Un modo semplice per evitare che chi esce dal carcere torni a commettere reati
È dargli la possibilità di lavorare: tra i detenuti che lo hanno fatto la recidiva è del 2 per cento, mentre per tutti gli altri è quasi del 70
Uno dei fattori che contribuiscono maggiormente all’annoso problema del sovraffollamento delle carceri italiane è la recidiva: la gran parte dei detenuti torna a commettere reati dopo aver scontato la propria pena ed essere uscita dal carcere, e quindi poi quasi sempre ci torna. Secondo i dati più recenti (aggiornati alla fine del 2022) diffusi dal Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL, un organo consultivo del governo) succede nel 68,7 per cento dei casi. Significa che più di 2 ex detenuti su 3, una volta in libertà, commettono di nuovo reati.
È un problema che però in questo caso ha soluzioni conosciute, che hanno tutte a che fare con l’adozione di misure tendenti a evitare l’isolamento dei detenuti: dall’istruzione e formazione ad altre attività che prevedano una socializzazione e una qualche assunzione di responsabilità. È dimostrato in particolare che la percentuale di recidiva diminuisce drasticamente se le persone che escono dal carcere hanno avuto la possibilità di lavorare durante la detenzione: tra loro, solo il 2 per cento torna a commettere reati.
Il campione statistico peraltro è decisamente rilevante: alla fine del 2022 i detenuti che lavoravano con un contratto collettivo nazionale erano più di 18.600, circa un terzo di tutta la popolazione carceraria. Quasi 2.500 lavoravano in aziende o cooperative fuori dal carcere, mentre tutti gli altri erano dipendenti dell’amministrazione penitenziaria all’interno del carcere. In quell’anno i datori di lavoro che avevano chiesto gli sgravi fiscali per assumere i detenuti invece erano stati 456.
Diversi esperti dei diritti dei detenuti sostengono che a livello di sistema si potrebbe fare di più per incentivare il lavoro di chi sconta una pena in carcere, e lamentano che molte iniziative vengano da associazioni di volontariato, o che comunque dipendano eccessivamente dal volontarismo e dall’iniziativa delle singole carceri. Dagli anni Novanta a oggi la percentuale di detenuti che lavorano sul totale è rimasta sempre stabile (1 su 3) e anzi è un po’ diminuita, mentre la popolazione carceraria in assoluto è decisamente aumentata.
Questo nonostante sia in vigore dal 2000 la legge Smuraglia (dal nome dell’ex senatore Carlo Smuraglia, che fece parte di vari partiti di sinistra) per favorire il lavoro dei detenuti, che tuttora prevede grossi sgravi contributivi e fiscali per le aziende o cooperative che li assumono. In un recente articolo sulla Stampa, l’ex ministra della Giustizia Paola Severino (in carica dal 2011 al 2013 nel governo di Mario Monti) ha scritto che incentivi economici simili dovrebbero essere estesi anche alle aziende che assumono le persone uscite dal carcere.
Severino si occupa da anni di questo specifico problema, anche con iniziative concrete: a ottobre del 2022 la sua fondazione firmò un protocollo con il Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, per avviare una serie di progetti con l’obiettivo di affiancare i detenuti nel reinserimento sociale, dopo la detenzione. Nel Lazio sono partite le prime sperimentazioni, con le carceri di Rebibbia e Civitavecchia che hanno attivato sportelli di “counseling” che aiutino i detenuti a inserirsi in percorsi di formazione e lavoro già prima che escano dal carcere.
Del problema è consapevole anche il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che alla fine dell’anno scorso ha firmato un accordo con il CNEL in cui si impegnava a rendere più semplice la burocrazia per le aziende che vogliono assumere e formare i detenuti, così come l’accesso agli incentivi (il CNEL da parte sua dovrebbe invece fare da tramite tra detenuti, aziende e sindacati per aumentare la consapevolezza sui progetti attivi e crearne di nuovi). È ancora presto però per capire se questo progetto darà qualche risultato.
L’alta recidività di chi esce dal carcere è infatti un problema per tutti: lo è per la sicurezza delle persone fuori dal carcere, per lo Stato e per i detenuti stessi. Contribuisce significativamente a mantenere stabile il numero delle persone detenute, che è gravemente superiore ai posti disponibili, con ricadute sulle loro vite: insieme alla popolazione carceraria negli ultimi anni sono aumentati i suicidi, che dall’inizio di quest’anno hanno raggiunto numeri mai visti prima. Al 31 dicembre del 2023 erano detenute in Italia 60.166 persone, a fronte di una capienza massima degli istituti penitenziari di 51.179 posti (in alcune carceri poi la capienza effettiva è minore di quella ufficiale, per via di danni temporanei e in generale delle molte carenze delle strutture).
Evitare che le persone tornino in carcere dovrebbe essere una priorità anche dello Stato, non solo per ragioni sociali ma anche economiche: si stima che per ogni detenuto lo Stato spenda 137 euro al giorno (anche se solo 11 direttamente a beneficio della persona in carcere), comprendendo tutti i costi necessari alla sua detenzione. In un anno fanno circa 50mila euro a persona.