L’arte di origliare per strada
«Sospetto che annotare le frasi sentite in giro abbia a che vedere con un’insofferenza più o meno cosciente verso l’insieme dei gesti che più ci ritroviamo a fare oggi: condividere, recensire, produrre contenuti, dire la nostra, esserci. Mi piace la non intenzionalità di una frase ascoltata per caso, la sua aleatorietà, il fatto che sia nel mondo reale e non su uno schermo, che in qualche modo registri il presente e l’aria che tira senza pretendere di spiegarli, di imporli, di filtrarli attraverso una visione. Mi piace che richieda attenzione, una certa disposizione all’ascolto. Che sia fine a sé stessa, ma in qualche modo anche utile a qualcos'altro, se siamo pronti a ricordarla, a darle retta»
«Allora è andata così. Ho comprato questo pigiama a cinque euro. Non mi sono più ripresa».
Una ragazzina sui sedici anni a un’amica, camminando a passo svelto su via Labicana, un sabato sera dopo mezzanotte.
«Qui, te lo dico Monica, bisogna andarci coi sassi nelle tasche».
Un signore sulla settantina a una signora che aveva tutta l’aria di essere sua moglie, ore 19:44 di venerdì scorso, mentre stavano entrando al Teatro dell’opera di Roma, dove davano Il flauto magico.
«No, vabbè, Come quaa’ vorta che m’è salito uno con ‘na tavola da surf…»
Una donna capotreno a un controllore maschio su un Frecciarossa Bologna-Roma, il giorno dell’epifania all’ora di pranzo, mentre camminavano insieme verso il vagone bar.
Queste sono solo le ultime in ordine di tempo. Ormai la lista nelle note del telefono è una collezione. Ce ne sono di belle e di meno belle, di sorprendenti, di esotiche, dissacranti o incomprensibili, romantiche e reazionarie. Provengono da luoghi, stagioni, situazioni diverse. Sono stralci di telefonate, conversazioni al bar, litigate al telefono, videochiamate, pensieri ad alta voce che fa la gente parlando da sola mentre cammina per strada.
Sono frasi ascoltate per caso; ho iniziato ad annotarle un paio di anni fa. Era primavera, avevo da poco scoperto di essere incinta e camminavo per strada con la sensazione di portare in giro un segreto, e un pomeriggio ho cominciato ad appuntarmi quelli degli altri. Che poi le frasi ascoltate per caso non sono esattamente segreti: solo frammenti, schegge di mondo talmente piccole che nemmeno chi le sta pronunciando e chi le sta ascoltando di lì a poco forse ricorderà.
Quel giorno ero a Bologna, stavo attraversando piazza Maggiore, e una ragazza seduta sul marciapiede dal lato dei portici mentre girava una sigaretta ha detto al tipo che era con lei: «Questo è un bel giorno, per stare al mondo». Non so se il suo compagno abbia risposto o meno, se la ragazza in questione si stesse riferendo alla bella giornata di sole o a qualcos’altro. Non ne ho idea e non aveva importanza. Bastava quella frase, per restare colpiti, e difatti quella ho segnato.
Di ciascuna appunto anche l’ora, il luogo, il giorno e chi l’ha detta. Non le appunto mica tutte, naturalmente. Solo quelle che hanno un bel suono, rilasciano una qualche energia. Che per qualche motivo trovo interessanti, curiose, divertenti. A rileggerle, anche tempo dopo, mi ritrovo subito. Magari non ricordo la faccia ma la voce, mi sono dimenticata chi l’ha pronunciata ma non quello che la stava ascoltando. Oppure ho cancellato tutto, tranne il modo in cui mi sentivo quando ho ascoltato quella frase lì. Passano anche giorni interi in cui non appunto nulla. Poco male: la mia non è una caccia, piuttosto un raccolto.
L’anno scorso camminavo per Parigi, e davanti all’hotel de Crillon c’erano due donne, madre e figlia, elegantissime e dall’aria contrita, che aspettavano un taxi tenendosi sotto lo stesso ombrello. Lo reggeva la figlia, il polso magrissimo, e l’aria perduta, estenuata, come se non fossero in Place de la Concorde alle dieci del mattino, ma in qualche giungla al calar della notte. La madre le stava accanto, drittissima e implacabile nel suo completo Chanel. Di cosa parleranno, una madre e una figlia così, mi sono chiesta mentre passavo di lì. Me lo sono chiesto di sfuggita, camminando in fretta sotto la pioggia, in preda a quel sottile ma devastante cattivo umore che ci assale nei mattini di maggio a Parigi in cui sembra novembre. Poi passando, ho sentito soltanto:
«Il fait un temps de merde, là».
«Et oui, maman».
Ed ecco che è finita dritta nella lista del telefono anche lei.
Si potrebbe pensare che appuntarsi frasi ascoltate per strada richieda del tempo, ma non è così. Bastano pochi secondi, un file note del telefono, ed eccole lì. Si potrebbe pensare, inoltre, che appuntarsi frasi ascoltate per strada sia un’attività del tutto idiota, e probabilmente anzi senza dubbio lo è, ma del resto non sto suggerendo pratiche al prossimo, solo confessando le mie.
Ma che ci fai poi, con queste frasi che ti segni, le usi nei libri?, mi ha chiesto giustamente un’amica, dopo che abbiamo passato un fine settimana insieme e mi aveva visto fuori tirare fuori il telefono per appuntarmi le lamentele di una signora sull’aumento di carciofi al banco del mercato; un pezzo di un messaggio vocale di una ragazza che raccontava a un’amica dell’incontro con un suo ex; la battuta volgare di un cinquantenne a un collega un venerdì a pranzo alla fermata dei taxi. Le ho risposto che no, di sicuro nei libri non ci finiscono, perché come diceva Natalia Ginzburg «non esiste risparmio in questo mestiere», e difficilmente una frase ascoltata per caso poi finisce in un romanzo, o se succede è una frase su cento, su mille, e allora di certo non raccolgo frasi con quello scopo lì. Ma è un gesto che spinge al silenzio, a relativizzare, a sospendere il giudizio, che ogni tanto fa sorridere del mondo e alzare lo sguardo e la testa dal telefono, e allora a pensarci bene forse tanto inutile non è.
Qualche giorno fa sono andata a vedere Perfect Days di Wim Wenders, e uscendo dal cinema mi sono chiesta: sono i riti che salvano il protagonista? Questo suo rifare e rifare con grazia innata (o conquistata? chi lo sa) sempre gli stessi gesti ogni giorno [attenzione spoiler]: aspettare di essere sulla tangenziale di Tokyo per infilare la musicassetta, scattare fotografie alle cime degli alberi durante la pausa pranzo, portare a sviluppare i rullini il sabato, dopo il bagno pubblico e prima del ristorante, sedersi con le spalle alla finestra per guardare le stampe delle foto, tagliare quelle non riuscite e riporre quelle venute bene in delle scatole con le etichette chiare, posare gli occhiali e il libro sul pavimento prima di spegnere la luce e dormire. Sono i riti, a salvare quest’uomo, oppure sono gli imprevisti? La nipote che scappa di casa e va a trovarlo, le risposte dell’avversario al tris sui foglietti nascosti nei bagni, l’ex marito della proprietaria del ristorante che si mette a calpestare le ombre con lui dopo avergli detto che sta per morire? Probabilmente, è un equilibrio ineffabile e necessario tra le due cose: i riti lo aiutano a trovare un senso, gli imprevisti lo fanno sentire vivo.
E allora ecco perché colleziono frasi ascoltate per strada, forse. È un gesto a metà tra un rito e un imprevisto.
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Il massimo a cui possiamo aspirare noi disorganizzati, noi persone senza una routine, noi curiosi privi di metodo ma non di devozione. Appuntarsi frasi sentite in giro in un certo senso è come tenere un diario, scattare foto, pregare o meditare: un tentativo come un altro di dar forma allo spazio e al tempo. Sospetto, inoltre, che abbia a che vedere con un’insofferenza più o meno cosciente sviluppata nel tempo verso l’insieme dei gesti che più ci ritroviamo a fare oggi: condividere, recensire, produrre contenuti, dire la nostra, esserci. Mi piace la non intenzionalità di una frase ascoltata per caso, la sua aleatorietà, il fatto che non sia pronunciata da me ma da qualcun altro, che sia nel mondo reale e non su uno schermo, che in qualche modo registri il presente e l’aria che tira senza pretendere di spiegarli, di imporli, di filtrarli attraverso una visione. Mi piace che richieda attenzione, una certa disposizione all’ascolto. Che sia fine a sé stessa, ma in qualche modo anche utile a qualcos’altro, se siamo pronti a ricordarla, a darle retta.
«Io non so se esiste il presente, per questo mi documento», aveva risposto il pittore Domenico Gnoli a chi in un’intervista gli aveva chiesto come mai dipingesse dettagli macroscopici di giacche, poltrone, capelli, bottoni e bicchieri smerigliati. In un certo senso, anche appuntare frasi sentite per caso in strada è un gesto simile: parte del dettaglio per cercare il mondo. È un rito solitario che ha bisogno della gente.
«Una paura profonda, totale e totalizzante, questo è quello che gli servirebbe per darsi una svegliata. Purtroppo però gli uomini come lui non si impauriscono mai, è questa la fregatura. Sono altri quelli che si mettono paura».
«Te l’ho detto, quello va avanti così ormai. Non guarda in faccia nessuno. E quindi?»
«Eh allora non lo so. Forse allora lei deve lasciar perdere. Non c’è altro da fare. Io questo l’ho capito, nella vita: a volte la saggezza non è mica gran cosa, a volte la saggezza è lasciar perdere. Davide vieni che tra poco dobbiamo andare. Vieni, ho detto! Davide via dall’acqua, santo dio!»
Una quarantenne a un’altra mentre prendono un aperitivo fumando al tavolo accanto al mio, in piazza della Madonna dei Monti, il blue monday di gennaio, mentre i figli stavano giocando intorno alla fontana.
Non so quale fosse la situazione sentimentale di cui stessero discutendo le due donne al bar, ma so che è proprio vero che a volte la saggezza «è lasciar perdere», sentirlo da quella donna me l’ha ricordato e un paio di giorni più tardi, mentre parlavo con un mio amico incastrato in una storia d’amore complicata e con poche prospettive, mi è tornata in mente.
«Non è tanto quello che possiamo fare, fraté. Non ti sto parlando di fare. Ma dire, almeno dire qualcosa, cazzo».
Stavolta a parlare era uno studente rivolto a un altro, lo scorso giovedì tredici ottobre, all’ora di pranzo, tutti e due indossavano una felpa col cappuccio e avevano il cellulare in mano, e stavano salendo i gradini verso la metro Piramide.
Non so a cosa si riferisse quel ragazzino, anche in quel caso mi mancava il contesto (manca sempre, il contesto, ovviamente, nelle frasi che si ascoltano per caso). Non potevo dire con certezza a cosa facesse riferimento, ma per me è stato ovvio in quel momento collegarlo a quello che in quei giorni stava iniziando ad accadere a Gaza. Magari lui si riferiva a tutt’altro, ma io a metà ottobre avevo bisogno di ascoltare quella frase lì, mi ha aiutato a riflettere più di tanti post o talk show, a cominciare a interrogarmi su cosa fosse non dico giusto ma almeno possibile fare, a costruirmi un’opinione al riguardo. Quella frase ascoltata per caso ha smosso qualcosa, poco importa se solo per me e se soltanto di sghembo, per caso.
Ma adesso non voglio farla più lunga o più nobile di quello che è: la verità è che il più delle volte queste frasi non sono né profetiche, né istruttive, né toccanti. Semplicemente, mi dicono qualcosa, mi aiutano a trovare un senso o ad acchiappare un pensiero. E anche se sono come fotografie scattate senza fermarsi, e dunque effimere, difettose, parziali, contengono una saggezza, una specie di verità. Per quello che viene detto o per come viene detto; per quello che affermano o lasciano intendere, per quello che averle ascoltate mi porta a pensare.
Che si tratti di battute involontarie o di piccoli oracoli, quasi dei Ching da strada, ascoltarle e appuntarle è diventato un modo di stare al mondo senza pretendere a tutti i costi di capirlo o di spiegarlo, accogliendo la possibilità che sia lui a portarmi di volta in volta in un luogo, un punto di vista, un pensiero differente.
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