Vivono per strada più donne di quelle che pensiamo
Sono spesso sottostimate perché tendono a nascondersi, per stigma sociale o per sfuggire alle violenze, e i servizi di accoglienza sono generalmente pensati per gli uomini
La Federazione italiana organismi per le persone senza dimora (FIO.PSD), associazione nazionale di riferimento per l’emarginazione sociale, ha pubblicato il suo rapporto annuale sulle persone senza casa morte nel 2023: 415 in tutto, il 93 per cento uomini. È un dato che rispecchia piuttosto fedelmente il fatto che le persone senza casa in Italia sono in prevalenza uomini. Delle donne senza casa invece si sa e si parla poco, ma secondo chi lavora nel settore sono generalmente sottostimate dalle statistiche, oltre che in aumento. Hanno esigenze, difficoltà e bisogni specifici di cui in Italia si occupano quasi esclusivamente cooperative e associazioni del terzo settore, in mancanza di strumenti uniformi e coordinati su tutto il territorio.
Secondo i dati dell’ISTAT, l’istituto italiano di statistica, le donne senza casa sono soprattutto di mezza età, tra i 40 e i 50 anni, molte delle quali sole e straniere. «C’è in realtà un aumento di donne giovani, e di giovani in generale, oltre che di nuclei familiari, generalmente proprio donne con bambini», dice Lucia Fiorillo, che a FIO.PSD si occupa di analisi e ricerca. I dati sulle persone senza casa in generale sono molto difficili da reperire perché per raccoglierli esistono per lo più strumenti informali. Naturalmente non si possono usare atti di residenza, dati sull’occupazione o censimenti di vario genere, e bisogna arrangiarsi con quello che c’è: alcune persone che vivono per strada si registrano volontariamente nei comuni, ma si può per esempio vedere quante accedono ai servizi di mense e dormitori pensati per loro. Sono comunque informazioni limitate, che spesso non rispecchiano del tutto la reale situazione di chi non ha una casa, soprattutto nel caso delle donne.
L’ultima rilevazione dell’ISTAT, per esempio, è del 2021 e dice che in Italia ci sono quasi 100mila persone senza casa, il 32 per cento delle quali donne. La statistica comprende le “persone senza fissa dimora” e le“persone senzatetto”, che sono categorie amministrative specifiche: le prime sono quelle che hanno registrato volontariamente il proprio domicilio nel comune in cui vivono abitualmente, ma non hanno un luogo in cui rimangono sufficientemente a lungo da potervi registrare la residenza; le seconde, i “senzatetto”, sono invece le persone che non hanno alcun domicilio: spesso sono iscritte all’anagrafe attraverso un indirizzo fittizio, che non esiste ma gli viene assegnato dalle amministrazioni per garantire loro servizi essenziali come l’assistenza sanitaria (senza un indirizzo infatti non si può ottenere la tessera sanitaria).
Un’altra rilevazione dell’ISTAT del 2015 invece si basava solo sull’utilizzo di mense e centri di accoglienza notturna in 158 comuni italiani (peraltro circoscritto a due soli mesi dell’anno precedente): stimava che le donne senza casa fossero il 14 per cento del totale, ma era un dato necessariamente incompleto.
Questi numeri non tengono conto di molte situazioni di estrema marginalità sociale e disagio abitativo che non rientrano, o non rientrano ancora, in una categoria rilevabile. Per le donne senza casa questo problema è ancora più evidente: «prima di arrivare in strada e di rivolgersi ai servizi per la grave marginalità [cioè i servizi che nei singoli comuni, a vari livelli, prendono in carico le persone senza casa, ndr], generalmente le donne attraversano periodi molto più lunghi di disagio abitativo, ricorrendo prima di tutto a sistemazioni informali, come abitazioni di conoscenti, roulotte, accampamenti: solo dopo aver esaurito tutte le possibilità si rivolgono ai servizi, spesso avendo sviluppato problemi psichici, o dipendenze», dice ancora Fiorillo di FIO.PSD.
I motivi per cui le donne sfuggono più facilmente alle rilevazioni sono diversi, anche culturali. Le aspettative e i ruoli sociali “domestici” di madri, mogli e figlie tradizionalmente associati alle donne comportano un maggiore stigma e senso di fallimento per chi vive per strada, e fanno sì che le donne ci mettano molto più degli uomini a contattare i servizi per la grave marginalità, e a venire quindi rilevate dai comuni come persone senza casa. Un’altra ragione è la mancanza di risposte coordinate alla complessità delle loro condizioni. Molto spesso le donne finiscono per strada dopo prolungate esperienze di violenza domestica: si rivolgono ai centri antiviolenza, più che ai servizi per la grave marginalità, e perciò non vengono considerate fra le persone senza casa.
Questo succede anche perché – non solo in Italia – manca a livello nazionale una vera connessione tra i servizi per persone senza casa e quelli per le donne che subiscono violenza, due problemi che sono invece estremamente legati tra loro. Non ci sono statistiche precise al riguardo in Italia, ma il legame tra la violenza domestica e la possibilità che una donna vada a vivere per strada è noto e diffuso anche all’estero. Secondo statistiche citate da Redattore Sociale, rivista che si è occupata recentemente del problema in più occasioni, avrebbe subito violenza il 40 per cento delle donne senza casa in Irlanda e il 50 per cento di quelle in Portogallo e in Spagna. L’ong britannica St Mungo’s, che si occupa di persone senza casa, dice che nel Regno Unito le donne in questa condizione che arrivano da un percorso di violenza domestica sono il 54 per cento, e che il 33 per cento considera questa violenza una delle cause della propria condizione.
Una volta arrivate per strada le donne devono far fronte a ulteriori rischi di subire violenze. Sempre secondo testimonianze raccolte da St Mungo’s le donne senza casa cercano molto spesso di nascondersi, per esempio dormendo in spazi vuoti o poco affollati come garage, bagni pubblici o capannoni. Altre cercano di nascondere il proprio genere attraverso l’abbigliamento per evitare di subire molestie o altre violenze. Capita che per strada conoscano uomini senza casa con cui si instaurano rapporti di amicizia basati anche sulla reciproca protezione.
In Italia come altrove i servizi per l’accoglienza delle persone senza casa sono stati pensati soprattutto per un target maschile, senza tener conto di una serie di esigenze specificamente femminili, anche fisiche: le mestruazioni per esempio. In un rapporto dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (INAPP) del 2021 si parla invece del fatto che molte strutture di accoglienza hanno bagni comuni, a volte senza nemmeno le porte. «La fragilità delle donne senza dimora, come quella di moltissime altre categorie di persone, non è una caratteristica ontologica e immutabile: è anche un prodotto del contesto, di come è pensato l’ambiente in cui quelle donne vivono», dice Fulvia Vannoli, coordinatrice di Casa Sabotino di Binario 95, un progetto della cooperativa Europe Consulting Onlus, che ha sede a Roma ed è dedicata all’accoglienza di donne senza casa.
Casa Sabotino è una delle realtà che in Italia si occupano di donne senza casa. È un grande appartamento concesso in comodato d’uso dal Municipio 1 di Roma, che può ospitare fino a 18 persone. Al momento ne ospita 16, di età e nazionalità diverse, e le loro storie sono state raccontate di recente in un lungo reportage di Redattore Sociale intitolato “Sotto il cielo di Roma”. C’è chi aveva un’attività commerciale e per motivi di salute, mancanza di una rete sociale di riferimento, debiti e complicazioni burocratiche si è gradualmente ritrovata indebitata e sola, chi è arrivata a Casa Sabotino dopo un’esperienza di violenza domestica, chi ha problemi di dipendenza, chi ha affrontato un lungo percorso di migrazione e ora è richiedente asilo.
Il progetto Binario 95 offre diversi tipi di servizi: uno sportello di orientamento, un servizio diurno e uno notturno, la possibilità di fare una lavatrice o una doccia oppure di entrare a Casa Sabotino, restandoci per un tempo che viene valutato di volta in volta a seconda del caso. I finanziamenti della casa di accoglienza arrivano dal Municipio 1 di Roma e anche da privati.
Un altro progetto piuttosto citato è il progetto Shelt(H)er ideato invece da ASP città di Bologna, Azienda pubblica di servizi alla persona: il progetto, ora concluso, prevedeva un percorso di accompagnamento coordinato alle donne senza casa, con la formazione congiunta di operatrici e operatori che si occupano di violenza sulle donne e di emarginazione sociale.
«Bologna viene spesso citata come la punta di diamante», dice Cortese, secondo cui in Italia molto spesso le risposte ai problemi sociali arrivano dal basso, dall’associazionismo e dal terzo settore, da operatori e operatrici che si mettono in contatto tra loro creando modelli che potrebbero essere applicati in modo più strutturale anche a livello nazionale. Ci sono «tanti piccoli progetti sparsi sul territorio italiano che bisognerebbe raccogliere, studiare e trasformare in sistema», dice Cortese.