Nel parlamento britannico si dicono sempre più parolacce
Fino a non troppi anni fa dirle alla Camera dei Comuni era considerato un fatto abbastanza grave: oggi sono molto più utilizzate
Ogni mercoledì alla Camera dei Comuni, la principale assemblea del parlamento britannico, si tiene l’appuntamento noto come Prime Minister’s Questions (PMQs), una sessione in cui i parlamentari possono rivolgere al primo ministro domande specifiche e ricevere una risposta immediata. Le PMQs sono un appuntamento particolarmente seguito anche per la ritualità che lo accompagna, caratterizzata da alcuni elementi ricorrenti: gli scambi rapidi e ironici tra i politici dell’opposizione e il primo ministro, il tifo con urla e risate tra i due schieramenti e ovviamente le critiche, che sono spesso molto accese ma che, almeno in teoria, non dovrebbero mai essere volgari.
Durante la sessione di PMQs della scorsa settimana Keir Starmer, il leader dei Laburisti, ha però disatteso questa consuetudine, facendo parlare di sé per i toni poco educati con cui si è rivolto al primo ministro Conservatore Rishi Sunak. Tra le altre cose, Starmer ha ripreso una citazione anonima riportata dal quotidiano britannico Times in cui le politiche di sostegno all’infanzia del governo venivano definite uno “shitshow” (letteralmente “spettacolo di merda”, che si può tradurre con “uno schifo”).
Il regolamento della Camera dei Comuni prevede che il presidente dell’assemblea possa richiamare i delegati che utilizzano espressioni rientranti nel cosiddetto «linguaggio antiparlamentare», come per l’appunto le imprecazioni. Tuttavia, è prevista un’eccezione a questa regola: si possono pronunciare parolacce o insulti estrapolati da altre fonti, come in teoria ha fatto Starmer riprendendo la citazione del quotidiano Times. Di conseguenza, di fatto imprecare in parlamento è consentito: basta citare qualcuno che lo abbia già fatto prima.
L’espressione citata da Starmer ha stimolato un dibattito piuttosto singolare sulla tendenza dei parlamentari britannici a eccedere nell’utilizzo di parolacce, espressioni volgari e imprecazioni, che secondo il registro ufficiale del parlamento britannico negli ultimi anni è aumentata in maniera significativa (per quanto molto ridotta in numeri assoluti).
Per esempio a novembre, durante una sessione di PMQs, il ministro dell’Interno britannico James Cleverly era stato accusato da un parlamentare di aver descritto la città inglese di Stockton come uno “shit hole” (“buco di merda”). «Penso che le imprecazioni siano solo una conseguenza della ridicola politica britannica degli ultimi anni», ha detto a Politico la deputata del Partito Nazionale Scozzese Mhairi Black, che l’anno scorso era stata rimproverata dalla vicepresidente della Camera dei Comuni Rosie Winterton per via del suo linguaggio colorito. In particolare, Black aveva utilizzato la parola “pished” (“ubriaco”) per criticare le politiche adottate dal governo di Boris Johnson durante la pandemia da coronavirus: era la prima volta che quella parola veniva utilizzata in parlamento.
Un ex parlamentare ha affermato in un’intervista sempre a Politico che, ultimamente, la Camera dei Comuni è diventata «un luogo un po’ più informale», e che oggi l’utilizzo di determinate parole è molto più tollerato rispetto al passato. Per esempio la parola “fuck” è stata inserita nei verbali parlamentari 13 volte, nove delle quali a partire dal 2017, mentre “cunt” (una delle espressioni considerate più offensive dall’opinione pubblica britannica, con cui si definisce spregiativamente l’apparato genitale femminile) è apparsa tre volte, tutte negli ultimi sei anni.
Luke Tryl, direttore della società di comunicazione More in Common, che tra le altre cose si occupa di analizzare le reazioni dell’opinione pubblica alle espressioni utilizzate dai politici, ha detto che l’opinione pubblica reagisce in modi molto diversi alle imprecazioni dei parlamentari: c’è chi le apprezza perché le considera parte di un modo di esprimersi più diretto e chi le condanna, perché vede nella libertà di utilizzare un linguaggio volgare senza subire alcuna conseguenza un privilegio.