Chiacchiere, bugie, frappe, cenci, crostoli, galani, lattughe
O “sfrappole”, come le chiamano a Bologna: a Carnevale anche ogni nome di dolce vale
Nel periodo di Carnevale in gran parte d’Italia si preparano le chiacchiere, i dolci più famosi associati alla festa. In realtà, con qualche variazione, queste sfoglie fritte ricoperte di zucchero a velo vengono cucinate in tutta Europa, e hanno alle spalle una storia antichissima.
Nella raccolta di ricette De re coquinaria il gastronomo, cuoco e scrittore romano Marco Gavio Apicio, vissuto tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo, fa risalire l’origine di un dolce molto simile alle chiacchiere ai Saturnalia, una festa collegata al culto del Sole: durava alcuni giorni in cui le regole sociali erano ribaltate, gli schiavi si sedevano a tavola e venivano serviti dai padroni e anche il gioco d’azzardo era eccezionalmente permesso.
Durante questa festa, che si svolgeva durante gli ultimi giorni dell’anno, venivano preparati i frictilia, delle frittelle a base di uova e farina di farro, che venivano fritte nello strutto e avevano una forma tondeggiante. Data l’assenza di zucchero, per correggere la sapidità di queste frittelle si aggiungeva il miele, che ai tempi era uno dei pochi dolcificanti a disposizione.
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Nel manuale di tecnica agricola De agri cultura, composto probabilmente attorno al 160 avanti Cristo, Catone il Censore spiega come preparare i globulos, dei dolci molto simili ai frictilia per forma e processo di preparazione: erano delle palline ricavate da un impasto di formaggio di pecora e semola di grano, che venivano fritte e poi ricoperte di miele.
«Farai le palline dolci fritte così. Mischierai formaggio di pecora e semola di grano nella stessa quantità. Poi farai le palline, quante ne vuoi. Scalderai in una padella del grasso. Le cucinerai una alla volta o due alla volta; le girerai frequentemente con due cucchiai di legno; quando saranno cotte le toglierai; le bagnerai con del miele; sbriciolerai sopra semi di papavero: le servirai in questo modo».
Dolci simili esistono ancora oggi e vengono preparati con poca variazione. Alla base c’è sempre un impasto con uova, farina, burro a cui viene aggiunta una componente alcolica che cambia da regione a regione: c’è chi utilizza il Marsala, chi il liquore Strega, chi il Moscato e così via. Nella maggior parte dei casi vengono fritte, anche se esistono delle versioni cotte al forno o con un procedimento misto. Il pasticcere Michele Mastrorilli, titolare della pasticceria Viscontea di Milano, ne prepara diverse varianti, tra cui una «prima fritta e poi completata in forno».
Un argomento decisamente più divisivo è quello di come chiamarli (o chiamarle): cambia in base alle zone geografiche. Per esempio, in Piemonte e in Liguria si chiamano “bugie”, in Valle d’Aosta “merveilles”, nel Lazio e in alcune zone dell’Emilia–Romagna “frappe”, in Veneto “crostoli”. A Bologna si dicono “sfrappole”, in Abruzzo “cioffe”, in alcune zone della Calabria “guanti”.
Il nome “chiacchiere” però è quello più diffuso: viene utilizzato a Milano e in molte zone del Sud Italia, e attorno alle sue origini è nata una specie di mitologia. Un aneddoto citato spesso associa le origini del nome alla regina Margherita di Savoia, che secondo la leggenda chiese a Raffaele Esposito, un cuoco di corte, di preparare un dolce da gustare durante una “chiacchierata” con alcuni ospiti: da qui il nome chiacchiere.
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A questo proposito il professore dell’Università di Parma Alberto Grandi (che tra le altre cose conduce il podcast DOI – Denominazione di Origine Inventata, dedicato ai falsi miti della cucina italiana) dice ironicamente che «l’ufficio stampa di Margherita di Savoia doveva essere efficientissimo, dato che la regina è al centro di diverse leggende metropolitane», come quella relativa alla nascita dell’omonima pizza.
Secondo Grandi, questi dolci sono un «paradosso», dato che «derogano a uno dei principi della consuetudine culinaria italiana, dove di solito le pietanze hanno un nome che viene considerato sacro e intoccabile». Grandi fa l’esempio del Parmigiano, che «è un po’ l’esempio opposto, dato che è chiamato così dappertutto anche se per 150 anni si è fatto ovunque meno che a Parma».
Al contrario, «qui abbiamo una ricetta uguale per tutti, sostanzialmente una sfoglia di farina, uova e zucchero che viene fritta. A variare sono le componenti alcoliche utilizzate e soprattutto le forme, che cambiano da regione a regione. E queste forme danno origine a tantissimi nomi diversi». In provincia di Brescia per esempio si chiamano “lattughe”, «perché ricordano una foglia di insalata», mentre in Toscana «vengono definite cenci per via della loro forma piatta».
Grandi spiega che le origini di questi nomi potrebbero trovarsi nei ricettari di famiglia. «Sono fonti molto specifiche e redatte in maniera spontanea, che potrebbero fornire delle indicazioni importanti su come siamo arrivati ad avere tutti questi nomi».
Le chiacchiere sono i dolci più conosciuti del Carnevale, ma non gli unici: infatti ne vengono preparati decine di diversi. Alcuni sono diffusi in tutta Italia e non richiedono alcun dibattito terminologico, come per esempio le castagnole, delle frittelle preparate con un impasto molto semplice a base di farina, uova e zucchero, con cui si formano delle palline grandi più o meno come una castagna. Si trovano in qualsiasi pasticceria, ma sono una tradizione nell’Italia centrale. La loro preparazione è simile a quella degli struffoli, piccole palline di uova, farina e strutto fritte e condite con il miele, tipiche della cucina napoletana, anche se vengono fatte un po’ in tutto il Sud. Gli struffoli si chiamano così quasi dappertutto, ma per non attirare antipatie indesiderate è bene utilizzare una certa cautela: in Sicilia per esempio questo dolce si chiama “pignoccata”, e in alcune zone della Calabria “cicerata”.
Ci sono anche dolci legati a determinate città, come per esempio i tortelli milanesi, che sono simili ai bignè e solitamente vengono riempiti di crema, mentre a Mantova ci sono i riccioli, dei biscotti preparati con una sottilissima farina di mais.