In un anno la diplomazia italiana ha fatto molto poco per Ilaria Salis
L'ambasciata sapeva dell'utilizzo di catene durante le udienze dal febbraio 2023, ma il governo si sta muovendo ancora lentamente per non rovinare i rapporti con l'Ungheria di Orbán
Il governo, e in particolare il ministero degli Esteri, sono stati molto criticati dopo che lunedì sera sono state diffuse immagini che mostrano la 39enne monzese Ilaria Salis incatenata in un’aula di tribunale a Budapest, in Ungheria: Salis, militante antifascista, era stata arrestata nel febbraio del 2023 proprio a Budapest con l’accusa di lesioni aggravate per aver aggredito dei manifestanti di estrema destra. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha chiesto attraverso i social network al governo ungherese «di vigilare e di intervenire affinché vengano rispettati i diritti» di Salis, e ha poi fatto sapere di avere convocato per l’indomani alla Farnesina, cioè alla sede del ministero degli Esteri, l’incaricato d’affari ungherese a Roma, cioè il diplomatico che svolge il ruolo di ambasciatore quando il titolare dell’ambasciata non è in sede.
A quel punto dai partiti di opposizione sono cominciate ad arrivare lamentele nei confronti della lentezza d’intervento del governo italiano. «È francamente sconfortante che la convocazione dell’incaricato d’affari alla Farnesina da parte del ministro Tajani sia avvenuta solo lunedì, dopo quasi un anno dall’arresto di Salis», dice la deputata del Partito Democratico Lia Quartapelle, la prima ad avere sollevato in parlamento il caso con un’interrogazione del primo dicembre scorso. La convocazione alla Farnesina di un ambasciatore di un Paese straniero è nella prassi diplomatica l’atto basilare con cui di solito il ministro degli Esteri esprime una critica o una protesta verso quel Paese.
I collaboratori di Tajani hanno poi spiegato che questa convocazione era stata fatta per un motivo preciso. Durante un pausa dai lavori dell’ultimo Consiglio Affari esteri, cioè la riunione dei ministri degli Esteri dei 27 Stati membri dell’Unione Europea, il 22 gennaio scorso, Tajani aveva segnalato il caso al suo omologo ungherese, Péter Szijjártó, spiegandogli che il governo italiano auspicava che a Salis venissero concessi gli arresti domiciliari e che dunque venisse fatta uscire dal carcere in attesa che si svolgesse interamente il processo nei suoi confronti. Dopo aver visto le immagini di Salis incatenata, però, Tajani dice di essersi sentito preso in giro dal collega ungherese: per questo, secondo quanto raccontano i suoi collaboratori, avrebbe poi deciso di convocare l’incaricato d’affari.
Questo è stato in ogni caso il primo atto formale del governo italiano per esprimere il proprio disappunto a quello ungherese da quando Salis è stata arrestata, arrivato dopo 11 mesi. Per le opposizioni, il ritardo con cui le istituzioni italiane si sono mosse si deve anche all’imbarazzo della presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel dover manifestare il proprio risentimento verso Viktor Orbán, il primo ministro ungherese sovranista ed euroscettico con cui Meloni sta imbastendo un’alleanza politica in vista delle prossime elezioni europee. Meloni ha inoltre più volte difeso in passato Orbán quando veniva accusato dall’Unione Europea di violare le norme sullo stato di diritto, anche per la mancanza di indipendenza della magistratura ungherese rispetto al potere politico. Martedì sera Meloni ha infine fatto sapere di avere telefonato a Orbán per un colloquio in preparazione del Consiglio Europeo di giovedì e venerdì, quando si riuniranno a Bruxelles i capi di stato e di governo dei paesi dell’Unione, e di avere con l’occasione parlato anche del caso di Salis.
Resta tuttavia da capire come mai i primi atti formali da parte della diplomazia italiana per protestare contro il trattamento degradante riservato a Salis siano arrivati solo in questi ultimi giorni. Salis fu arrestata l’11 febbraio del 2023, con l’accusa di aver partecipato a pestaggi contro manifestanti neonazisti arrivati a Budapest da varie parti d’Europa per celebrare il cosiddetto “Giorno dell’onore”, cioè un’adunata in ricordo delle azioni militari compiute dalle SS naziste in Ungheria durante la Seconda guerra mondiale. Secondo quanto spiega Eugenio Losco, uno degli avvocati di Salis, due giorni dopo la notizia del suo arresto venne comunicata alle autorità diplomatiche italiane a Budapest, come succede di norma in questi casi.
Quale sia stato poi il coinvolgimento dei nostri diplomatici, e fino a che punto il governo italiano fosse informato della situazione di Salis, lo sappiamo principalmente da due fonti: in parte dal racconto dell’avvocato e del padre di Salis, e in parte dai resoconti ufficiali che il ministero degli Esteri ha fornito il 24 gennaio scorso in risposta alle interrogazioni parlamentari presentate a dicembre dai senatori Ivan Scalfarotto di Italia Viva e Ilaria Cucchi di Alleanza Verdi Sinistra.
Sappiamo dunque che il 14 febbraio del 2023 si tenne la prima udienza per Salis davanti al giudice per le indagini preliminari, e che vi partecipò anche un funzionario dell’ambasciata italiana, che in quell’occasione incontrò anche uno degli avvocati di Salis. Martedì Tajani, durante un’audizione alle commissioni Esteri del parlamento, ha detto che le immagini che mostrano Salis in catene «sono le prime immagini che sono state diffuse della detenuta». Sono le prime che sono state diffuse pubblicamente, ma non sono certo una sorpresa: il padre di Salis dice che la figlia è stata portata in aula sempre con manette e catene, oltre a una specie di guinzaglio per detenuti (è stato descritto così per il modo in cui viene tenuto in mano dagli agenti). L’avvocato Losco conferma questa versione, spiegando del resto che «quella è la modalità normale con cui i detenuti in attesa di giudizio vengono portati dal carcere nelle aule di tribunale e viceversa, in Ungheria».
Dal momento che alla prima udienza aveva partecipato anche un funzionario dell’ambasciata italiana, i diplomatici italiani e quindi il ministero degli Esteri avrebbero dovuto essere al corrente del trattamento che veniva riservato a Salis almeno dal 14 febbraio del 2023. Un periodo durante il quale i giudici ungheresi hanno sempre prolungato la detenzione cautelare di Salis, tuttora in corso, ritenendo cioè che dovesse restare in carcere anche se in attesa di un giudizio nei suoi confronti.
Per alcuni mesi questo regime di detenzione è stato particolarmente restrittivo, tanto che la possibilità di Salis di comunicare con l’esterno era quasi inesistente: la procura ungherese aveva motivato questa scelta spiegando che fosse necessaria per condurre le indagini in sicurezza. A marzo il padre di Salis aveva scritto una lettera al governo italiano, intestandola alla presidenza del Consiglio e a vari ministeri, per denunciare il caso e sollecitare un intervento delle nostre istituzioni in favore della figlia.
Il ministero degli Esteri ha riferito che a quel punto, «grazie alla costante opera di sensibilizzazione dell’ambasciata a Budapest», questo regime di detenzione è stato «in parte allentato», e così a Salis era stato consentito di «avere contatti regolari con i genitori attraverso visite e chiamate via internet». Quando i genitori di Salis erano stati ricevuti all’ambasciata italiana a Budapest, il 21 novembre scorso, avevano confermato i colloqui telematici.
Dal momento in cui è stato allentato il regime carcerario, un diplomatico italiano in servizio a Budapest ogni venerdì di norma sente Salis per telefono. In tutte le udienze che si sono tenute in questi mesi il personale dell’ambasciata è sempre stato presente. E il modo in cui Salis è stata portata in aula è sempre stato lo stesso: manette e catene. Inoltre, i funzionari dell’ambasciata hanno svolto ogni mese delle regolari visite in carcere per portarle ciò di cui aveva bisogno, riscontrando però dei grossi ritardi nella consegna di beni di prima necessità e dei prodotti igienici e sanitari richiesti da Salis, come ad esempio gli assorbenti.
I genitori di Salis, stando a quanto riferisce il padre, hanno saputo del trattamento non dignitoso che Ilaria subiva in carcere solo il 12 ottobre, quando a riferirglielo fu la loro stessa figlia tramite una lettera in cui descriveva le condizioni in cui era detenuta. Tra dicembre e gennaio gli stessi funzionari dell’ambasciata italiana a Budapest avevano inviato una nota formale alle autorità ungheresi per protestare contro le condizioni di detenzione: il Post ha chiesto al ministero degli Esteri maggiori chiarimenti su questa nota, ma non ha ancora ricevuto una risposta. È stato necessario un intervento specifico dell’ambasciata anche per garantire cibo sano a Salis, e lo si è potuto ottenere solo evidenziando la necessità della donna di seguire una dieta particolare per via di alcune sue intolleranze e allergie alimentari.
«Per noi, il problema è duplice. Da un lato, l’ambasciata italiana in Ungheria che non ha informato il governo. Dall’altro, il governo che, nonostante le nostre sollecitazioni, non ha nemmeno chiesto», dice Peppe Provenzano, responsabile Esteri del Partito Democratico.
Martedì mattina l’ambasciatore italiano in Ungheria, Manuel Jacoangeli, ha incontrato per la prima volta la ministra della Giustizia del governo Orbán, Judit Varga, per parlargli del caso di Salis. Varga ha preso tempo, ha detto a Jacoangeli che avrebbe dovuto prima confrontarsi col procuratore generale che segue la vicenda. Sulla possibilità di trasferire Salis in Italia invece Tajani si è mostrato piuttosto scettico, e nel riferire in parlamento l’esito del colloquio tra Jacoangeli e Varga ha spiegato che la ministra ha sottolineato come «il reato di cui è accusata» Salis «crea problemi nell’opinione pubblica ungherese».
Anche sulla base di questo dato, lo staff di Tajani dice informalmente che sarebbe opportuno evitare l’eccessiva politicizzazione del dibattito: Orbán avrebbe a quel punto molta difficoltà a mostrarsi cedevole alle richieste del governo italiano, perché il suo elettorato più intransigente e tendenzialmente di destra non lo apprezzerebbe. Gli italiani detenuti all’estero sono 2.455, e della stragrande maggioranza di loro si parla pochissimo, anche di quelli che si trovano in paesi poco rispettosi dei diritti umani e dei detenuti.