Cosa succede dentro ai Consigli Europei e fuori, spiegato bene
Le riunioni riservate, i negoziati tra diplomatici, le cene informali; e un'abitudine dei leader ad andare in bagno piuttosto spesso
Nelle riunioni più tese dei Consigli Europei capita stranamente spesso che diversi primi ministri trovino una scusa per alzarsi dal tavolone rotondo intorno al quale sono tutti riuniti, se ne vadano attraversando il pavimento con la moquette a quadri variopinta, e si richiudano alle spalle il portone d’ingresso per arrivare finalmente in corridoio. La scusa più ricorrente in questi casi è la pipì che scappa, al punto da generare battute e sarcasmi su problemi di prostata o incontinenza. Potrebbe sembrare un dettaglio insignificante anche se divertente, ma è anche un segno di come funzionano le riunioni dei capi di Stato o di governo dei Paesi dell’Unione Europea: soprattutto nella loro parte decisiva, quella a cui i giornalisti non hanno accesso diretto.
Molta della particolarità di queste riunioni dipende proprio dalla natura del Consiglio Europeo, che è per certi versi l’organismo più rilevante tra quelli previsti dal Trattato di Lisbona con cui si è definita la forma istituzionale dell’Europa nel 2009. Il Consiglio non esercita funzione legislativa. Non produce norme, insomma, ma prende decisioni fondamentali per dare indirizzi e orientamenti politici all’Unione.
Fino al 2009 non aveva un presidente stabile: a guidarlo era di volta in volta il capo di Stato o di governo del paese che deteneva il semestre di presidenza del Consiglio dell’Unione Europea, carica che viene assegnata a rotazione a tutti i membri dell’Unione. Da quasi quindici anni, invece, è previsto che siano i leader dei vari paesi a votare un presidente fisso, il cui mandato dura due anni e mezzo ed è rinnovabile una sola volta.
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L’altro elemento che spiega certe apparenti stranezze dello svolgimento del Consiglio Europeo è il fatto che la riunione dei capi di Stato e di governo è l’atto finale di un lavoro diplomatico durato spesso molte settimane, e che talvolta ha già prodotto risultati pressoché definitivi prima ancora che la riunione cominci, cosicché spesso i leader dei paesi membri si incontrano per discutere quanto più possibile di faccende politiche senza impelagarsi in discussioni di tipo burocratico o giuridico. I Consigli Europei avvengono di solito ogni quattro mesi, ma il presidente può convocarne anche di straordinari: il risultato è che ce ne sono in media sei o sette all’anno.
Alla base di queste sei o sette riunioni, però, c’è un’attività diplomatica piuttosto intensa che è praticamente costante per tutto l’anno. La prassi prevede che i negoziati che porteranno al Consiglio inizino con un avviso trasmesso dal presidente del Consiglio agli ambasciatori che tutti i paesi hanno a Bruxelles, e che in questo caso si chiamano rappresentanti permanenti presso l’Unione Europea. È il capo di gabinetto del presidente, di solito, a firmare la comunicazione: lo fa tenendo conto delle indicazioni e delle sollecitazioni arrivate dalla Commissione Europea, cioè dal massimo organo esecutivo, e dal Consiglio Affari Generali, ovvero dalla riunione mensile dei ministri per gli Affari europei degli Stati membri.
Le discussioni che avvengono in questi incontri riguardano per lo più la necessità di trovare soluzioni politiche che diano un certo indirizzo all’Unione nelle varie materie. Il capo di gabinetto del presidente del Consiglio tiene conto di questo per imbastire l’ordine del giorno del successivo Consiglio.
Una volta ricevuto questo avviso, inizia una prima fase di negoziato. I rappresentanti permanenti – che chiameremo ambasciatori per semplicità – si confrontano prima coi rispettivi governi, in vari modi, a seconda delle preferenze del leader di ciascun paese e delle prassi che nelle varie capitali si sono andate consolidando negli anni. In Italia di solito è il ministro per gli Affari Europei che tiene i contatti più frequenti e quotidiani, all’inizio, con l’ambasciatore a Bruxelles. Ma può anche capitare che quest’ultimo si relazioni direttamente col presidente del Consiglio o col suo consigliere diplomatico, cioè la persona che il presidente del Consiglio stesso sceglie per farsi aiutare nelle questioni di politica internazionale.
Gli ambasciatori riferiscono a quel punto al presidente del Consiglio o ai suoi collaboratori, chiedendo magari di modificare un po’ l’ordine del giorno, includendo per esempio anche quel certo tema che sta particolarmente a cuore al loro capo di governo. Parallelamente, gli ambasciatori si confrontano tra loro per costruire intese e definire accordi, così da cercare di dare maggior risalto a determinati argomenti anziché ad altri, e indirizzando così i lavori in vista del Consiglio.
Se questa è l’attività informale, c’è poi una sede dove si svolge il confronto ufficiale tra i vari ambasciatori, ed è il COREPER, il Comitato dei rappresentanti permanenti. Le riunioni vengono convocate a cadenza di solito settimanale dal presidente del Consiglio Europeo a partire almeno dal mese precedente all’incontro dei leader, e servono proprio a preparare il terreno per questi incontri. Viene concordato l’ordine del giorno, poi si passa a scrivere le conclusioni, cioè il documento finale che verrà approvato dal Consiglio. Non è un errore, le conclusioni vengono in gran parte scritte prima che i capi di Stato e di governo si vedano a Bruxelles, anche se può sembrare controintuitivo: serve a far sì che poi loro possano discutere solo i dettagli su cui eventualmente c’è disaccordo. Nel documento preparato dagli ambasciatori quei dettagli vengono scritti in rosso o tra parentesi: discussi quelli, i leader possono passare ad affrontare questioni più politiche.
È una prassi che può apparire bizzarra anche ai politici che non la conoscono. Durante il secondo Consiglio Europeo a cui partecipò da capo del governo italiano, nel febbraio del 2023, Giorgia Meloni contestò questa prassi, impuntandosi su un passaggio delle conclusioni che riguardava la politica migratoria. La sua insistenza indispose un po’ gli altri leader, visto che era ormai passata la mezzanotte e la riunione doveva affrontare ancora altri punti previsti nell’ordine del giorno.
Per questo il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, la sollecitò. E Meloni se la prese, dicendo che da politica navigata qual era sapeva bene che il mettere fretta a un interlocutore era uno strumento tipico della negoziazione politica, e che però le sue erano questioni irrinunciabili. «Per cui, se vuoi, tu puoi anche andare a dormire», gli disse. Poco dopo il presidente francese Emmanuel Macron le rivolse un invito analogo, segnalando che su alcuni dei passaggi da lei contestati era già stata trovata un’intesa nei giorni precedenti dal COREPER. «Forse non ho capito bene come funziona il Consiglio, Emmanuel, ma se non sbaglio è questo il livello politico più alto ed è qui che si prendono le decisioni».
Questo scambio di battute fu riferito ai cronisti italiani dai collaboratori di Meloni per dimostrare la solerzia e la determinazione della presidente del Consiglio sull’immigrazione. Ma sarebbe sbagliato pensare che quanto decidono gli ambasciatori nel COREPER sia frutto di negoziati che avvengono all’oscuro dei leader dei vari paesi. È vero anzi il contrario. Gli ambasciatori negoziano per settimane tenendo costantemente aggiornati i governi sull’andamento delle trattative, e spesso ricevono dai loro presidenti indicazioni su come muoversi, su quali punti si può cedere e su quali bisogna restare irremovibili, cosa concedere o cosa negare a un altro paese, e così via.
Anche in questo caso è un negoziato che può seguire diverse consuetudini: gli ambasciatori si telefonano, si mandano mail e messaggi, e spesso parlano direttamente. In questo sono agevolati dalla loro vicinanza: tutte le 27 rappresentanze diplomatiche hanno sede nello stesso palazzo di Bruxelles, il Palazzo Europa, quello dove si svolgono anche i Consigli. Ci sono 4 delegazioni per piano. Quella italiana è all’ottavo, insieme a quelle olandese, austriaca e slovena. Una chiacchierata per le scale o nei corridoi, due battute davanti a un caffè, una colazione o un pranzo: ogni occasione è buona per chiedere un favore a un collega, per caldeggiare una certa causa, per garantire o chiedere un appoggio su una determinata richiesta.
Ma i capi di Stato e di governo svolgono un ruolo comunque decisivo in queste settimane di lavori preparatori. Sulla base di quanto dicono loro gli ambasciatori da Bruxelles, infatti, si muovono in prima persona: contattano i capi del governo di altri paesi per sollecitare una certa decisione, scrivono al presidente del Consiglio Europeo per segnalare una critica. Insomma, svolgono un negoziato complementare a quello degli ambasciatori, e in coordinamento con loro. Ovviamente ogni leader cerca di far inserire nel testo delle conclusioni un passaggio o una formula, talvolta anche solo un aggettivo o una sfumatura, che possano poi essere rivendicati come una vittoria diplomatica. Per questo quando si arriva al momento decisivo del Consiglio – la riunione dei 27 capi di Stato e di governo – il grosso del lavoro è fatto.
A quel punto inizia la riunione al quinto piano del Palazzo Europa. L’incontro si apre quasi sempre di giovedì pomeriggio. Nella stanza del Consiglio possono entrare solo i capi di Stato e di governo dei 27 paesi membri, il presidente del Consiglio e il presidente della Commissione. Oltre ai politici c’è un ristretto gruppo di funzionari: sono i collaboratori del presidente del Consiglio Europeo, della presidente della Commissione e del presidente di turno del Consiglio dell’Unione Europea (l’organo che ha il potere legislativo insieme al parlamento). In tutto di solito sono una decina.
La discussione è assolutamente riservata, ma un paio di volte all’ora, o comunque al termine di passaggi particolarmente significativi, uno dei collaboratori del leader che ha la funzione di presidente di turno del Consiglio dell’Unione Europea esce dalla stanza e riferisce una sintesi di quel che è stato detto o delle decisioni che sono state prese a un gruppo di collaboratori fidati dei vari ambasciatori, il cosiddetto “Gruppo Antici”. Si chiama così perché a proporne l’istituzione fu Paolo Massimi Antici, un importante diplomatico italiano che negli anni Settanta lavorò come ambasciatore a Bruxelles.
Gli Antici, come vengono chiamato nel gergo di Bruxelles, seguono costantemente i lavori preparatori del COREPER, e durante i Consigli hanno una funzione simile a quella degli stenografi. Stanno tutto il tempo in una sala attigua a quella riservata ai leader, e lì attendono che i funzionari escano di tanto in tanto per aggiornarli sullo sviluppo delle discussioni; a quel punti gli Antici inviano brevi dispacci ai vari ambasciatori o ai consiglieri diplomatici dei leader presenti a Bruxelles, e questi brevi messaggi sono di fatto la base su cui poi si fondano tutti i resoconti più o meno ufficiali dei Consigli europei.
Il loro è insomma un lavoro fondamentale: e lo è diventato ancor più negli ultimi anni, da quando con la presidenza di Michel è stato deciso di non utilizzare più la sala d’ascolto, ovvero una sala in cui i consiglieri diplomatici dei presidenti dei vari paesi o i loro ambasciatori potevano ascoltare in bassa frequenza quanto veniva detto dai leader. Questa pratica è stata abbandonata per adeguare lo standard di sicurezza e riservatezza dei Consigli a quelli di altri incontri internazionali importanti, come i vertici della Nato (l’alleanza militare tra Stati Uniti ed Europa) o le riunioni del G7 (i sette principali paesi occidentali), nei quali i leader sono del tutto isolati e spesso non possono neppure tenere con sé telefoni o altri dispositivi elettronici.
Questo però non implica che i capi di Stato e di governo siano davvero chiusi in una bolla, a Bruxelles. Hanno con sé i cellulari e per rapidissimi consulti su singole materie possono scrivere un messaggio ai membri del proprio staff. Non telefonargli, però, perché le telefonate sono bandite durante le riunioni del Consiglio, salvo casi eccezionali: non tanto per questioni di regolamento, quanto di galateo e buona educazione istituzionale, senza contare poi che sarebbe difficile riuscire a parlare al cellulare con qualcuno che sta fuori dalla stanza senza essere ascoltati dai colleghi. Più di frequente, invece, se il capo di Stato o di governo avverte l’esigenza di un confronto più approfondito con i suoi collaboratori, dà loro un appuntamento.
E qui torniamo alla questione del bagno, che viene usato come espediente per giustificare il proprio allontanamento dalla stanza. Specialmente quando le riunioni sono lunghe e affrontano temi delicati, succede che un leader scriva al proprio consigliere diplomatico o al proprio ambasciatore, o a entrambi, e indichi loro un orario e un punto esatto del palazzo dove incontrarsi.
Ogni leader adotta il metodo che gli è più congeniale. Giuseppe Conte, per esempio, nel suo secondo mandato da presidente del Consiglio, era solito scrivere su alcuni gruppi WhatsApp nelle notti più concitate di negoziati per la definizione del Recovery Plan, il grande piano europeo di investimenti da cui l’Italia ha ottenuto quasi 200 miliardi. In quelle chat c’erano vari suoi collaboratori: il rappresentante permanente Maurizio Massari, il consigliere diplomatico Pietro Benassi, il ministro per gli Affari Europei Enzo Amendola, il portavoce Rocco Casalino. Mario Draghi aveva invece abitudini opposte, e tendeva a contattare assai di rado i suoi collaboratori durante i Consigli Europei, al punto che tra i funzionari di altre delegazioni circolava una battuta per cui «i diplomatici italiani sono quelli che si annoiano di più». Ore e ore senza che dall’interno della stanza arrivasse loro nulla di rilevante. Draghi preferiva poi fare un breve punto con tutto lo staff, finita la riunione del Consiglio Europeo.
Quando i Consigli sono convocati per discutere temi particolarmente delicati, capita che le riunioni del giovedì pomeriggio si protraggano fino a sera, e talvolta fino a notte inoltrata, per poi riprendere nella tarda mattinata del venerdì. E succede spesso che al di fuori di queste riunioni ufficiali alcuni dei leader si incontrino per colloqui informali, approfittando peraltro del fatto che molti dei capi di Stato e di governo, con le loro delegazioni al seguito, dormono nelle stesse strutture.
La più famosa è l’Amigo, un lussuoso albergo in uno storico palazzo del centro di Bruxelles, che in passato era stato un carcere. La quantità di stanze riservate è un segno del prestigio delle varie delegazioni. A quella tedesca sono riservate di solito trenta stanze, a quella francese una ventina, quindici a quella italiana. Nel bar o nel ristorante dell’Amigo spesso si organizzano cene, colazioni o brindisi tra i leader di questi tre paesi, con gli aneddoti che questi eventi si portano sempre dietro: per esempio la predilezione dell’ex cancelliera tedesca Angela Merkel per il vino Bordeaux francese e la sua abitudine a tirare tardi nei colloqui fino alle due o alle tre di notte; la sorpresa di Matteo Renzi nel constatare la tenuta di Merkel fino a tardi, visto che lui si alzava all’alba per una sessione di ginnastica nella palestra dell’albergo prima di iniziare i lavori.
Le curiosità dei cronisti si concentrano molto intorno a questi appuntamenti informali. Nel dicembre del 2019 Conte, Merkel e Macron tennero un incontro a tre a colazione prima dell’avvio del Consiglio Europeo. Dovevano discutere delle tensioni militari in Libia, e al termine dell’incontro scrissero un comunicato congiunto. L’incontro, in Italia, generò tuttavia alcune polemiche soprattutto perché lo staff di Conte diffuse una foto che ritraeva il portavoce del presidente del Consiglio, Rocco Casalino, a capo del tavolo intorno al quale erano seduti i tre leader coi rispettivi consiglieri diplomatici. Il presenzialismo di Casalino era piuttosto commentato, e quell’immagine suscitò critiche in parlamento e sui giornali. Tempo dopo, nella sua autobiografia, Casalino raccontò quanto ci tenesse a quelle immagini, che a suo avviso certificavano il suo riscatto sociale di fronte ai suoi vecchi amici d’infanzia che lo discriminavano: «Cenavo con la Merkel e pensavo continuamente ai miei compagni da ragazzo. Mi chiedevo se ci fosse un modo di farglielo vedere a quelli che mi avevano preso in giro e bullizzato».
L’atto finale del Consiglio Europeo consiste nell’approvazione definitiva delle conclusioni, il documento che stabilisce le priorità e gli orientamenti politici che i capi di Stato e di governo danno all’intera Unione, e di cui la Commissione e il parlamento dovranno poi tener conto nella loro attività legislativa. Anche in questo caso, la capacità negoziale dei singoli leader può fare la differenza. Merkel era per esempio nota proprio per la sua capacità di introdurre all’ultimo minuto passaggi o riformulazioni che rispecchiavano maggiormente gli interessi tedeschi. Era una tecnica, prendere gli altri leader per sfinimento: lasciava che discutessero a lungo su alcuni dettagli e poi, quando tutti erano ormai stanchi, introduceva un nuovo argomento o faceva una nuova obiezione, con attenzione maniacale alle parole, sfruttando la scarsa resistenza dei suoi interlocutori desiderosi di chiudere la riunione al più presto.
All’abilità di Merkel si sommava anche l’oggettivo prestigio internazionale della Germania, che è il paese più influente in Europa. Di recente il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha scherzato su questo dicendo che anche ai negoziati europei si può applicare la celebre frase dell’ex calciatore inglese Gary Lineker sulla nazionale tedesca: «Ai Consigli Europei è un po’ come col calcio: si discute e ci si affanna, e alla fine la Germania vince».