Come ha fatto il Portogallo
Pur avendo attraversato una crisi economica peggiore di quella italiana, il debito pubblico è sceso di 35 punti percentuali in 4 anni e il PIL cresce
Nel maggio del 2011, nel mezzo di una crisi finanziaria, il Portogallo fece un accordo con la Commissione Europea e accettò un programma di salvataggio: l’accordo prevedeva che il paese ricevesse 78 miliardi di euro da Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale (FMI) suddivisi in un massimo di 14 rate, impegnandosi in cambio ad approvare una serie di riforme piuttosto incisive che avrebbero risanato le finanze pubbliche del paese ma anche avuto un profondo impatto sociale, riducendo molto le tutele dei lavoratori e introducendo nuove tasse. Non a caso vennero accolte con proteste piuttosto turbolente.
In quel momento il deficit portoghese, cioè il disavanzo annuale tra entrate e uscite nel bilancio statale, era di oltre il 9 per cento del PIL (prodotto interno lordo), più di sei punti al di sopra del limite previsto dalle regole europee. Quello italiano, nel 2011, era del 3,9 per cento. Il debito pubblico portoghese, cioè il disavanzo accumulato negli anni, era intorno al 120 per cento del PIL, in linea con quello italiano e circa il doppio della soglia considerata sostenibile dalle istituzioni europee.
Dodici anni più tardi il Portogallo ha raggiunto un obiettivo storico: la riduzione del debito pubblico al di sotto del 100 per cento del PIL, con un calo di 35 punti in 4 anni. Il risultato è stato celebrato di recente dal Commissario europeo agli Affari economici Paolo Gentiloni. Nel 2023 per la prima volta da quasi cinquant’anni il Portogallo ha conseguito un surplus di più di mezzo punto percentuale, cioè ha chiuso il bilancio in attivo, e con una crescita di oltre 2 punti di PIL. La Commissione Europea prevede per il paese una crescita di 1,3 e 1,8 punti di PIL per il 2024 e il 2025. L’Italia ha chiuso l’anno con un bilancio in passivo di 5,3 punti percentuali e un debito del 140 per cento, con una crescita prevista tra lo 0,9 e l’1,2 per cento tra 2024 e 2025, al di sotto della media europea.
Quella che oggi appare come una storia di successo, spesso indicata dai sostenitori delle politiche di austerità come esempio virtuoso, ha avuto tuttavia i suoi alti e bassi. Il primo ministro che negoziò l’accordo con l’Unione Europea, Pedro Passos Coelho, era un conservatore, leader del Partido Social Democratico (PSD), e accettò delle condizioni che, seppure meno drastiche di quelle subite dalla Grecia in quello stesso periodo nell’ambito di un analogo programma di assistenza finanziaria, erano comunque impegnative.
Un dato particolarmente significativo, tra gli altri, è il deficit: previsto al 5,9 per cento all’inizio del 2011, finì invece per crescere in maniera incontrollata ben oltre le aspettative del governo, fino a superare il 9,1 per cento nelle previsioni fatte a metà aprile. Era insomma aumentato di oltre la metà nel giro di quattro mesi. Il governo di centrodestra di Passos Coelho concordò di ridurlo a un terzo nel giro di tre anni, portandolo al 3 per cento nel 2013.
Per farlo, Passos Coelho avviò nel giro di qualche mese riforme piuttosto dolorose per la popolazione portoghese. L’aumento dell’IVA (l’imposta sul valore aggiunto che incide sui consumi) e della pressione fiscale sui redditi; il blocco degli stipendi nel settore pubblico, colpito peraltro da licenziamenti massicci di quasi 30mila persone e dall’aumento da 35 a 40 ore di lavoro settimanali. Vennero poi eliminati tre giorni di ferie all’anno e introdotti dei contributi di solidarietà, cioè trattenute sulle pensioni al di sopra dei 1.350 euro. Passos Coelho adottò anche una serie di misure per introdurre maggiore flessibilità nel mercato del lavoro: facilitando le procedure per i licenziamenti ed estendendo forme di contratti precari. Nell’autunno del 2013 la disoccupazione, anche in conseguenza di queste misure oltre che della crisi finanziaria in tutt’Europa, salì al massimo storico del 16,4 per cento, 3,5 punti in più rispetto a quando erano stati firmati gli accordi con l’Europa nel 2011.
L’economista Carlo Cottarelli tra il 2008 e il 2013 fu direttore del dipartimento Affari fiscali dell’FMI, e ha dedicato al caso portoghese varie analisi. «Non c’è dubbio che uno dei meriti avuti dal Portogallo nell’adottare queste politiche di aggiustamento sia stata la capacità di attendere che le riforme producessero i loro benefici», dice. «Anche a seguito di una prima fase in cui inevitabilmente hanno contratto l’economia».
Dal 2014, in effetti, l’economia del paese iniziò a seguire un andamento diverso. Nel giugno di quell’anno, e con un certo anticipo rispetto alle previsioni, il Portogallo uscì dal programma di sorveglianza con l’Unione Europea, che riconobbe i progressi fatti nelle riforme strutturali. Il PIL tornò a crescere per la prima volta dal 2010, con una crescita dello 0,8 per cento che poi continuò e si fece anche più accentuata. La disoccupazione iniziò a scendere, risultando già nel 2015 al 12,4 per cento, più bassa del momento della firma degli accordi, e calando progressivamente fino al 5,8 del 2022, la più bassa degli ultimi vent’anni. Contestualmente, anche il dissenso sociale era andato scemando.
«Se volessimo trovare delle specificità nel modo in cui il Portogallo ha adottato queste politiche di austerità», dice Cottarelli, «una riguarda probabilmente la semplificazione burocratica, su cui i governi portoghesi hanno puntato molto, e che ha consentito di attrarre in tempi piuttosto rapidi grosse quantità di investimenti stranieri. L’altra ha a che vedere con la spending review [Cottarelli fu nominato proprio commissario per la revisione della spesa dal governo italiano di Enrico Letta nel 2013, ndr] che in Portogallo hanno fatto intelligentemente in maniera settoriale anno per anno: un anno la sanità, un anno la giustizia, e così via». Anche questo, secondo Cottarelli, ha contribuito a rendere accettabile l’austerità per i portoghesi: «Hanno percepito che i tagli andavano a ridurre effettivamente degli sprechi, e le riforme innescavano processi virtuosi».
È per questo, insomma, che in Portogallo non ci sono state tensioni sociali clamorose. Il che è significativo, se si pensa al fatto che nel frattempo negli altri paesi europei interessati dalle politiche di rigore il malcontento si traduceva in proteste violente e alimentava la crescita di partiti populisti ed euroscettici: il Movimento 5 Stelle in Italia, Podemos in Spagna, Syriza in Grecia. In Portogallo invece no. «È un’anomalia che però ha delle spiegazioni», dice Elisabetta De Giorgi, professoressa di Scienza politica all’Università di Trieste che da molti anni studia il Portogallo. «Anzitutto, c’è una questione sociologica: il popolo portoghese tende storicamente a esprimere una protesta piuttosto accidiosa e rassegnata, anziché rabbiosa. Un dissenso silenzioso, insomma, che si riscontra per esempio nell’aumento notevole dell’astensione». In effetti l’affluenza, che nel 2005 era stata del 64 per cento, nel 2019 arrivò al minimo storico del 48 per cento.
«Inoltre, il quadro politico portoghese presentava già importanti partiti anti-establishment, cioè quelli della sinistra radicale, che non erano mai andati al governo, e che avevano canalizzato gran parte del malcontento contro le politiche del conservatore Passos Coelho», continua De Giorgi. «Per cui quello che successe nel novembre del 2015 fu in qualche modo già un fatto di per sé clamoroso».
Nel novembre del 2015, infatti, al governo ci andò il Partito socialista di Antonio Costa, e ci andò proprio con quei partiti di sinistra radicale: Blocco di sinistra (BE) e Partito comunista portoghese (PCP). Qui c’è un terzo aspetto che aiuta a spiegare il caso portoghese: ricapitolando, il primo era il taglio alle spese settoriale e il secondo la mancanza di un malcontento popolare aggressivo e populista.
Il terzo aspetto ha a che vedere con l’abilità e la spregiudicatezza di Antonio Costa, un politico di grande esperienza e capacità negoziale, già tre volte ministro tra il 1997 e il 2007. Da leader della sinistra aveva guidato l’opposizione alle politiche di austerità di Passos Coelho, però adottandole nel frattempo su scala locale mentre era sindaco di Lisbona (2007-2015), contribuendo a risanare le finanze del suo comune. «La sua bravura è stata convincere i partiti radicali di sinistra ad accettare un accordo di governo che prevedeva di revocare alcune delle misure più severe adottate da Passos Coelho, senza tuttavia mettere in alcun modo in discussione il rispetto dei vincoli e dei trattati europei», spiega De Giorgi. Fu un accordo politico così ardito, inizialmente, che in Portogallo venne definito geringonça, cioè letteralmente un aggeggio, un qualcosa di raffazzonato e precario.
In questo Costa fu indirettamente aiutato anche dal presidente della Repubblica, Aníbal Cavaco Silva, inizialmente scettico nell’affidargli l’incarico di governo. Dopo aver infatti tentato di favorire un governo di centrodestra o di larga coalizione, Cavaco Silva promosse il governo di sinistra di Costa ponendo come condizione il rispetto degli accordi sulla riduzione del debito fatti con l’Unione Europea. «In realtà, di fatto Costa si servì di questi vincoli per tenere a bada le rimostranze del BE e del PCP, disinnescando le loro proposte più radicali», dice De Giorgi. Riuscì così anche a rassicurare i mercati finanziari, inizialmente critici verso questa opzione di governo.
In questo contesto, e beneficiando della ripresa economica che nel frattempo si consolidava, Costa poté reintrodurre alcune delle tutele sociali abolite negli anni precedenti (aumentò il salario minimo e i giorni di ferie, ridusse l’orario di lavoro settimanale e l’età pensionabile), senza però deviare dal rigore finanziario virtuoso avviato dal Portogallo di Passos Coelho. Tuttavia Costa mantenne in una qualche misura anche una forma di austerità, ad esempio riducendo gli investimenti pubblici nelle infrastrutture o definanziando la sanità. De Giorgi, con altri studiosi, ha definito in una sua ricerca «austerità nascosta» questa particolare politica di Costa.
Quando poi le insofferenze di BE e PCP diventarono troppe, Costa decise di fare a meno dell’alleanza diretta coi partiti radicali senza mai perdere il potere. Dopo le elezioni del 2019 costituì un nuovo governo di minoranza negoziando il sostegno di BE e PCP sui vari singoli provvedimenti; poi, dopo un’ulteriore crisi col Blocco di Sinistra e i Comunisti, nel 2022 vinse nuovamente le elezioni creando un monocolore socialista, dunque un governo più stabile fatto di soli esponenti del suo partito. Il tutto sempre rimanendo primo ministro, per oltre otto anni fino al novembre 2023, quando si è dimesso in seguito a un’inchiesta giudiziaria per corruzione che ha coinvolto il suo governo, in attesa delle nuove elezioni previste in marzo.
Nonostante la crisi politica, il 17 novembre scorso l’agenzia di rating Moody’s ha espresso un giudizio particolarmente positivo sul Portogallo, promuovendo di ben due livelli il rating del paese, cioè il grado di affidabilità del suo debito pubblico, portandolo da Baa2 ad A3, riconoscendo la validità delle riforme economiche adottate e l’impegno nella riduzione del debito pubblico e nel rafforzamento del settore bancario. Lo stesso giorno, Moody’s ha confermato il rating dell’Italia a Baa3, cioè tre livelli più in basso.
In questi anni, rispetto alle molte riforme adottate dal Portogallo per stimolare la crescita e ridurre il debito, in Italia si è parlato soprattutto delle consistenti agevolazioni fiscali che quel paese ha concesso ai pensionati stranieri, per convincerli a trasferirsi lì. Il leader della Lega Matteo Salvini ha più volte vagheggiato di adottare quella stessa misura nelle regioni del Sud Italia. Il Portogallo dall’inizio di quest’anno ha abolito le agevolazioni fiscali per i pensionati stranieri.