L’Irlanda è più vicina alla riunificazione?
Se ne riparla per la storica nomina di una donna nazionalista e repubblicana, Michelle O’Neill, a prima ministra: ma rispondere non è così semplice
Da tre giorni l’Irlanda del Nord ha una prima ministra favorevole alla riunificazione del suo territorio, che oggi fa parte del Regno Unito, alla repubblica indipendente di Irlanda, che invece è uno stato autonomo nonché membro dell’Unione Europea. Finora tutti i capi di governo dell’Irlanda del Nord erano stati favorevoli alla permanenza dentro al Regno Unito: la nuova prima ministra, Michelle O’Neill, è quindi la prima nazionalista (cioè favorevole alla riunificazione con l’Irlanda) a ricoprire questa carica nella storia del piccolo stato, nato nel 1921.
La nomina di O’Neill ha riavviato il dibattito su quanto sia vicina una eventuale riunificazione delle due Irlande in un unico stato, ipotesi di cui ha parlato lei stessa in una intervista data domenica a Sky News. La risposta però non è esattamente immediata.
L’Irlanda del Nord fu creata nel 1921 dopo la guerra di indipendenza che la milizia Irish Republican Army (IRA), legata ai repubblicani del partito Sinn Féin, combattè contro l’esercito britannico, che prima di allora controllava tutta l’isola. Durante il dominio britannico l’Irlanda era sempre stata governata da un’unica entità politica, e da ancora prima gli irlandesi si consideravano un unico popolo per lingua, tradizioni e cultura. Per questo si parla di una “riunificazione” e non di “unificazione”.
La guerra di indipendenza però sconvolse profondamente il quadro politico e sociale, e alla fine dei combattimenti sull’isola furono creati due stati: l’Irlanda, abitata soprattutto da cattolici repubblicani e, nel pezzo più settentrionale dell’isola, l’Irlanda del Nord, dove già da diversi anni si erano trasferiti gli irlandesi favorevoli a rimanere all’interno del Regno Unito, tendenzialmente protestanti.
Nei decenni successivi continuarono scontri e disordini fra i sostenitori più estremi delle due cause, quella repubblicana e promotrice di una riunificazione e quella protestante “unionista”, cioè favorevole alla permanenza dentro al Regno Unito dell’Irlanda del Nord. Una pace più o meno duratura si raggiunse nel 1998 con gli accordi del Venerdì Santo. Gli accordi stabilirono che l’Irlanda del Nord rimanesse nel Regno Unito a meno che fra i suoi abitanti emergesse una «maggioranza» per separarsi dallo stato centrale (ed eventualmente riunirsi con l’Irlanda).
Questa situazione ha lasciato di fatto Irlanda del Nord e Irlanda in un limbo politico e amministrativo che secondo alcuni ha fatto in modo che le violenze fra i due gruppi, i cosiddetti Troubles, non siano mai davvero finite. Al contempo diversi storici e commentatori hanno ritenuto l’inserimento della clausola un riconoscimento del fatto che la riunificazione dell’Irlanda sia in qualche modo inevitabile. La nomina di O’Neill sembra rafforzare questa tesi. Domenica la leader del Sinn Féin, Mary Lou McDonald, ha detto di ritenere la riunificazione dell’Irlanda «a portata di mano».
– Leggi anche: In Irlanda del Nord i “Troubles” non sono mai finiti del tutto
Negli anni il consenso per una eventuale riunificazione dell’Irlanda del Nord è progressivamente cresciuto, di pari passo con la nascita e la crescita di persone che non hanno vissuto le violenze ad alta intensità fra cattolici e protestanti. Un sondaggio realizzato alla fine del 2023 dal Times di Londra ha mostrato che il 57 per cento dei nordirlandesi di età compresa fra 18 e 24 anni voterebbe per la riunificazione dell’Irlanda a un ipotetico referendum.
Al contempo sempre più britannici hanno cominciato a considerare l’Irlanda del Nord come una regione problematica, bisognosa di investimenti e risorse – essendo la più povera del Regno Unito – e in definitiva più un problema che altro. In un’intervista data domenica a Sky News la nuova prima ministra O’Neill ha risposto a una domanda su un ipotetico referendum dicendo che è iniziata «una decade di opportunità»: «Ci sono così tante cose che stanno cambiando le vecchie tradizioni, lo status quo, il fatto che una nazionalista repubblicana non era mai diventata prima ministra. Tutto spinge in quella direzione».
Eppure ci sono diversi elementi che fanno pensare che la riunificazione sia ancora un’ipotesi piuttosto remota. La stessa O’Neill non ne ha parlato in maniera esplicita nel suo discorso di insediamento al parlamento nordirlandese, in cui fra l’altro per definire l’Irlanda del Nord ha usato sia la formula più cara a chi promuove la riunificazione, “il nord dell’Irlanda”, sia quella più istituzionale nonché preferita dagli “unionisti”, Irlanda del Nord.
Il corrispondente del Guardian per gli affari irlandesi Rory Carroll fa notare che ancora oggi in Irlanda del Nord gli abitanti «si dividono a grandi linee in tre categorie: il 40 per cento di loro vuole la riunificazione, un altro 40 per cento è “unionista”, un altro 20 per cento non ha opinioni forti ma preferirebbe rimanere dentro al Regno Unito».
La quota delle persone favorevoli alla riunificazione sta progressivamente aumentando, ma non nei termini che ci si aspettava dopo una serie di vicende. Soltanto negli ultimi anni, per esempio, i cattolici hanno superato per la prima volta i protestanti; c’è stata Brexit, a cui la maggior parte dei nordirlandesi si era opposta; nel frattempo l’Irlanda del Nord è rimasta un paese povero e periferico, mentre l’Irlanda è diventata un paese benestante, con una economia fra le più dinamiche in Europa.
La tesi di Carroll è che il Sinn Féin e quindi la causa nazionalista-repubblicana abbiano guadagnato voti soprattutto da chi era già moderatamente a favore di una riunificazione: su tutti il Partito Social Democratico e Laburista, di centrosinistra, che alle elezioni parlamentari del 2022 ha ottenuto per la prima volta nella sua storia meno del 10 per cento dei voti ed è in crisi da tempo. In tutti i sondaggi più affidabili su un eventuale referendum l’opzione di rimanere nel Regno Unito resta la più popolare.
L’analista politico Gerry Lynch ha osservato sul sito di news UnHerd che in Irlanda del Nord come altrove «è difficile convincere gli elettori di una democrazia stabile e funzionante a scegliere un trasferimento radicale di sovranità»:
In un eventuale referendum sullo status dell’Irlanda del Nord il risultato sarà deciso da persone non allineate con nessuna delle due fazioni, oppure che hanno un debole legame con entrambe: uno strano miscuglio di progressisti liberali a cui non piace il nazionalismo, cattolici conservatori, famiglie miste e persone che appartengono a una minoranza etnica (questi ultimi due gruppi stanno aumentando di numero).
La carta migliore dell’unionismo, a lungo termine, rimane il fatto che la permanenza nel Regno Unito permetterà all’Irlanda del Nord di vivacchiare rimanendo una regione un po’ speciale, con qualche crisi politica e una qualità della vita tutto sommato decente. In un contesto del genere alcuni elettori preferiranno sempre un male minore che conoscono, piuttosto che un rischio che metta a repentaglio il loro benessere. Anche tanti di loro che non provano alcuna connessione emotiva col Regno Unito.
La nomina di O’Neill è stata resa possibile dall’appoggio del partito unionista di destra DUP, che dopo due anni di stallo ha accettato infine di sostenere un governo insieme al Sinn Féin, che invece è di sinistra e nazionalista-repubblicano.
È una scelta rischiosa per entrambi i partiti: nel caso questo strano governo risultasse stabile ed efficiente, il DUP potrebbe rivendicare che una condizione del genere è possibile solo grazie alla permanenza nel Regno Unito. Il Sinn Féin invece potrebbe accreditarsi come partito di governo maturo e responsabile, e avanzare così la sua causa per la riunificazione (molti elettori protestanti lo considerano tuttora come il braccio politico dell’IRA, da cui però si è allontanato da tempo).
A prescindere da come andrà a finire, alcuni commentatori ritengono che il potere simbolico della nomina di O’Neill produrrà conseguenze nel medio-lungo termine, più che dopodomani. «È come se il dibattito politico nordirlandese oggi si disputasse su un nuovo campo da gioco», ha scritto sull’Irish Times la giornalista Freya McClements: «Se negli ultimi dieci anni la conversazione è stata incentrata su Brexit, nei prossimi dieci anni discuteremo di cambiamenti costituzionali», cioè della possibilità di indire un referendum sull’indipendenza.