La complicata storia di uno dei romanzi italiani più lunghi di sempre
Cioè “Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo, che è morto più di trent’anni fa ma di cui è appena uscito un libro inedito
di Giulio Passerini
Nelle librerie è arrivato da poco un nuovo libro di Stefano D’Arrigo, un importante scrittore italiano morto nel 1992. Si intitola Il compratore di anime morte ed è “nuovo” nel senso che finora non era mai stato pubblicato: è cioè un “inedito”, come si chiamano nel gergo editoriale i testi di autori famosi che per vari motivi non erano stati diffusi per molto tempo dopo la loro scrittura.
Oggi D’Arrigo non è uno scrittore particolarmente conosciuto, pur avendo tanti lettori affezionati e veri e propri fan, ma una cinquantina d’anni fa divenne molto celebre per aver scritto uno dei romanzi più lunghi e complessi della letteratura italiana, con le 1.276 pagine dell’edizione attuale: Horcynus Orca. Questo libro fu un caso letterario quando uscì nel 1975 e peraltro negli ultimi anni ha suscitato un certo interesse nell’editoria internazionale: dopo che nel 2015 è uscita per la prima volta un’edizione straniera, in tedesco, altri editori e traduttori europei si sono impegnati a proporre nei loro paesi il romanzo, a lungo considerato troppo difficile da rendere in altre lingue.
A dispetto della lunghezza Horcynus Orca ha una trama piuttosto semplice. È ambientato durante la Seconda guerra mondiale e racconta la storia di un marinaio della regia marina italiana di nome ’Ndrja Cambrìa che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si mette in cammino lungo le coste della Calabria per tornare al suo paese di pescatori, sullo stretto di Messina. La situazione che trova è drammatica: migliaia di delfini (chiamati “fere”) infestano il mare, divorando il pesce e distruggendo le reti dei pescatori, già provati dalla guerra e ormai ridotti alla fame, mentre un’orca gigantesca e ferita nuota minacciosamente avanti e indietro nello stretto.
Lungo il cammino ’Ndrja Cambrìa fa alcuni incontri simbolici e nel mentre sono narrati vari fatti che riguardano la sua vita e quella degli abitanti del paese, accompagnando il personaggio in una sorta di viaggio iniziatico che ricorda i poemi di Omero, in particolare l’Odissea, o i grandi romanzi dell’Ottocento e del Novecento detti “romanzi-mondo”, quelli che per lunghezza e complessità creano quasi un mondo a sé.
Tra gli altri Horcynus Orca è stato paragonato ad Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, Moby Dick di Herman Melville, Ulisse di James Joyce, L’uomo senza qualità di Robert Musil e L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon. Per quanto riguarda il modo in cui è scritto, è composto in una lingua molto letteraria, cioè di ricerca artistica: è piena di neologismi ed elementi dialettali, richiami all’alchimia, cioè a quella antica disciplina a cavallo tra chimica e magia, riferimenti alla grande letteratura occidentale e ai miti e alle leggende delle culture che si affacciano sul mar Mediterraneo. Per avere un’idea, il romanzo inizia così:
Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ’Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi.
Imbruniva a vista d’occhio e un filo di ventilazione alitava dal mare in rema sul basso promontorio. Per tutto quel giorno il mare si era allisciato ancora alla grande calmerìa di scirocco che durava, senza mutamento alcuno, sino dalla partenza da Napoli: levante, ponente e levante, ieri, oggi, domani e quello sventolio flacco flacco dell’onda grigia, d’argento o di ferro, ripetuta a perdita d’occhio.
Solo da alcune ore, anche se lo scirocco era sempre quello e anzi aveva infocato la posta, aveva cominciato sotto sotto ad allionirsi. Era stato naturalmente nel farsi da mare rema, intrigato e invelenito alle prime tormentose serpentine di spurghi e di rifiuti, simili a gigantesche murene che egli, col suo occhio di conoscitore, andava scandagliando dal colore diverso, come di pietra muschiata, gelido e rabbrividente. Era stato, perciò, dopo che le Isole erano scomparse alla sua vista dietro Capo Milazzo, e Stromboli, Vulcano, Lipari, che intravvedeva per la prima volta distanti e da terra, dopo averle viste sempre dalla palamitara, salendo per il Golfo dell’Aria, sembravano vaporare nel sole come carcasse di balene cadute in bonaccia.
Anche per gli aspetti stilistici è un romanzo di grande ambizione, che D’Arrigo impiegò più di vent’anni a scrivere e che ebbe anche una storia editoriale complicata.
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D’Arrigo infatti cominciò a lavorare su quello che poi sarebbe diventato Horcynus Orca nell’estate del 1956, quando insieme alla moglie Jutta Bruto passò un periodo di villeggiatura sullo stretto di Messina a casa del pittore Renato Guttuso, amico della coppia. All’epoca lo scrittore aveva 37 anni, viveva a Roma dove si era trasferito dalla provincia di Messina, e faceva il giornalista di cronaca e il critico d’arte. L’anno successivo sarebbe uscito il suo primo libro, una raccolta di poesie dal titolo Codice siciliano.
La prima idea del romanzo gli venne parlando con alcuni pescatori del posto, che gli raccontarono della vita che conducevano e della “fera”, il delfino, animale che definirono intelligente e malizioso, capace di rompere le reti e di disperdere il pesce. Nei successivi quindici mesi D’Arrigo riempì dodici grandi quaderni a quadretti. Secondo i racconti che ne fecero gli amici, amava scrivere a mano sdraiato sul pavimento, indossando una tuta o qualcosa di comodo, usando una biro a quattro colori.
Nel 1958, dopo aver riscritto a macchina parte del materiale, ne stralciò due episodi per inviarli al premio letterario per inediti Cino Del Duca, che vinse. In giuria c’erano lo scrittore Elio Vittorini e il poeta Vittorio Sereni, che all’epoca lavoravano entrambi per Mondadori. I due proposero ad Arnoldo Mondadori in persona di pubblicare il romanzo nella sua interezza, e l’editore se ne convinse perché gli piacque molto.
Ma le trattative per il contratto tra D’Arrigo e la casa editrice andarono per le lunghe per varie ragioni, tra cui il fatto che per lo scrittore il lavoro sul libro non era ancora finito. Vittorini poi complicò le cose perché nel frattempo voleva pubblicare alcuni capitoli sul Menabò, la rivista culturale che dirigeva per Einaudi (che all’epoca non faceva ancora parte del gruppo Mondadori, ed era un’azienda concorrente). A D’Arrigo però l’idea non piaceva: era convinto che la sua opera dovesse essere pubblicata solo una volta pronta, e nella sua interezza.
Due anni dopo, stanco di aspettare, Vittorini partì da Milano e si presentò a casa di D’Arrigo, a Roma, riuscendo a strappargli infine le prime duecento pagine del romanzo con la promessa di permettere all’autore di rivedere il testo prima della pubblicazione, e di poterlo ripulire da un uso del dialetto ancora molto ampio e che D’Arrigo voleva ridurre. Cosa che però alla fine non accadde: i tempi stringevano e Vittorini decise di corredare l’estratto con un glossario dei termini dialettali e di quelli inventati da D’Arrigo che l’autore si rifiutò di approvare, non rispondendo alle lettere e negandosi al telefono.
Il testo uscì sul Menabò nel settembre del 1960 col titolo I giorni della fera, con gran dispetto di D’Arrigo che rispose all’invio della copia di cortesia da parte della redazione con un secco telegramma: «Merda». Non è facile oggi comprendere il perché di una reazione così dura da parte dell’autore, ma è una parte importante della storia e aiuta a capire l’accoglienza ambivalente che avrebbe ricevuto il romanzo una volta pubblicato, quasi quindici anni dopo.
Negli anni Cinquanta per più di metà degli italiani la lingua madre era ancora uno dei molti dialetti della penisola, e l’italiano veniva usato solo come seconda lingua per la burocrazia e il lavoro, anche se era la lingua dei giornali e delle prime trasmissioni televisive. L’uso dei dialetti era considerato un disvalore tanto dalla politica quanto da una buona parte degli intellettuali. Gli scrittori se ne servivano soprattutto con intento mimetico, cioè per rappresentare in modo realistico i propri personaggi (fecero così Beppe Fenoglio e Pier Paolo Pasolini, ad esempio), o espressivo (Carlo Emilio Gadda), considerandoli generalmente lingue arretrate, simbolo di un’Italia che doveva essere lasciata nel passato.
Una via di mezzo tollerata era il gergo delle fabbriche delle grandi città del Nord, dove ormai convivevano parlanti di tutta la penisola, e che in qualche misura veniva considerato al passo con i tempi. Vittorini era uno dei più convinti sostenitori dell’uso dell’italiano senza dialettismi in letteratura, e quel numero del Menabò voleva essere un’occasione per ribadire questa tesi affrontando il tema della cosiddetta “questione meridionale”, cioè della situazione di arretratezza economica e sociale delle regioni del Sud. Al contrario, D’Arrigo non riteneva che l’uso dei dialetti andasse a disonore della letteratura, e anzi voleva unirli all’italiano creando una lingua fuori dal tempo, che fosse così nuova e viva che chiunque avrebbe potuto capirla senza spiegazioni grazie al contesto in cui veniva usata. Per questo era contrario al glossario fatto seguire a I giorni della fera, non solo per ragioni stilistiche ma anche politiche.
D’Arrigo ritenne di aver finito il suo romanzo nel 1961. Nell’ambiente degli intellettuali si cominciò a vociferare di una prossima pubblicazione, più volte annunciata da Mondadori ai librai e agli editori stranieri con cui vennero presto avviate le trattative per la cessione dei diritti di pubblicazione all’estero. Ma la correzione delle bozze, un processo che di solito dura qualche settimana, andava per le lunghe.
In un primo momento collaborano anche i critici letterari Niccolò Gallo e Walter Pedullà, amici dell’autore, ma poi D’Arrigo si spazientì per il loro coinvolgimento e decise di proseguire da solo, promettendo di concludere in quindici giorni. Da quel momento passeranno quasi quindici anni, una vita di scritture e riscritture, di varianti e ripensamenti anche minimi, che portarono a un grande allungamento del romanzo: alla fine il numero di pagine raddoppiò. La casa dello scrittore era invasa dalle carte: lungo tutto l’appartamento correvano corde da bucato a cui D’Arrigo appendeva le pagine manoscritte; di tanto in tanto aggiungeva un foglio con delle mollette e andava avanti, sempre con l’aiuto di Bruto, che batteva a macchina il testo, oltre a occuparsi di ogni incombenza pratica e sostenere la famiglia col suo lavoro alla Cassa del Mezzogiorno.
Fu un periodo difficile per la coppia: il lavoro sul testo era sfiancante e ossessivo, condotto in un isolamento quasi completo, e metteva a dura prova la salute di D’Arrigo (già minata da forme di anemia e di epilessia) che sempre più spesso andava incontro a periodi che oggi definiremmo di burnout. Mondadori da parte sua era insistente, sperando di poter pubblicare presto l’atteso romanzo di cui nell’ambiente culturale si parlava ormai da anni. All’autore – che sosteneva anche dal punto di vista economico – diceva di aver cominciato la sua carriera da grande editore pubblicando D’Annunzio (Gabriele), e aveva intenzione di concluderla pubblicando D’Arrigo. Alla fine non gli riuscì: morì nel 1971, quattro anni prima di poter vedere il libro stampato.
L’immenso, maniacale lavoro di D’Arrigo terminò l’8 settembre 1974, giorno in cui l’autore cedette alle insistenze della casa editrice e si rassegnò infine a consegnare il manoscritto. In esergo comparirà la dedica «A Jutta, che meriterebbe di figurare in copertina con il suo Stefano». Come titolo definitivo venne scelta una variazione del nome scientifico della specie di uno degli animali presenti nel romanzo, l’orca, che sarebbe Orcinus orca (senza H e con la I al posto dell’Y).
Alla Mondadori si cominciò a lavorare per portare Horcynus Orca in libreria il prima possibile e organizzare un lancio pubblicitario eccezionale, con pochi precedenti: forse solo quello che c’era stato proprio quell’anno per La Storia di Elsa Morante. Il saggio Libri e scrittori di via Biancamano, curato da Roberto Cicala e Velania La Mendola per Educatt – Università Cattolica, racconta che ogni libraio coinvolto ricevette una copia in anteprima del romanzo, con dedica dell’autore e una lettera autografa dell’editore. Il 18 febbraio 1975, una settimana prima dell’uscita, fu pubblicata sui principali quotidiani una pubblicità che abbinava la copertina del romanzo alla frase «questo annuncio appare contemporaneamente su Le Monde, The New York Times, The Times, Frankfurter Allgemeine Zeitung e Informaciones», cioè sui giornali europei e statunitensi più importanti dell’epoca, con l’idea di comunicare ai lettori italiani di trovarsi davanti a un libro rilevante a livello mondiale (almeno sul New York Times del 18 febbraio 1975, che si può consultare dall’archivio digitale del quotidiano, in realtà non c’è traccia dell’annuncio).
Nelle settimane successive la campagna pubblicitaria proseguì con altri annunci che riportavano citazioni del libro, numero di copie vendute, e slogan che presentavano Horcynus Orca come «opera fondamentale: un libro che lascerà il segno nella letteratura moderna».
Il libro fu stampato con una prima tiratura di cinquantamila copie, che erano parecchie per un romanzo d’esordio (all’epoca come oggi), quanto per un libro così letterario. Ma fu una scommessa vincente: la prima tiratura venne esaurita in due mesi e furono ristampate altre trentamila copie.
Probabilmente le pubblicità enfatiche e l’interesse dei giornalisti contribuirono a rendere il libro un successo dal punto di vista delle vendite: era una di quelle situazioni in cui tra gli appassionati di letteratura ci si sentiva in dovere di avere un’opinione su un libro. La reazione della critica non fu uniforme: tra quelli che apprezzarono il romanzo ci furono importanti scrittori e intellettuali dell’epoca come Giuseppe Pontiggia, Vincenzo Consolo, Geno Pampaloni, Primo Levi e Maria Corti, mentre fra i detrattori, più o meno convinti, ci furono altri critici autorevoli fra cui Enzo Siciliano e Pietro Citati.
Secondo questi ultimi, Horcynus Orca era di volta in volta troppo legato a un linguaggio regionale, fuori tempo massimo perché il neorealismo era ormai passato di moda, oppure al contrario troppo sperimentale ed elitario, lontano dal gusto corrente. Giuseppe Prezzolini lo definì addirittura un romanzo «antinazionale».
D’Arrigo rispose in più occasioni alle critiche, soprattutto all’accusa di «sperimentalismo». In un’intervista disse: «Sperimentatore certissimamente non sono. Se non considerassi le etichette per quello che rappresentano, etichette per l’appunto, mi direi innovatore semmai». In un’altra occasione, con meno pazienza, se la prese in questo modo con l’intervistatore: «Ho dato il culo per vent’anni per dare vita al mio libro, e lei viene a parlarmi di sperimentalismo».
Secondo i critici che analizzarono l’opera successivamente, D’Arrigo rifiutava l’etichetta di sperimentatore per negare di aver manipolato il linguaggio in modo fine a se stesso e con un esito incerto, un po’ come un esperimento scientifico. La sua era piuttosto una ricerca linguistica senza una tesi di partenza, che non aveva lo scopo di ottenere un risultato specifico, ma che trovava il suo senso nel tentativo di staccarsi da un particolare tempo e un particolare luogo per aspirare a diventare una lingua unica, propria del mondo di Horcynus Orca.
Casi editoriali come quello di Horcynus Orca di solito sono guardati con interesse dagli editori internazionali, che acquisiscono i diritti per la pubblicazione di un libro con la speranza di replicarne il successo commerciale nel proprio paese. Ma nel caso di D’Arrigo questo non accadde, nonostante gli sforzi di Mondadori. Gli editori stranieri furono spaventati dall’ambigua ricezione critica e soprattutto dalla mole del romanzo, nonché dalla difficoltà di tradurne lo stile complesso e pieno di invenzioni linguistiche dell’autore che avrebbe probabilmente fatto aumentare i costi.
Per quanto riguarda lo scrittore, cominciò un periodo di silenzio che durò dieci anni, fino a quando nel 1985 uscì un nuovo romanzo, sempre per Mondadori. Si intitolava Cima delle nobildonne ed era qualcosa di completamente diverso da Horcynus Orca. Anzitutto era scritto in una lingua più semplice, asettica, quasi scientifica, molto lontana dallo stile barocco e inventivo dell’opera precedente. Ed era diverso il tema: con Cima delle nobildonne D’Arrigo abbandonò il mito e il romanzo storico per raccontare una trama quasi fantascientifica. Nel libro tutto ruota attorno a un intervento di chirurgia per impiantare una vagina in un ermafrodito, l’ambientazione spazia dall’antico Egitto alla moderna città di Stoccolma, fra esperimenti sulla placenta e ricerca di una qualche forma di reincarnazione.
Anche in questo caso il romanzo spiazzò la critica e i lettori, ma non ebbe una risonanza paragonabile a quella di Horcynus Orca. Qualche anno dopo, nel 1992, D’Arrigo morì, e le sue opere col tempo finirono fuori catalogo.
Il ripescaggio dei suoi libri iniziò agli inizi degli anni Duemila, quando grazie a un’iniziativa di Pedullà, Rizzoli li ripropose nella sua collana di tascabili, la BUR. Nel gruppo di ricerca di Pedullà all’Università La Sapienza di Roma lavoravano anche Siriana Sgavicchia e Andrea Cedola: con la loro curatela nel 2000 venne pubblicato per la prima volta I fatti della fera, la prima stesura di Horcynus Orca, un testo così diverso dalla versione finale (lunga più del doppio) da meritare un’edizione a sé. Nel 2003 ci fu la ristampa di Horcynus Orca e nel 2006 quella di Cima delle nobildonne.
È stato nel corso di questa operazione di riscoperta che emerse anche il dattiloscritto di Il compratore di anime morte. Pedullà ricordava di aver letto un racconto lungo negli anni Sessanta, forse uno scritto per il cinema: dopo qualche ricerca il testo fu ritrovato, era tra le carte di D’Arrigo che nel 2007 erano state donate da Bruto al fondo del Gabinetto Vieusseux, una antica istituzione culturale di Firenze che conserva vari manoscritti di opere letterarie italiane, assieme al resto delle carte del marito.
In quegli stessi anni all’estero accadde qualcosa. Nel 2006 l’editore svizzero Egon Ammann accettò di pubblicare con la sua piccola casa editrice, la Ammann Verlag di Zurigo, la traduzione in tedesco di Horcynus Orca a cui Moshe Kahn, traduttore di autori italiani come Fenoglio, Pasolini, Andrea Camilleri e Roberto Calasso, stava lavorando per iniziativa personale fin dal 1982. Dopo quasi dieci versioni e un cambio di editore – per ragioni di salute Amman chiuse la sua azienda nel 2010; è morto nel 2017 – Horcynus Orca fu infine pubblicato per la prima volta all’estero dalla S. Fischer Verlag di Berlino, uno degli editori più prestigiosi di lingua tedesca, nel 2015.
Il romanzo venne messo in vendita con un prezzo di copertina eccezionalmente alto, 98 euro nella versione cartacea e 58 euro in quella in ebook, ma nonostante questo ebbe un buon successo: ha venduto più di diecimila copie, ha avuto decine di recensioni sulla stampa e Kahn ha ricevuto premi importanti per il suo lavoro di traduzione.
Intanto altri in giro per l’Europa stavano lavorando autonomamente alla traduzione di Horcynus Orca. In Francia Monique Baccelli e Antonio Werli hanno impiegato dieci anni a tradurlo e il risultato è stato pubblicato lo scorso autunno dall’editore Le Nouvel Attila, fra i libri della rentrée, come viene chiamato nell’editoria francese il periodo di uscita delle novità letterarie di settembre, il più importante dell’anno. Anche in questo caso il romanzo ha ottenuto ottime critiche.
Attualmente sono almeno tre le traduzioni in corso d’opera: quella in lingua inglese di Stephen Sartarelli, iniziata negli anni Ottanta e ormai in fase avanzata ma ancora in cerca di un editore; quella in lingua spagnola di Miguel Angel Cuevas; e la più recente, quella in catalano di Victor Vila, che ha preso accordi con l’editore Forclòs di Barcellona. «Ho finito la traduzione della prima parte a dicembre» racconta Vila: «Ha ancora bisogno di revisioni, ma penso sia importante dire che è stato un lavoro quotidiano, soprattutto negli ultimi sei mesi. Ci lavoravo tutte le sere, mi sono immerso dentro il libro fino a un punto che forse non era sano. Avevo sempre la traduzione in mente, tutto il giorno. Ma credo che non ci sia altro modo, almeno non per me. È per questo che dopo aver tradotto la prima parte ho dovuto fermarmi per un mese. Se tutto va bene l’obiettivo è finire nel 2025».
La crescita dell’interesse internazionale per Stefano D’Arrigo è testimoniata anche dall’iniziativa di un piccolo gruppo di lettura nato attorno al blog letterario The Untranslated, animato da uno studioso di letteratura di lingua russa residente nell’Europa dell’Est. Di sé dice che si chiama Andrei, lavora come docente di inglese, è un appassionato di lettura internazionale, ed è in grado di leggere in russo, inglese, francese, tedesco, lettone, spagnolo, italiano, catalano e portoghese.
«Circa vent’anni fa ho visto Horcynus Orca menzionato accanto a L’arcobaleno della gravità», racconta Andrei, «e mi ha immediatamente intrigato essendo un fervente fan di Pynchon. Ho comprato una copia usata online perché all’epoca era fuori catalogo. Tuttavia, quando ho provato a leggerlo, ho capito che conoscere solo l’italiano non era sufficiente per capire davvero questo enorme libro, quindi l’ho messo da parte per tempi migliori. Nel 2019, quando scrivevo sul mio blog ormai da sei anni, ho pensato che una recensione di Horcynus Orca sarebbe stata una vera gemma, così ho preso il toro per le corna e ho ricominciato a leggerlo. Successivamente ho organizzato un club del libro su Discord dedicato a libri in lingua originale e mai tradotti. Nel 2022 abbiamo letto Horcynus Orca: hanno partecipato circa 20 persone da paesi diversi».
Due anni fa Andrei aveva scritto su Twitter: «Leggere Horcynus Orca è come imparare da zero una nuova lingua allo scopo di leggere un solo libro, ma ne vale decisamente la pena». Oggi aggiunge: «Posso dire che una volta superata la barriera linguistica, uno realizza che questo romanzo non appartiene più solo all’Italia: il suo posto è tra i grandi classici della letteratura mondiale come l’Odissea, Gargantua e Pantagruele, Faust, Don Chisciotte, Moby Dick e l’Ulisse»
Intanto in Italia il lavoro editoriale di riproposta di D’Arrigo è continuato con la pubblicazione di Il compratore di anime morte, sempre pubblicato da Rizzoli con la curatela di Sgavicchia, che è una delle più esperte studiose dell’opera di D’Arrigo.
Secondo le sue ricerche, questo testo non nasceva come romanzo – sebbene sia stato presentato come tale – ma era stato pensato dall’autore come una libera riduzione e adattamento di Le anime morte di Nikolaj Gogol, uno degli autori più importanti della letteratura russa; probabilmente era pensato per il teatro o forse per il cinema. La struttura del manoscritto infatti non riporta dei capitoli, ma stacchi di pagina come a significare un cambio di scena, e anche la lingua si presenta molto semplice e descrittiva, adatta a una messa in scena.
Il compratore di anime morte racconta un viaggio ambientato nell’Ottocento, fra Napoli e la Sicilia, e mescola i toni della commedia e del romanzo picaresco, con un tono parodistico nella rappresentazione degli ambienti aristocratici siciliani, e attenzione alla realtà sociale del meridione. Il protagonista è Cirillo Docore, uno scrivano del Regno delle Due Sicilie cresciuto orfano, che anche dopo aver compiuto trent’anni spera ancora di essere adottato. La sua vita cambia quando si sparge la voce che in sogno indovina i numeri del lotto e così un principe che ha perso i propri averi giocando d’azzardo decide di adottarlo.
Il romanzo fa pensare ad altre opere dedicate al Risorgimento meridionale che approfondiscono il contesto delle lotte per la liberazione dalla dominazione borbonica, come certi racconti di Giovanni Verga e Luigi Pirandello, o i romanzi I Viceré di Federico De Roberto, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo. Dalle ricerche di Sgavicchia emerge che la prima stesura risale probabilmente ai primi tempi del trasferimento di D’Arrigo a Roma, un periodo in cui lo scrittore cercava di far fronte alle proprie esigenze economiche in vari modi. Uno di questi, finora poco noto, potrebbe essere stato scrivere soggetti per il cinema. Inizialmente avrebbe voluto proporre Il compratore di anime morte al regista Luchino Visconti, poi a Sergio Amidei, e infine ad Andrea Camilleri, all’epoca non ancora famoso scrittore ma già importante regista per la televisione. L’operazione tuttavia non ebbe esito, e il testo rimase chiuso in un cassetto. Fino a oggi.
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