Hamas non è per niente «distrutto»
Secondo stime statunitensi l'esercito israeliano è molto lontano dai suoi obiettivi: il 60-80 per cento dei tunnel è ancora in piedi, e più di due terzi dei miliziani restano operativi
A oltre tre mesi dall’inizio della guerra nella Striscia di Gaza è difficile avere informazioni certe su come stia andando a livello operativo la guerra per l’esercito israeliano, soprattutto perché le informazioni sono poche. Negli ultimi giorni, però, l’intelligence statunitense ha reso note in forma anonima delle stime estremamente pessimistiche, che fanno pensare che Israele sia ancora molto lontano da raggiungere il suo obiettivo dichiarato di «distruggere Hamas».
Secondo l’intelligence statunitense Israele è riuscito a eliminare solo il 20-30 per cento della forza militare di Hamas, mentre il 60-80 per cento dei tunnel presenti nella Striscia sarebbe ancora intatto e funzionante. Israele fornisce in modo per lo più ufficioso stime un po’ superiori, ma ha ammesso pubblicamente di essere ancora lontano dai suoi obiettivi militari. Anche per questo vari esponenti del governo e dell’esercito hanno dichiarato che la guerra continuerà ancora per «molti mesi», benché siano in corso proprio in questi giorni negoziati per raggiungere quanto meno un cessate il fuoco temporaneo.
Le operazioni militari israeliane sono cominciate con i bombardamenti della Striscia il giorno dopo gli attacchi dei miliziani in territorio israeliano il 7 ottobre, e sono proseguite alcune settimane dopo con l’invasione via terra. A livello operativo l’obiettivo di Israele di distruggere Hamas, considerato da molti difficilmente realizzabile, consiste nell’eliminare buona parte della sua forza militare (cioè ucciderne i membri), e delle sue infrastrutture, in particolare la profonda e articolata rete di tunnel sotterranei. I tunnel sono usati da Hamas per attaccare a sorpresa l’esercito israeliano, ma anche per spostare e nascondere armi, merci e miliziani.
Se le stime statunitensi sono corrette, gli obiettivi israeliani sono ancora molto lontani benché questa sia già la guerra più lunga sostenuta da Israele nei tempi recenti e abbia causato una distruzione molto consistente delle strutture civili di superficie della Striscia. Bombardamenti e operazione di terra hanno causato un numero elevatissimo di morti fra i palestinesi (secondo le fonti del ministero della Sanità di Gaza sono più di 26mila, di cui due terzi donne e bambini) e una crisi umanitaria gravissima, con 1,9 milioni di abitanti della Striscia costretti ad abbandonare le proprie case, spesso senza accesso a cibo, acqua potabile e aiuti per rispondere alle esigenze di base.
Israele ha spesso giustificato molti dei suoi attacchi più cruenti, compresi quelli nelle zone dei pochi ospedali rimasti operativi, con la necessità di distruggere basi di Hamas e gli ingressi della sua rete di tunnel. Durante le operazioni di terra sono state trovate molte delle uscite in superficie di questi tunnel, ma l’esercito israeliano considera troppo pericoloso penetrare all’interno e distruggerli. A fine dicembre l’operazione “Sea of Atlantis” prevedeva di inondare i tunnel con pompe che utilizzavano l’acqua marina. Secondo testimonianze un’operazione simile è stata effettuata almeno una volta a gennaio nella città di Khan Yunis, e martedì l’esercito israeliano ha ammesso di aver utilizzato questo metodo, confermando quanto i media scrivevano da alcune settimane, Ma in generale l’inondazione dei tunnel avrebbe dato risultati inferiori a quanto prospettato: all’interno sarebbero presenti paratie e sbarramenti non previsti che bloccano l’acqua.
La gran parte dei tunnel di Hamas resterebbe operativa: funzionari israeliani e statunitensi ritengono che ne siano stati distrutti da un minimo del 20 per cento a un massimo del 40. Con ogni probabilità poi all’interno degli stessi tunnel sono tenuti prigionieri i più di 100 ostaggi rapiti il 7 ottobre e ancora nelle mani di Hamas: ogni operazione di distruzione dei tunnel può causare anche la morte di alcuni degli ostaggi.
All’interno dei tunnel sarebbe nascosta anche la gran parte dei miliziani di Hamas. Gli Stati Uniti prima della guerra stimavano che l’organizzazione radicale potesse contare su 25-30mila combattenti (Israele ritiene che siano più di 30mila) e che dopo questi mesi Israele ne abbia uccisi il 20-30 per cento, riducendo le capacità militari di Hamas, ma non certo cancellandole. L’esercito israeliano ha stime più alte: afferma di averne uccisi circa 9mila, compresi i mille che sono morti durante gli attacchi del 7 ottobre. Le stime sono diverse anche per quel che riguarda i miliziani feriti: sarebbero circa 16mila secondo Israele, che ritiene che la metà di questi non sia in grado di tornare a combattere, mentre gli Stati Uniti valutano i feriti fra i 10 e 12mila (e la maggior parte potrebbe essere in grado di tornare a combattere).
Il ministero della Sanità di Gaza (controllato da Hamas) non ha mai fatto distinzione fra vittime civili e miliziani nei bollettini con cui comunica i morti palestinesi nel corso della guerra.
Si ritiene comunque che Hamas abbia soldati e munizioni a sufficienza per continuare a condurre attacchi verso Israele per mesi: dopo il 7 ottobre i lanci di razzi sono stati sporadici e meno frequenti, ma non si sono fermati. Lunedì Hamas ha sparato oltre una decina di razzi da Khan Yunis verso Tel Aviv, dimostrando di aver mantenuto almeno parzialmente le sue capacità di colpire. Funzionari israeliani e residenti palestinesi segnalano inoltre che nel nord della Striscia di Gaza Hamas sta provando a ribadire la propria autorità organizzando piccole pattuglie di polizia e di soccorsi di emergenza. Il nord è la zona della Striscia più colpita da Israele nelle prime fasi della guerra: il ritorno di Hamas viene interpretato come la volontà di mostrare la propria capacità di resistenza agli attacchi.
Da tempo Israele è oggetto di forti pressioni internazionali per un “cessate il fuoco” o almeno per il superamento della fase più cruenta della guerra. Anche gli Stati Uniti, il principale paese alleato di Israele, hanno chiesto più volte al governo di Benjamin Netanyahu di trasformare l’intervento militare, conducendo operazioni più mirate e circoscritte che causino meno morti fra la popolazione civile e permettano la distribuzione più capillare degli aiuti.