Spendiamo troppo o troppo poco per le nostre Forze Armate?
Aumentare le risorse destinate alla Difesa non è affatto popolare, eppure la NATO e gli alti comandi si lamentano della loro insufficienza
Il prolungarsi della guerra in Ucraina, la guerra nella Striscia di Gaza tra Israele e Hamas e gli attacchi degli Houthi alle navi occidentali nel mar Rosso hanno contribuito negli ultimi mesi a rianimare la polemica intorno alle spese militari dell’Italia, alimentata in particolare da chi sostiene che siano troppe, e chi troppo poche. Il ministro della Difesa Guido Crosetto, per dire di questi ultimi, ha più volte ribadito l’inadeguatezza delle risorse che vengono destinate dal bilancio statale al finanziamento delle forze armate nel loro complesso.
Il primo febbraio scorso, durante un’audizione in parlamento, Crosetto ha spiegato che sia la necessità di continuare a sostenere la resistenza ucraina contro l’invasione della Russia sia le conseguenze della crisi nel mar Rosso impongono all’Italia un «impegno per la sicurezza» che deve a suo avviso essere sostenuto «tramite un finanziamento aggiuntivo che vada oltre il perimetro previsto con la recente approvazione della legge di bilancio»: che è la manovra finanziaria con cui il governo ha assegnato per il 2024 29,1 miliardi di euro alla Difesa.
Del resto, un analogo avvertimento Crosetto lo aveva inserito nel Documento programmatico pluriennale (DPP) pubblicato nell’ottobre scorso, cioè nell’atto in cui ogni anno il ministero della Difesa indica i suoi obiettivi e i suoi impegni di spesa per i successivi tre anni. Crosetto aveva scritto che l’idea di utilizzare l’esercito principalmente per operazioni e missioni di pace nelle aree critiche del mondo, rimasta valida negli ultimi tre decenni, «è un lusso che oggi, soprattutto alla luce dell’attuale contesto internazionale, l’Italia non può più permettersi». Al contrario, il potenziamento delle proprie capacità militari deve tornare a essere «il principale baluardo in termini di difesa e deterrenza da tutti i tipi di minacce, presenti e future».
Stabilire se l’Italia spenda abbastanza oppure no per il proprio esercito non è facile. Nel 2023 le risorse autorizzate per il ministero della Difesa erano 27,7 miliardi di euro, di cui circa il 60 per cento era costituito da spese per il personale, cioè in sostanza per pagare gli stipendi dei militari e dei civili che lavorano nel settore. In aggiunta, vanno considerati però anche altri fondi: quelli di competenza del ministero dell’Economia (poco meno di un miliardo) che servono a finanziare le missioni internazionali e quelli gestiti dal ministero delle Imprese (circa 2 miliardi) che riguardano alcuni investimenti industriali in campo militare. Nel complesso, il cosiddetto bilancio integrato ha raggiunto per il 2023 i 30,7 miliardi di euro.
Da anni gli alti comandi delle forze armate si lamentano dell’impegno insufficiente per ammodernare e potenziare le dotazioni militari (soprattutto per quel che riguarda artiglieria e fanteria, cioè i mezzi di terra, ma non solo), assumere nuovo personale qualificato, fare maggiori investimenti nella ricerca scientifica utilizzabile in questo settore. Inoltre, la scelta di rifornire di armi l’Ucraina da ormai quasi due anni ha provocato una progressiva riduzione delle riserve degli arsenali, specie quelle delle munizioni. Tuttavia, nessun governo negli ultimi anni ha deciso di aumentare in maniera significativa le risorse per il comparto della difesa. E questo in parte per motivi finanziari, connessi alle difficoltà economiche dell’Italia e al suo enorme debito pubblico; in parte per motivi politici, dal momento che la spesa militare non gode di grosso favore popolare, e anzi è sempre guardata con sospetto dalla maggior parte delle persone, non solo dagli attivisti e dai movimenti pacifisti.
Proprio in virtù di questa diffusa ostilità nei confronti delle spese militari, negli ultimi anni diversi ministri della Difesa hanno cercato di valorizzare la cosiddetta funzione duale, cioè la possibilità di utilizzare in ambito civile (ad esempio nella tutela del territorio o nella prevenzione idrogeologica) tecnologie sviluppate in ambito militare, un settore in cui la ricerca scientifica è tradizionalmente molto avanzata. Ma anche su questo aspetto si sono concentrate le critiche di movimenti antimilitaristi, come la Rete per il Disarmo, che chiedono per esempio di sospendere il finanziamento ai programmi di ricerca in ambito militare portati avanti dal ministero dello Sviluppo economico (oggi ministero delle Imprese).
Proprio sulla spinta di questi movimenti, per esempio, durante il primo governo di Giuseppe Conte, Luigi Di Maio da ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico si oppose al finanziamento di un progetto sostenuto invece dalla ministra della Difesa Elisabetta Trenta per sostituire alcuni missili contraerei a corto e medio raggio ormai obsoleti (gli Aspide) con nuovi missili moderni (i Camm-ER), per un costo di 35 milioni. Ci furono tensioni nel governo e dentro il Movimento 5 Stelle, e alla fine l’operazione venne solo rinviata di qualche mese, e portata a termine poi nel 2022 con un provvedimento del governo di Mario Draghi, nel quale Luigi Di Maio era ministro degli Esteri.
Sempre nell’ottica del contenimento della spesa militare, nel 2012, il governo guidato da Mario Monti approvò una norma che prevedeva la progressiva riduzione delle Forze armate da 190 a 150mila unità (all’inizio degli anni Duemila erano circa 300mila). Il risparmio stimato era di circa mezzo miliardo all’anno, ma l’attuazione di questa norma è stata più volte rinviata, e Crosetto ha espresso la volontà di modificarla «alla luce del mutato scenario internazionale».
Spesso, poi, le istanze antimilitariste alimentano campagne contro la NATO, cioè l’alleanza militare tra Stati Uniti ed Europa, che vengono accolte e portate avanti soprattutto dai partiti populisti e cosiddetti “anti-establishment” sia di destra sia di sinistra, ma non solo. Sono posizioni che in una forma un po’ attenuata condividono anche esponenti di sinistra più moderati, e che in passato sono state adottate in forme diverse anche dalla Lega di Matteo Salvini e dal M5S.
È insomma anche per questa generale diffidenza verso le spese militari che nel complesso le risorse della Difesa sono rimaste più o meno le stesse negli anni, in rapporto alle possibilità finanziarie totali dello Stato. Dal 2016 al 2023 si è passati da 19,9 a 27,7 miliardi di euro destinati alla Difesa, con un aumento progressivo e costante nel periodo che tiene conto anche dell’aumento dell’inflazione. Ma in rapporto al bilancio generale dello Stato non è cambiato molto: dal 3,3 per cento del 2019 al 3,2 del 2023, con un picco del 3,5 nel 2020.
C’è però un altro indicatore rilevante per farsi un’idea: la spesa militare in rapporto al prodotto interno lordo (PIL), quindi non rispetto al totale delle spese dello Stato, ma rispetto all’indicatore che misura la ricchezza generale prodotta nel paese in un anno.
Nel 2014 ci fu in Galles un importante incontro dei leader dei paesi della NATO, in cui tutti assunsero l’impegno di portare la spesa per la Difesa al 2 per cento in rapporto al PIL, possibilmente nell’arco di un decennio ma in maniera progressiva e compatibilmente con le proprie capacità di spesa. Lo stesso obiettivo venne poi ribadito in un analogo incontro della NATO a Varsavia nel 2016.
Era un accordo che dava concretezza a una richiesta che gli Stati Uniti facevano fin dal 2006 per sollecitare gli alleati a contribuire maggiormente al bilancio NATO, visto che 29 dei 30 membri spendevano in Difesa, tutti insieme, meno della metà di quello che spendeva da solo il governo americano pur avendo, tutti insieme, un PIL paragonabile. Gli stessi accordi prevedevano inoltre che almeno un quinto della spesa venisse riservato agli investimenti, così da assicurare un potenziamento e un aggiornamento costante di mezzi e personale, e infine che gli alleati mettessero tutti a disposizione dei contingenti pronti a intervenire nelle operazioni militari.
L’Italia ha avuto ben pochi problemi a rispettare questi ultimi due parametri. La quota di investimenti sul totale delle spese della Difesa è rapidamente cresciuta, fino al 23 per cento nel 2023. Quanto alle operazioni, i militari italiani partecipano attualmente a 9 missioni della NATO, con una presenza massima di 5.200 militari e un finanziamento complessivo di 463,5 milioni, secondo quanto è stato autorizzato dal parlamento nel maggio e nel settembre del 2023.
Il problema riguarda invece la spesa totale per la Difesa in rapporto al PIL, che è cresciuta molto lentamente ed è tuttora molto al di sotto dell’obiettivo chiesto dagli Stati Uniti. Secondo le stime della NATO nel 2014 era dell’1,14 per cento; per il 2023 era stimata all’1,46 per cento. Bisogna tenere presente che i metodi di calcolo utilizzati dalla NATO sono un po’ diversi rispetto a quelli italiani: la NATO ad esempio tiene conto della spesa pensionistica per il personale civile e militare, che in Italia invece non è sostenuta dal ministero della Difesa ma dall’INPS. Al contrario non tiene conto, per quel che riguarda le operazioni dell’Arma dei Carabinieri per la sicurezza del territorio, dei militari impiegati nei confini nazionali, ma solo delle spese relative agli 8.600 impiegabili all’estero.
Secondo le stime elaborate in un report della NATO nel luglio scorso, nel 2023 i paesi membri dell’alleanza ad aver raggiunto l’obiettivo del 2 per cento sono stati 11 su 30: oltre agli Stati Uniti (3,49%), lo hanno fatto la Polonia (3,9%), la Grecia (3,01%), l’Estonia (2,73%), la Lituania (2,54%), la Finlandia (2,45%), la Romania (2,44%), l’Ungheria (2,43%), la Lettonia (2,27%), il Regno Unito (2,07%) e la Slovacchia (2,03%). L’Italia è 24esima, al di sotto della media NATO che è dell’1,65 per cento. Secondo le stime di spesa che riguardano il periodo tra aprile 2023 e dicembre 2024, l’Italia contribuirà nel complesso al bilancio della NATO per l’8,7 per cento, e sarà la quinta dopo Stati Uniti e Germania (entrambi al 16,2 per cento), Regno Unito (11,2) e Francia (10,4).
In ogni caso non è solo una questione contabile. L’impegno a raggiungere questo obiettivo viene valutato come un segnale della volontà di ciascun paese di partecipare attivamente alla NATO. È insomma una questione diplomatica, oltre che finanziaria: rinunciare del tutto a raggiungere i parametri di spesa fissati metterebbe l’Italia, o qualsiasi altro paese, in una posizione scomoda all’interno dell’alleanza. Inoltre, partecipare con più incisività al bilancio della NATO e poter vantare un sistema militare nazionale efficiente consente di avere maggiore voce in capitolo nel definire la linea della NATO stessa: significa contare di più e andare meno a rimorchio di ciò che decidono i paesi più importanti.
Questo spiega perché l’atteggiamento di tutti i governi che si sono succeduti dal 2014 a oggi sia stato più o meno lo stesso, ossia da un lato ribadire la volontà di adeguarsi a quel parametro del 2 per cento, ma dall’altro farlo gradualmente, così da non mettere a rischio l’equilibrio di bilancio. Inoltre i ministri della Difesa e i presidenti del Consiglio hanno chiesto più volte l’aiuto dell’Unione Europea, cercando di ottenere agevolazioni fiscali sulle spese militari.
Secondo i dati della NATO negli anni tra il 2018 e il 2021, quando Giuseppe Conte era presidente del Consiglio, le spese militari italiane sono aumentate sensibilmente, da 21 a oltre 26 miliardi all’anno, a ritmi perfino superiori a quelli degli altri governi precedenti e successivi, con un incremento in termini relativi al PIL dall’1,2 all’1,6 per cento. Oggi Conte in parlamento è tra i più ostili all’aumento delle spese militari, e si dice contrario alla «logica bellicista» del governo.
Nel novembre del 2019 il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, dirigente del Partito Democratico, ammise in parlamento che il proposito di raggiungere il 2 per cento entro il 2024 era «irrealistico», perché avrebbe imposto un aumento di spesa per il comparto militare di 14 miliardi. Aggiunse anche: «È però un dato di fatto che, da quando nel 2014 l’impegno è stato assunto, non vi è stata una significativa crescita del bilancio della Difesa». Nel marzo del 2022, quando il parlamento dovette autorizzare le politiche di sostegno militare all’Ucraina, si tornò a discutere sull’entità delle spese militari. Alla fine, su iniziativa dello stesso Guerini, fu deciso di indicare nel 2028 l’anno in cui sarebbe stato raggiunto l’obiettivo del 2 per cento. È la stessa scadenza indicata anche da Crosetto nel Documento programmatico pluriennale, con qualche scetticismo sulla reale possibilità di rispettarla.