La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il divieto all’affettività e alla sessualità in carcere
L'ordinamento penitenziario italiano di fatto le impedisce entrambe, imponendo il controllo a vista sui colloqui con coniugi e conviventi
Venerdì una sentenza della Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il divieto assoluto all’affettività (e quindi anche alla sessualità) in carcere, che in Italia esiste di fatto per via di una norma che impone il controllo a vista sui detenuti durante i colloqui con i loro coniugi o conviventi. Ai colloqui infatti devono sempre assistere gli agenti di polizia penitenziaria, anche se non possono ascoltare le conversazioni: questo però di fatto limita molto il diritto all’affettività dei detenuti, escludendo soprattutto ogni forma di sessualità.
La Corte in particolare ha dichiarato illegittima una parte dell’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, quella che stabilisce che i colloqui debbano sempre avvenire «sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia»: così formulata, infatti, la norma si applica a tutti i detenuti senza distinzioni, anche quando non ci sono ragioni che giustifichino una sorveglianza di questo genere sui colloqui. Secondo la Corte i detenuti dovrebbero insomma avere diritto a incontri più intimi e isolati con i propri partner durante i colloqui in carcere, a meno che non ci siano motivi particolari per applicare un controllo maggiore, come una disposizione del giudice o pericoli per la sicurezza valutati tenendo conto del comportamento in carcere del detenuto.
Dichiarando in parte illegittimo l’articolo 18, comunque, la Corte non lo annulla né ne altera il funzionamento: la sua posizione però è un invito molto rilevante a cambiare le norme che regolano la materia.
È una sentenza importante: in Italia si discute da anni di diritto all’affettività e alla sessualità dei detenuti, anche per via di varie sollecitazioni arrivate a livello nazionale ed europeo, sia sotto forma di iniziative e appelli che sotto forma di giurisprudenza. Per anni è stato fatto notare che il riconoscimento di questo diritto si ispira ai principi costituzionali e ai regolamenti europei e italiani sulle carceri, che vietano i trattamenti inumani e degradanti e tutelano il diritto al rispetto della vita privata e familiare dei detenuti.
La sentenza della Corte Costituzionale riconosce la validità di questi argomenti. L’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario viene definito contrario agli articoli 3 e 27 (terzo comma) della Costituzione: il primo stabilisce la pari dignità sociale di tutti i cittadini e attribuisce allo Stato il compito di rimuovere gli ostacoli alla loro libertà, uguaglianza e al «pieno sviluppo della persona umana»; il secondo dice che le pene «non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
Le conseguenze negative che derivano dalla deprivazione affettiva e sessuale sono note da decenni, da quando, all’inizio degli anni Novanta, il medico francese Daniel Gonin studiò in modo dettagliato gli effetti “patogeni” della detenzione nella prigione di Lione. Ci sono moltissimi studi, ricerche e testimonianze, e il venir meno dei legami affettivi ha un ruolo fondamentale: determina profondi cambiamenti nell’identità della persona, toglie risorse, sostegno, compromette il reinserimento sociale, produce una specie di desertificazione affettiva, relazionale e umana. Sono conseguenze incompatibili con l’obiettivo della rieducazione del condannato, per esempio.
Il diritto all’affettività e alla sessualità a cui fa riferimento la sentenza riguarda le coppie stabili, tutte: quelle derivanti da un legame matrimoniale, da un’unione civile o da una convivenza continuata nel tempo. Nella sentenza viene inoltre ricordato che la gran parte degli ordinamenti europei riconosce ai detenuti spazi di affettività e sessualità anche dentro le mura del carcere.
Negli anni ci sono state varie proposte di introdurre una legge sull’accesso al diritto all’affettività e alla sessualità dei detenuti, ma finora nessuna ha avuto seguito. Un disegno di legge del 2020 propose per esempio di far svolgere i colloqui in strutture apposite, controllate all’esterno ma garantendo l’assenza di controlli «visivi e auditivi» all’interno.
Secondo la sentenza della Corte Costituzionale inoltre l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario sarebbe in contrasto con l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), a cui l’Italia aderisce. L’articolo 8 dispone il rispetto alla vita privata e familiare delle persone e dice che non può essere violato da un’autorità pubblica, a meno che non sia previsto dalla legge e sia necessario alla pubblica sicurezza.
La Corte ha specificato che la sentenza non riguarda il 41-bis, il regime detentivo speciale anche noto come “carcere duro”, riservato in teoria a persone molto pericolose e che prevede una serie di limitazioni molto maggiori rispetto a quello degli altri detenuti. Non riguarda nemmeno il regime detentivo previsto dall’ordinamento penitenziario all’articolo 14-bis, che prevede una sorveglianza particolare ma per un periodo limitato.
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