Beniamino Zuncheddu, incarcerato ingiustamente per 32 anni, è stato assolto
Lo ha stabilito la Corte d'Appello di Roma, ribaltando una condanna all'ergastolo: è stato uno dei più gravi errori giudiziari della storia d'Italia
La Corte d’Appello di Roma ha assolto Beniamino Zuncheddu, un ex pastore sardo di 59 anni che era stato scarcerato a novembre dopo 32 anni di detenzione. Fu condannato all’ergastolo per l’uccisione di altri tre pastori: durante il processo di revisione, iniziato tre anni fa, era stato dimostrato che la condanna si basava su una testimonianza influenzata illecitamente da un poliziotto.
La pena di Zuncheddu era stata sospesa a novembre ed era quindi stato scarcerato. Ora il processo di revisione si è concluso con la sua assoluzione: vuol dire che Zuncheddu è stato incarcerato ingiustamente per 32 anni, e che quello che l’ha coinvolto è stato uno dei più gravi errori giudiziari della storia italiana.
L’omicidio dei tre pastori è noto come strage di Sinnai. All’inizio di gennaio del 1991 sulle montagne di Sinnai, in provincia di Cagliari, furono uccisi Gesuino Fadda, 56 anni, il figlio Giuseppe, di 24, proprietari di un ovile, e il loro dipendente Ignazio Puxeddu, 55enne. Il genero di Fadda, Luigi Pinna, di 29 anni, fu gravemente ferito.
Gli investigatori puntarono subito sui contrasti tra allevatori, in particolare tra i Fadda e gli Zuncheddu, che gestivano un altro ovile. Nei mesi precedenti alla strage erano stati segnalati episodi di vacche uccise, cani impiccati e diverbi sfociati in aggressioni e minacce di morte. Secondo l’accusa, l’assassino arrivò all’ovile in sella a una Vespa: sparò un colpo di fucile a Gesuino Fadda sulla strada di accesso, poi salì verso il recinto del bestiame dove uccise il figlio. Entrato in un piccolo edificio, colpì anche Puxeddu e Pinna, che rimase solo ferito.
Beniamino Zuncheddu all’epoca aveva 27 anni. Le forze dell’ordine arrivarono a lui per via dei contrasti che in passato aveva avuto con i Fadda. Fu arrestato perché non aveva un alibi solido e non riuscì a dare spiegazioni convincenti alla procura.
Tuttavia la svolta delle indagini arrivò circa cinquanta giorni dopo la strage, quando l’unico superstite e testimone oculare, Luigi Pinna, indicò Zuncheddu come responsabile del triplice omicidio, mentre prima di quel momento aveva sostenuto di non poter riconoscere l’assassino perché aveva la faccia coperta da una calza. Zuncheddu fu condannato all’ergastolo: ha trascorso 32 anni nelle carceri sarde di Badu ’e Carros, Buoncammino e Uta, sotto stretta sorveglianza. Soltanto negli ultimi anni gli è stato concesso il regime di semilibertà, cioè la possibilità di lavorare fuori dal carcere di giorno per tornare in cella di notte.
Tre anni fa l’avvocato Mauro Trogu convinse la procura e l’ex procuratrice generale di Cagliari Francesca Nanni a riaprire il caso con un processo di revisione per esaminare nuove prove a sostegno dell’innocenza di Zuncheddu.
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Il processo di revisione è l’estrema e straordinaria possibilità prevista dal codice penale italiano di correggere un errore giudiziario che ha portato a una condanna. A questa possibilità accede un numero molto limitato di casi: di fatto il processo di revisione è un nuovo processo che può essere istituito dopo che la sentenza è divenuta definitiva, ma solo in presenza di argomenti e prove molto forti per sovvertire la decisione di colpevolezza, e che sono valutati con criteri molto stringenti da una Corte d’Appello che ne deve decidere l’ammissibilità, prima di celebrare l’eventuale nuovo processo (che si può concludere comunque con una conferma della condanna).
In Italia la richiesta di revisione di un processo segue un percorso stabilito dall’articolo 630 del codice di procedura penale: può essere chiesta «se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto». Oppure «se è dimostrato che la condanna viene pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato». A chiedere la revisione del processo possono essere, secondo l’articolo 632 dello stesso codice, la persona condannata o un suo parente («prossimo congiunto») attraverso la difesa, oppure il procuratore generale presso la Corte d’Appello nel cui distretto, cioè l’area di competenza della Corte, fu espressa la sentenza di condanna.
Se il processo di revisione sovverte le sentenze dei tre gradi di giudizio e si conclude con un’assoluzione si può parlare di “errore giudiziario”, previsto dall’articolo 24 della Costituzione (“La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”): secondo le norme del ministero delle Finanze che provvede ai risarcimenti eventuali, «l’errore giudiziario si verifica quando un soggetto, dopo aver espiato una pena, o parte di essa, per effetto di una sentenza di condanna, venga successivamente riconosciuto innocente in seguito ad un nuovo processo di “revisione”, strumento di impugnazione straordinario».
Le statistiche diffuse da errorigiudiziari.com, sito internet gestito da un’associazione che da anni si impegna per alimentare un vasto archivio di testimonianze delle persone che hanno subìto un’ingiustizia, dicono che dal 1991 al 2022 in Italia ci sono stati 222 casi di errori giudiziari, di cui 8 soltanto nel 2022.
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Nel caso di Zuncheddu la procura aveva autorizzato nuove intercettazioni ambientali per la moglie e le sorelle di Luigi Pinna, oggi 62enne, con l’obiettivo di trovare incongruenze e ammissioni. I sospetti di Trogu sulla gestione dell’inchiesta sono stati confermati. Durante l’udienza dello scorso 14 novembre, Pinna ha detto che all’epoca un poliziotto, Mario Uda, gli mostrò una foto di Zuncheddu prima di essere interrogato dal magistrato. «È lui il colpevole», disse il poliziotto a Pinna, indirizzando le indagini. Durante l’interrogatorio Pinna accusò Zuncheddu.
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