La rimozione del sesso dal carcere
È un diritto fondamentale, ma trascurato per ragioni sia pratiche che ideologiche: se ne riparla dopo una recente sentenza della Corte Costituzionale
di Giulia Siviero
L’Italia non ammette che le persone detenute possano avere incontri intimi consensuali con chi desiderano. L’ultimo tentativo per modificare la situazione risale al 2020, quando alla Commissione giustizia del Senato venne sottoposto il disegno di legge numero 1876 per introdurre e regolare le relazioni affettive e sessuali dentro gli istituti penitenziari: prevede il diritto all’affettività e una visita prolungata al mese, in apposite unità abitative, senza controlli audio o video. Il testo era stato scritto nel 2019 dalla Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà ed era stato poi sottoposto ai consigli regionali perché lo portassero in Parlamento, cosa che decise di fare la Toscana. Il disegno di legge si trova ancora in Commissione e il diritto alla sessualità nelle carceri non è stato ancora garantito: è una questione molto seria, aperta ormai da vent’anni, che rimanda a principi costituzionali e su cui ci sono pronunce autorevoli sia a livello nazionale che europeo.
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La prima iniziativa per il riconoscimento dell’affettività e della sessualità dentro le carceri italiane risale al 1999, quando Alessandro Margara, a quel tempo direttore del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, propose di introdurre per le persone detenute la possibilità di trascorrere con i propri familiari fino a ventiquattro ore consecutive in apposite unità abitative realizzate all’interno degli istituti. Il Consiglio di Stato stabilì che sulla questione avrebbe dovuto decidere il Parlamento, e la soluzione venne rimossa dal testo definitivo del nuovo regolamento di attuazione dell’ordinamento penitenziario.
«Vogliamo tenere insieme cose che possono apparire impossibili, ma non devono esserlo, cioè un carcere vivibile in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre la perdita della libertà» aveva detto Margara durante l’audizione alla Commissione giustizia. Il principio che difendeva è stato poi ribadito da varie commissioni ministeriali, ed è sancito da almeno vent’anni da diverse istituzioni nazionali e internazionali. La Corte costituzionale italiana ha scritto nel 2012 di «una esigenza reale e fortemente avvertita» che «merita ogni attenzione da parte del legislatore»: la questione, ha scritto, trova nel nostro ordinamento una risposta soltanto parziale ed è invece riconosciuta da un numero sempre crescente di stati. La conclusione della Corte fu, però, che «la previsione dei cosiddetti “permessi d’amore” in carcere» dovesse derivare da «una scelta parlamentare».
Negli anni sono stati quindi presentati vari progetti di legge in merito sia alla Camera sia al Senato, ma nessuno ha mai avuto seguito. Anche per questa radicata resistenza, numerosi esperti parlano di una «silente, ma indiscutibilmente consapevole, volontà del legislatore tesa a impedire l’emersione del diritto» o di un «dispositivo proibizionista» efficace e operante da sempre.
La legge numero 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario (riformata in alcuni passaggi nel 2018) dice che il diritto delle persone detenute alla relazione affettiva si esercita attraverso la corrispondenza epistolare, le telefonate, la preferenza per la detenzione in un istituto di pena territorialmente vicino alla residenza, i colloqui e i permessi. La sessualità – pur essendo una manifestazione dell’affettività – non viene nominata nella legge.
Il principale strumento per mantenere i rapporti affettivi in presenza sono i colloqui: hanno però un tempo ridotto, di regola un’ora, e si svolgono spesso in sale affollate e rumorose, dove non è garantita la riservatezza e dove è vietato qualsiasi gesto affettuoso. La riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018 ha specificato che i locali destinati ai colloqui dovrebbero favorire «ove possibile, una dimensione riservata» ma la legge prevede ancora che sia obbligatorio e inderogabile il controllo a vista da parte degli agenti di custodia, per ragioni di sicurezza, e la gran parte delle strutture è completamente inadeguata in questo senso.
Svetlana, Gena, Sandra, Licia si domandano: ma chi può pensare che i colloqui bastino davvero a soddisfare il bisogno di amore di una persona detenuta? […] Ma davvero si può pensare che «il colloquio è affettività»?
Molte volte ci vergogniamo di andare al colloquio con i nostri familiari, tanto è triste e degradante il posto. L’ambiente, ovvero quella stanzetta spoglia che dovrebbe in realtà riunire un nucleo familiare o comunque delle persone accomunate da un legame di affetto, è nettamente diviso in due da un freddo «tavolaccio». Il tavolo è abbastanza largo da costringerci a faticare per poterci tenere strette le mani. […]
Quell’ora a settimana, in condizioni così assurde, a noi dovrebbe bastare per sopperire a tutti i nostri bisogni di affetto e alla necessità di comunicare con le nostre famiglie, o comunque con le persone a noi vicine. Senza contatti fisici, senza gesti affettuosi, senza carezze, senza un bacio, perché tutto questo non è previsto dai regolamenti.
(Dalla rivista del carcere di Padova Ristretti orizzonti, testimonianza di alcune donne recluse nel carcere della Giudecca a Venezia)
La legge del 1975 prevede che per «coltivare interessi affettivi» siano concessi dei permessi premio in cui le persone detenute possono trascorrere un breve periodo a casa (non vengono però dati con facilità e riguardano una quota minoritaria di persone). La soluzione al problema della sessualità verrebbe quindi trovata in eventuali parentesi fuori dal carcere. In uno studio spesso citato sul tema, il giurista Andrea Pugiotto scrive che la sessualità è l’unico aspetto della vita dentro il carcere che non è oggetto di una esplicita disciplina, legislativa o regolamentare: non esiste insomma una norma che tratti l’argomento. Pugiotto sostiene che questo produca «diversi e profondi strappi al tessuto costituzionale»: ai diritti inviolabili della persona umana (articolo 2), al diritto al mantenimento dei rapporti affettivi e familiari (articoli 29, 30, 31), alla tutela della salute psicofisica (articolo 32) e al principio della finalità rieducativa della pena e ai suoi principi di umanità (articolo 27).
La riforma penitenziaria del 1975 fu molto importante: sostituì definitivamente il regolamento carcerario fascista del 1931 e i principi che lo ispiravano. Il carcere passò dall’essere un sistema basato esclusivamente su punizioni, privazioni e sofferenze all’avere – sulla carta – finalità rieducative e risocializzanti, ovvero dedicate a produrre un risultato favorevole al bene dei singoli e della comunità, come era già scritto nella costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
Il nuovo ordinamento penitenziario stabilì che la pena dovesse avere tra i propri obiettivi il reinserimento sociale, pose alla base l’umanità e la dignità e riconobbe alla persona detenuta (chiamata da lì in poi per nome e cognome e non più con un numero di matricola) una propria soggettività, con diritti e aspettative che corrispondevano ai valori tutelati dalla costituzione. Stabilì, insomma, che la perdita della libertà conseguente alla detenzione non debba compromettere alcun diritto fondamentale dell’essere umano. E la sfera affettiva, anche nella sua espressione fisica, è tra i diritti inviolabili della persona, come affermano anche la costituzione, la giurisprudenza europea e quella di altri paesi.
Nel 2012, alcuni detenuti dal carcere di Carinola, in provincia di Caserta, spiegarono in un documento che solo dopo una riflessione sulle finalità della pena si poteva esprimere un giudizio obiettivo sulla questione dell’affettività e della sessualità dentro il carcere:
Se la pena ha solo una funzione punitiva e retributiva, allora ci sta tutto: privazioni, sofferenze, tortura, castigo e supplizio. Se invece, le finalità che la costituzione assegna alla pena sono da un lato quella di prevenzione generale e di difesa sociale […] e dall’altro quella di prevenzione speciale e di risocializzazione sociale del reo, allora l’affettività in carcere è uno degli elementi fondamentali del trattamento rieducativo.
Nonostante sulla carta siano stati fissati dei principi e l’istituzione carceraria si sia evoluta, il carattere corporale della pena non è stato espulso dalle galere: il sovraffollamento (parola che è già il rafforzativo di un eccesso), le condizioni igieniche precarie e l’assistenza sanitaria insufficiente sono esperienze sofferte quotidianamente dai corpi di detenuti e detenute. E poi c’è la forzata privazione sessuale, che può essere a vita nel caso dell’ergastolo, che è un altro elemento della condanna inflitta anche ai familiari e che viene praticata sistematicamente nonostante nessuna pena la preveda. L’astinenza sessuale coatta è una vera e propria pena accessoria e si trasforma in una punizione corporale di ritorno.
Alla base di tutto, ci sarebbe la nostalgica convinzione che il carcere debba essere castigo o afflizione, e che la perdita della libertà sia solo la premessa della pena. La relazione sessuale sarebbe dunque un lusso, un premio, un privilegio, non un diritto fondamentale.
Adriano Sofri, giornalista e scrittore, ha scritto e detto molto sul diritto all’affettività e alla sessualità dentro le carceri, fin da quando la questione lo riguardava direttamente, da detenuto. Ma preferisce non chiamarlo un diritto, «un po’ perché la parola è abusata nel nostro tempo», ma soprattutto perché «impedisce di vedere che voler inibire la sessualità ai carcerati è esattamente paragonabile al volergli impedire di sgranchirsi le membra, di dormire, perfino di mangiare. La partita sul sesso in carcere mostra la concezione che una società ha del sesso, dichiarata o no, e si gioca su una contrapposizione: tra chi ritiene la sessualità una dimensione naturale e necessaria della persona, e chi la ritiene una concessione, un di più, un vizio, un peccato».
La reazione più diffusa al diritto alla sessualità tra gli addetti penitenziari è figlia di questa stessa lettura «viziosa» del sesso. Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, spiega: «Io ritengo che il paese non sia pronto ad avere questo tipo di approccio. Poi è da distinguere l’affettività dalla sessualità: sul primo siamo d’accordo, sul curare i rapporti familiari per non disperdere i legami, ma a fare i postriboli in carcere non ci sto.» Capece rafforza la sua argomentazione citando la posizione di alcuni detenuti di Rebibbia: «Ad alcuni detenuti all’antica sembrava un disonore portare in carcere “le loro donne”, esporle allo sguardo degli altri.» Ma resta il fatto che quella di una relazione sessuale sarebbe una possibilità, di cui liberamente avvalersi oppure no.
Capece ha anche altre argomentazioni: «Le carceri sono sovraffollate, dovremmo costruire i monoblocchi dove consegnare la chiave al detenuto per ricevere la visita senza nessun controllo? E se succede qualsiasi fattaccio?» Chi pensa che il diritto alla sessualità non debba entrare in carcere usa molto spesso le obiezioni che hanno a che fare con l’inadeguatezza delle strutture e con i rischi per la sicurezza. Il primo argomento, per continuare a negare un diritto sfrutta un problema strutturale che già da decenni dovrebbe essere risolto (anche secondo Capece); i potenziali problemi di sicurezza sembrano poi essere stati superati – o comunque non costituire un motivo sufficiente – nei moltissimi paesi in cui questa opportunità è prevista.
Capece suggerisce però di «preoccuparsi degli “altri” cittadini, i poliziotti penitenziari che non avendo commesso alcun reato scontano comunque una pena. Guarderei insomma ad altre problematiche» dice «non ai capricci di qualche politico che non conosce il carcere e che lo vede con un occhio solo. Mi preoccuperei di creare strutture detentive dignitose, la sessualità non è un problema. La proposta del sindacato è che vengano dati più permessi in modo che le persone vadano dalle loro famiglie, sul territorio, piuttosto che predisporre il carcere per dar vita a questo tipo di sentimento». E aggiunge che «la sessualità va data ai soggetti meritevoli».
Le conseguenze negative che derivano dalla deprivazione affettiva e sessuale sono note almeno da quando, all’inizio degli anni Novanta, il medico francese Daniel Gonin studiò gli effetti patogeni della detenzione nella prigione di Lione. Moltissimi studi, ricerche e testimonianze successive parlano di profondi cambiamenti nell’identità della persona, mancanza di risorse, sostegno, difficoltà nel reinserimento sociale e una specie di desertificazione affettiva, relazionale e umana.
«Alla pena della reclusione a cui si è condannati si applicano pene accessorie che non vengono scritte nella sentenza, ma di fatto fanno parte della condanna […] La persona ristretta viene fermata a livello emotivo al momento in cui entra in carcere e, venendole a mancare la possibilità di fare qualsiasi esperienza a questo livello, è abbastanza naturale che regredisca a uno stadio infantile. Quando per anni questo vuoto che si viene a creare non può essere alimentato da momenti vissuti, ma solo da fantasie, il vuoto diventa un buco nero, […] rende insicuri, indifesi, incapaci di gestire la parte pulsionale ed emotiva di se stessi».
Anche nelle carceri la negazione di una sessualità liberamente vissuta convive con la tolleranza e il silenzio verso forme di sessualità compensative o violente che spesso determinano sopraffazioni e coazioni. Il contesto unisessuato del carcere può portare a forme di adattamento della propria sessualità, all’«omosessualità indotta», come viene chiamata, e che non è il risultato di una libera e consapevole espressione del proprio orientamento sessuale, ma è legata a un processo di spersonalizzazione e rassegnazione.
L’annientamento della dimensione sessuale imposto in carcere contribuisce al processo di regressione e di infantilizzazione delle persone detenute. Come bambine e bambini, hanno una libertà d’azione limitata, sono sorvegliate a vista, perdono la capacità di autodeterminazione e sono portate a vivere l’autoerotismo in modo non libero e secondo modalità adolescenziali:
Devi pianificare tutto, l’orario è importante, devi calcolare il tempo che la guardia passa a controllare se ci sei o se ti sei impiccato, e se è passata l’infermiera con la terapia; poi con passo leggero, oserei dire astuto, ti guardi intorno ed entri in bagno, ti chiudi la porta per modo di dire, perché lo spioncino del bagno deve rimanere aperto per i controlli, ti sbottoni i pantaloni ed inizia la delicata operazione ma sempre con un orecchio nel corridoio e così inizia la lotta titanica fra la voglia di concentrarsi e la paura che la guardia ti becca in flagranza…
(Carmelo Musumeci, nella tesi di laurea dal titolo “Vivere l’ergastolo”, 2005)
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Questo articolo è uscito sul quarto numero di “Cose spiegate bene”, la rivista di carta del Post, dedicato alla giustizia.