È giusto mentire ai propri figli?
Condurre studi sugli effetti a lungo termine è complicato, per ragioni pratiche ed etiche, ma alcune osservazioni suggeriscono di limitare le bugie
La relazione con i propri figli è uno dei rapporti umani in cui il ricorso occasionale alla menzogna è più tollerato e, in qualche misura, più comprensibile. Tendiamo a considerare i bambini emotivamente più vulnerabili rispetto agli adulti, e di conseguenza siamo portati a pensare che almeno una parte delle bugie a loro rivolte rientri nella casistica delle cosiddette bugie a fin di bene: bugie, o mezze verità, dette con l’intenzione di evitare dispiaceri. Ma non è sempre facile per un genitore capire se una bugia sia di questo tipo, o se sia evitabile.
In una rubrica del Washington Post sulle questioni familiari la giornalista Amy Dickinson ha recentemente pubblicato la lettera di un padre che afferma di non sapere come comportarsi con il proprio figlio di 4 anni, che ha cominciato a praticare alcuni sport ma non sembra molto portato (e ai suoi genitori va benissimo così). Sia il padre che la madre del bambino, ex sportivi di discreto livello, si sono chiesti cosa rispondere al figlio quando alla fine delle partite chiede loro come ha giocato, anche quando è ovvio che ha giocato male. «Immagino che potremmo mentirgli, ma non ci sentiamo a nostro agio nel farlo. Lodare troppo un bambino non crea problemi?», ha chiesto il padre.
Non esiste una risposta valida per tutti i casi, alla domanda se e fino a che punto sia giusto mentire ai propri figli. Per lungo tempo sono mancati studi specifici di psicologia su questa pratica comune, perché la ricerca in questo particolare ambito è limitata da una serie di ragioni pratiche ed etiche che rendono complicato studiare gli effetti a lungo termine delle bugie dette ai figli. In un articolo pubblicato a dicembre sulla rivista Current Directions in Psychological Science un gruppo di ricercatori e ricercatrici dei dipartimenti di psicologia della Nanyang Technological University di Singapore, della University of California San Diego e della University of Toronto ha comunque riassunto e approfondito la ricerca esistente sulla pratica di mentire ai propri figli, fornendo una serie di informazioni sul fenomeno e di indicazioni su come migliorare gli studi.
Il gruppo ha riscontrato una correlazione tra la tendenza dei genitori a mentire e una serie di condizioni psicosociali negative nei bambini, ma ha affermato che non è possibile stabilire una causalità tra i due fenomeni. La comprensione degli effetti di questo modello educativo «è attualmente agli inizi, con molte domande senza risposta», hanno scritto i ricercatori e le ricercatrici. Hanno inoltre segnalato la necessità di ulteriori studi per rendere più completa e soprattutto più sfumata la descrizione dei contesti e delle circostanze in cui i genitori mentono ai propri figli, e chiarire quanto le menzogne siano effettivamente un fattore influente nello sviluppo dei bambini.
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Al di là delle conclusioni, che il gruppo stesso suggerisce di prendere con le pinze, l’articolo ha cercato di descrivere in modo schematico le diverse situazioni in cui i genitori sono portati a mentire ai propri figli. Ne ha individuate quattro, distinte sulla base delle intenzioni del genitore.
Uno dei casi più frequenti è proprio quello descritto dal papà del bambino di 4 anni che ha scritto al Washington Post: mentire per evitare tristezza e dispiacere al bambino o alla bambina. Può succedere dopo aver ascoltato il proprio figlio suonare male una canzone al pianoforte, per esempio. Ma è molto frequente anche nel caso della morte di un animale domestico: una circostanza in cui i genitori a volte raccontano ai propri figli storie verosimili, che il loro animale domestico è andato a vivere in una fattoria, o cose del genere.
I genitori mentono spesso ai propri figli anche quando vogliono o sentono di dovere sostenere una certa narrazione immaginaria, come il topolino dei denti e Babbo Natale: perché credono che quella narrazione possa rendere migliore l’infanzia dei bambini e di conseguenza i ricordi dell’infanzia. I ricercatori e le ricercatrici hanno posto l’attenzione sul fatto che queste bugie non hanno tanto lo scopo di influenzare direttamente i bambini, quanto quello di integrarli in una comunità che condivide le stesse storie.
Un altro tipo di bugia molto frequente rivolta ai propri figli ha l’obiettivo di ottenere un determinato comportamento. Spesso sono false minacce: «se continui a maltrattare tua sorella, chiamo la polizia e ti portano in prigione», per esempio. Altre volte sono false promesse: «se finisci i compiti, ti porto a Disneyland».
C’è poi il caso in cui i genitori mentono ai propri figli per evitare a sé stessi l’imbarazzo di ammettere di non conoscere la risposta: «il cielo è blu perché blu è il colore preferito degli uccelli», per esempio. Tuttavia, osserva il gruppo di ricerca, proprio questo ultimo tipo di bugia mostra quanto sia difficile in generale individuare con precisione le intenzioni alla base delle bugie dette ai figli. A volte le persone intervistate negli studi non ricordano le vere ragioni per cui hanno mentito, o sono poco disposti a riconoscerle. Altre volte considerano bugie affermazioni palesemente false che non sono bugie, ma piuttosto metafore: dire alla propria figlia «ho gli occhi anche dietro la testa», per esempio, con l’obiettivo di indurla a comportarsi bene anche se è alle spalle del genitore.
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Le bugie descritte dalla maggior parte della ricerca su questo tema riguardano argomenti poco importanti, hanno scritto gli autori e le autrici dell’articolo, ma i genitori mentono anche su argomenti più seri, in cui «la posta in gioco può essere più alta e le intenzioni più complesse». Il caso di alcune bugie dette ai figli adolescenti per nascondere patologie o abusi di sostanze, per esempio, presenta diverse sfumature e può essere più difficile da valutare. Se un genitore afferma falsamente di non aver mai fatto uso di sostanze, con l’intenzione di rafforzare determinati avvertimenti o divieti, dice una bugia che può rientrare nei tipi analizzati dal gruppo di ricerca. Ma se lo fa invece per ragioni personali di riservatezza, e non con l’intenzione di influenzare il proprio figlio, dice una bugia diversa.
Nel pensiero filosofico occidentale la menzogna è un concetto con molte sfumature, ma interpretato sul piano morale in due modi principali contrapposti: uno cosiddetto «deontologico» e uno «utilitaristico». Secondo l’interpretazione deontologica, ricondotta al filosofo tedesco Immanuel Kant, mentire non è mai giustificato. «La veridicità nelle dichiarazioni che non si possono eludere è un dovere formale dell’essere umano nei confronti di ognuno, per quanto grande possa essere lo svantaggio che ne deriva», scrisse Kant in un saggio del 1797.
In linea di principio, se un uomo armato entrasse in un locale chiedendo di una persona entrata poco prima di lui e che lui stava inseguendo, mentirgli sul nascondiglio sarebbe sempre inaccettabile sul piano deontologico. Secondo la tradizione utilitaristica, ricondotta al filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham, mentire non è invece intrinsecamente sbagliato: dipende dalla conseguenze della menzogna. Una certa azione è moralmente giusta se ne traggono beneficio le persone il cui benessere può essere influenzato da quella azione, in un modo o nell’altro.
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Le menzogne ai bambini sono state a lungo considerate un caso speciale, come ha ricordato lo psicologo statunitense Stuart Vyse sulla rivista Skeptical Inquirer. Per il filosofo e giurista olandese del XVII secolo Ugo Grozio, è lecito mentire ai bambini perché a differenza degli adulti non hanno «libertà di giudizio». Per la filosofa statunitense di origini svedesi Sissela Bok, autrice del libro Mentire. Una scelta morale nella vita pubblica e privata, le bugie ai bambini rientrano nella categoria generale delle «menzogne paternalistiche».
Sebbene sia facile immaginare situazioni in cui sia consigliabile mentire ai propri figli per proteggerli da ciò che percepiamo come un pericolo, secondo Bok i bambini sanno elaborare la verità in modo più efficace di quanto crediamo. Esiste poi un’asimmetria tra i genitori e i figli riguardo al consenso a essere ingannati. Mentre i primi possono dire a un figlio o a una figlia una frase del tipo «se mai dovessi avere una relazione, per favore non dirmelo», generalmente i bambini non sono in grado di dare un consenso informato di questo tipo. I genitori sono quindi portati ad aggirare questo ostacolo presupponendo che con il senno di poi i bambini accetterebbero di farsi ingannare. Ma questo consenso tacito e «retroattivo» non è un vero consenso, scrive Bok.
Le giustificazioni delle bugie paternalistiche basate sul consenso tacito possono essere influenzate da altri interessi personali, e l’idea che siano a fin di bene è spesso poco oggettiva. «Le motivazioni altruistiche sono frammiste ad altre che lo sono molto meno», scrive Bok, citando la paura del confronto, il desiderio di evitare cambiamenti e «l’impulso a mantenere il potere che deriva dall’ingannare gli altri», soprattutto se le persone a cui si mente sono viste come indifese. Sebbene sia improbabile riuscire a evitarle del tutto, conclude Bok, faremmo comunque bene a limitare le bugie paternalistiche il più possibile.
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Ovviamente è più facile immaginare esperimenti mentali utili per discutere le implicazioni morali delle bugie, che condurre lunghi e affidabili studi di psicologia, ha scritto Vyse. Un esperimento ideale dovrebbe seguire due gruppi distinti di famiglie per anni, chiedere ai genitori di un gruppo di mentire sempre e a quelli dell’altro gruppo di non mentire mai ai propri figli. E dovrebbe controllare ognuna di queste condizioni nel corso del tempo. Sarebbe insomma non soltanto molto oneroso, ma «completamente immorale e probabilmente impossibile».
Descrivendo i limiti metodologici della ricerca esistente sulle bugie dei genitori ai figli, gli autori e le autrici dell’articolo pubblicato su Current Directions in Psychological Science hanno specificato che la maggior parte degli studi si basa su metodi di autovalutazione da parte di soggetti adulti ai quali veniva chiesto di ricordare il comportamento dei loro genitori. In interviste del genere non è detto che le persone siano in grado di ricordare con precisione ciò che raccontano della propria infanzia. E non sono necessariamente più affidabili nemmeno gli studi che coinvolgono partecipanti non adulti, tra cui uno studio recente su 564 bambini tra 11 e 12 anni a Singapore.
Indipendentemente dal fatto che le segnalazioni siano raccolte in modo retrospettivo o parlando direttamente con i bambini, «le persone possono essere motivate a descrivere gli eventi in modo egoistico, o non riuscire a segnalare eventi che ritengono possano creare un’impressione negativa», hanno scritto le ricercatrici e i ricercatori. Ciononostante, in attesa di un’espansione della letteratura scientifica sulle bugie dette dai genitori ai propri figli, l’analisi di quella esistente ha permesso al gruppo di ricerca di ricavare una serie di informazioni.
La pratica di mentire ai propri figli, per esempio, sembra piuttosto diffusa in tutto il mondo, con poche differenze sostanziali tra un paese e l’altro. Gli studi che hanno preso in considerazione le variabili demografiche hanno inoltre scoperto alcuni fattori che non sembrano influenzare le probabilità di mentire ai propri figli. Non sono rilevanti il genere del bambino o della bambina, né le opinioni politiche dei genitori, né il numero di figli nel nucleo familiare. È emerso anche che i genitori che affermano di impegnarsi molto nell’insegnare ai propri figli che mentire è sbagliato, rispetto a quelli che non lo affermano, non sono meno inclini a mentire ai propri figli.
Uno degli studi citati dal gruppo suggerisce che la tendenza dei genitori a mentire ai propri figli con l’intenzione di prevenire comportamenti pericolosi tenda a ridursi man mano che i bambini crescono. Probabilmente ciò accade perché da un certo punto in poi i genitori preferiscono responsabilizzare i propri figli permettendo loro di sviluppare la capacità di prendere decisioni in autonomia.
Diversi studi indicano infine una serie di rischi correlati alla pratica di mentire ai propri figli: è stato ipotizzato, per esempio, che possa stimolare nei bambini una successiva tendenza a mentire da adulti. Altri ricercatori e ricercatrici hanno suggerito che le menzogne potrebbero condizionare la relazione tra genitori e figli indebolendo il reciproco rapporto di fiducia. E hanno riscontrato una correlazione tra la tendenza a mentire e la presenza di stress, ansia e sintomi depressivi nei bambini durante l’adolescenza.
Gli autori e le autrici dell’articolo pubblicato a dicembre hanno tuttavia ribadito che i risultati degli studi dovrebbero essere interpretati con molta cautela. Prima di tutto perché molti esperimenti valutavano gli effetti a breve termine delle bugie, ma non quelli a lungo termine, probabilmente condizionati da altre variabili che influenzano il rapporto tra genitori e figli. Molti limiti degli studi dipendono inoltre dal fatto che non considerano le sfumature, e trascurano le differenti intenzioni dei genitori quando le usano con i propri figli.
Al padre preoccupato di mentire troppo al figlio di 4 anni non abbastanza bravo nello sport, Dickinson ha risposto che non pensa «sia possibile elogiare eccessivamente un bambino entusiasta di 4 anni». Gli ha suggerito di chiedersi perché il bambino cerca elogi: se lo fa perché è ansioso e vuole essere rassicurato, o se lo fa perché crede di essere bravissimo e cerca approvazione. In generale gli ha consigliato di concentrare l’attenzione del figlio su altri aspetti, ponendo domande del tipo «Ti sei divertito oggi?», «Hai fatto del tuo meglio?» e «Hai prestato attenzione a cosa diceva l’allenatore?». Oppure di esprimere apprezzamenti più specifici, del tipo «Ti abbiamo visto correre moltissimo».