quindi cercato in vari modi di dotarsi autonomamente di norme per garantire in modo efficiente quello che la Corte Costituzionale aveva già legalizzato, ma il fatto che debbano farlo da sole comporta varie incognite e problemi.
La prima regione a cercare di dotarsi di una legge era stata il Veneto, con una proposta di legge d’iniziativa popolare promossa dall’associazione Luca Coscioni che non è passata (è stata rinviata in commissione dopo la bocciatura dei due articoli su cui si era votato, e verosimilmente non verrà ridiscussa).
Un’altra regione, la Puglia, ha approvato una delibera regionale come l’Emilia-Romagna, ma rispetto a quella di quest’ultima è meno efficace perché non comprende alcuna indicazione sui tempi di accesso alla morte assistita: cioè proprio sulla questione più rilevante del problema, che è il motivo principale per cui le regioni stanno cercando di trovare autonomamente gli strumenti per regolamentare la materia.
Anche la delibera dell’Emilia-Romagna ha comunque forti limiti: le delibere regionali sono uno strumento molto meno incisivo di una legge, perché possono essere modificate o ritirate al primo cambio di giunta senza dover passare per una discussione in consiglio regionale. Ma d’altra parte scegliendo di approvare una delibera il governo dell’Emilia-Romagna ha trovato un modo per regolamentare il suicidio assistito senza dover passare a sua volta dal consiglio regionale, che con tutta probabilità avrebbe avviato una discussione molto divisiva anche all’interno del partito di Bonaccini, il Partito Democratico, in cui diverse persone sono contrarie alla libertà di scelta sul cosiddetto “fine vita” (anche se, vale la pena ribadirlo, il suicidio assistito è già legale, quindi non regolamentare le modalità di accesso è una semplice forma di ostruzionismo a un diritto già garantito a livello costituzionale).
Le divisioni interne al Partito Democratico sono emerse con particolare chiarezza proprio dopo il Veneto, in seguito all’astensione durante il voto in aula della deputata del PD Anna Maria Bigon: l’astensione di Bigon aveva di fatto contato come voto contrario ed era stata determinante per la bocciatura della legge: sui due articoli su cui si era votato servivano 26 favorevoli e ce n’erano solo 25. Dopo questo episodio Bigon era stata destituita dal proprio incarico di vice-segretaria regionale, suscitando indignazione da chi nel partito era d’accordo con le sue posizioni.
L’adozione di una delibera regionale e l’emanazione di linee di indirizzo permettono quindi, di fatto, di non passare per una nuova discussione in consiglio regionale in un momento di forti divisioni interne al PD su questo tema. Nel frattempo, comunque, l’opposizione dei partiti di destra in regione sta già cercando di contrastare la delibera e le linee di indirizzo adottate dalla giunta di Bonaccini: la consigliera regionale di Forza Italia Valentina Castaldini lo ha accusato di «eludere il voto» e secondo alcune indiscrezioni i partiti d’opposizione starebbero preparando un ricorso al TAR, il Tribunale amministrativo regionale.
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