Questi benedetti LEP
È da più di vent'anni che la politica cerca un modo per stabilire i Livelli essenziali delle prestazioni: cosa sono e perché sono necessari per l'autonomia delle regioni
Il parlamento sta discutendo e votando il disegno di legge sull’autonomia differenziata del governo, voluto in particolare dal ministro leghista per gli Affari regionali Roberto Calderoli. Ma l’approvazione definitiva del disegno di legge di Calderoli non significherebbe comunque l’introduzione effettiva dell’autonomia differenziata, cioè del trasferimento alle regioni di competenze e poteri finora esercitati dallo Stato centrale. Il provvedimento fissa soltanto alcune procedure che giunte regionali, governo e parlamento saranno tenuti a seguire nei negoziati che definiranno poi eventualmente il trasferimento di quelle competenze e quei poteri alle regioni che ne faranno richiesta.
L’avvio di questo percorso piuttosto articolato viene però subordinato dal disegno di legge alla definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP), cioè a quella serie di servizi essenziali che lo Stato deve garantire a tutti i cittadini in ogni area del territorio nazionale. Questo per evitare che la concessione dell’autonomia alle regioni più ricche ed efficienti finisca con l’aumentare i divari territoriali che da decenni esistono tra Nord e Sud Italia, ma anche tra aree urbane e periferie, tra grandi città e borghi montani. In particolare, dopo le modifiche apportate dal Senato al testo originario, il disegno di legge di Calderoli prevede che il governo abbia fino a due anni di tempo dal momento dell’approvazione definitiva del provvedimento per adottare i decreti legislativi necessari a definire i LEP.
Stabilire i LEP è un problema annoso e irrisolto, con cui la politica italiana nel suo complesso ha a che fare da ormai più di vent’anni: fin da quando, cioè, la riforma costituzionale del 2001 ha previsto un potenziamento delle autonomie locali. Con quella riforma, all’articolo 117 sono state indicate le 23 materie che le regioni avrebbero potuto gestire da sole, ed è stata contestualmente attribuita allo Stato la responsabilità di definire i LEP. Da allora vari governi di diversi orientamenti politici hanno annunciato o avviato lavori per arrivare a questo obiettivo, quasi sempre tentativi velleitari e inconcludenti. E anche gli interventi normativi più importanti in questa materia, come quello fatto dal governo di Silvio Berlusconi nel 2009 sul federalismo fiscale, hanno in sostanza ipotizzato modalità per stabilire i LEP tuttora non messe in pratica.
Non a caso, in una sentenza dell’ottobre del 2021, la Corte Costituzionale ha valutato «negativamente il perdurante ritardo dello Stato nel definire i LEP, i quali indicano la soglia di spesa costituzionalmente necessaria per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale», e ha inoltre ribadito che «in definitiva, il ritardo nella definizione dei LEP rappresenta un ostacolo non solo alla piena attuazione dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali, ma anche al pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti ai diritti sociali».
Le lentezze e le difficoltà non sono casuali, e hanno anzi a che vedere con il fatto che la materia è piuttosto inafferrabile: si tratta infatti di definire su molte questioni essenziali per la vita quotidiana delle persone (scuola, sanità, trasporti, assistenza sociale eccetera) quale sia il servizio minimo che lo Stato deve garantire ovunque. Il numero di posti negli asili nido per ogni centomila abitanti, per esempio. Oppure il numero massimo di alunni in ciascuna classe delle scuole elementari. O ancora, la frequenza con cui sia nei grandi centri urbani sia nelle zone di campagna devono passare gli autobus. Il tutto tenendo conto poi delle specificità dei vari territori, e dunque dell’eventualità che quel tipo di servizio definito come LEP debba essere erogato in maniera diversa a seconda che si tratti della provincia di Genova o di quella di Potenza, di un piccolo comune sull’Appennino abruzzese o di un capoluogo del Veneto, e così via.
L’attuale governo di Giorgia Meloni, che pure si sta impegnando per l’approvazione del disegno di legge sull’autonomia, ha dovuto ammettere la complessità dell’obiettivo. Nella legge di bilancio per il 2023, approvata nel dicembre del 2022, il governo aveva previsto la costituzione di una “cabina di regia”, presieduta dalla presidente del Consiglio e composta dai vari ministri competenti e dai rappresentanti dei comuni e delle regioni, alla quale era affidato il compito di fare entro sei mesi una ricognizione delle norme e delle spese connesse alle materie che sarebbero poi potute essere trasferite alle regioni.
Questo organo si è insediato solo ad aprile e finora non ha dato alcun risultato. Secondo quanto previsto dalla legge di bilancio, in caso di ritardo dei lavori si sarebbe dovuto nominare un commissario straordinario per concludere le procedure in corso. Il governo ha scelto invece di rinviare tutto. Le lentezze della cabina di regia sono state riconosciute dalla stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti nella relazione tecnica del decreto “Milleproroghe” (articolo 15), il provvedimento che al termine di ogni anno il governo approva per prolungare la durata degli atti che stanno per scadere. E infatti il decreto, approvato dal governo il 30 dicembre e attualmente in discussione alla Camera, prevede il prolungamento del mandato della cabina di regia per tutto il 2024.
Nel frattempo, però, nel marzo scorso il governo ha nominato poi un “comitato tecnico scientifico” composto da 61 esperti di diritto e di economia, a cui ha affidato, in coordinamento con altre commissioni tecniche e altri uffici ministeriali, lo stesso compito: avviare un’indagine propedeutica per arrivare a definire i LEP.
Dopo oltre sei mesi dalla sua nomina, il comitato ha pubblicato un primo rapporto in cui traccia le linee generali del lavoro che ha avviato. Il giurista ed ex ministro Sabino Cassese, che ne è il presidente, nella prefazione a questo documento ha spiegato le grosse difficoltà relative all’individuazione dei LEP così:
L’attività svolta può dunque definirsi come un’esplorazione “in terre incognite”, collocate tra previsioni normative più o meno parziali, interpretazioni giurisprudenziali, veri e propri vuoti di disciplina, indicazioni rinvenibili al più solo implicitamente.
Insomma, non ci sono norme precise a cui fare riferimento, né precedenti di alcun tipo da cui trarre ispirazione. Al punto che perfino intendersi fino in fondo su cosa siano i LEP è complicato, vista «la difficoltà di operare una definizione completa, materia per materia, ambito per ambito, di ciascun livello essenziale delle prestazioni», scrive Cassese.
Non esiste una formula matematica, un algoritmo universalmente applicabile, o anche solo un metodo d’indagine che possa essere sempre utilizzato per definire i LEP. Va fatto più che altro un lavoro di ricerca, che può avvalersi di strumenti diversi e che deve necessariamente adattarsi al tipo di materia trattata di volta in volta.
Proprio per trovare una soluzione alla difficoltà di questa indagine, i presidenti delle regioni del Nord hanno spesso ipotizzato di usare la cosiddetta spesa storica. Significa, nel concreto, che per stabilire quale sia il livello di spesa da considerarsi necessario per garantire certi beni e servizi essenziali basta grosso modo capire quanto le varie amministrazioni locali e nazionali hanno speso negli ultimi anni per erogarli. Il problema di questo metodo è che inevitabilmente cristallizzerebbe gli squilibri esistenti: se in Calabria si è speso meno che in Lombardia per l’edilizia scolastica, lo si deve anche e soprattutto alle minori risorse a cui la Calabria può far ricorso, e non al fatto che in Calabria quella minore spesa sia effettivamente sufficiente a garantire un servizio dignitoso.
È un’obiezione, questa, che di recente è stata fatta anche dai funzionari del centro studi di Camera e Senato, secondo cui è evidente come prendere a riferimento la spesa storica «non sempre risulti coerente con la tutela dei diritti civili e sociali». Anzi, la ricerca intorno alla definizione dei LEP dovrebbe «superare il più semplice criterio della spesa storica, che riflettendo inevitabilmente i preesistenti squilibri tra le diverse regioni può rivelarsi meno equo in un’ottica di garanzia uniforme dei diritti civili e sociali». Il disegno di legge di Calderoli citava originariamente il riferimento alla spesa storica registrata negli ultimi tre anni solo come un parametro parziale da cui partire per poi definire davvero i LEP. Ma questo passaggio è stato poi eliminato durante la discussione al Senato.
Di recente il comitato presieduto da Cassese ha chiarito che quel riferimento è comunque assai poco utile, specie per quel che riguarda i servizi essenziali: «Il livello storico di servizio potrebbe non essere pienamente coerente con la tutela dei diritti civili e sociali», scrive sempre il rapporto.
La ricerca per la definizione dei LEP deve insomma seguire altre vie, quasi mai definite in partenza. Per capire quante e quali tutele minime vanno garantite ai lavoratori può essere opportuno rifarsi ad alcune sentenze della Corte Costituzionale; per stabilire il numero di strutture sportive da tenere aperte in una città bisognerebbe invece prendere a riferimento le normative europee; per individuare quante ambulanze avere in servizio per ogni mille abitanti potrebbe essere necessario rifarsi a un confronto con le principali città occidentali che hanno quelle stesse caratteristiche sociali e demografiche; e via così per un numero di ambiti e di relativi territori altissimo.
I risultati di queste indagini vanno poi ovviamente sottoposti al giudizio del governo, che dovrà valutare l’effettiva sostenibilità economica degli obiettivi indicati dai tecnici: ovvero capire se ci sono abbastanza soldi per finanziare i LEP così come sono stati definiti, e nel caso dove e come trovare quelle risorse. La cautela con cui i governi si sono mossi nella definizione dei LEP si spiega in parte proprio con questo timore: una volta che un ente governativo ha indicato qual è il servizio minimo che lo Stato deve garantire ai cittadini in tutte le aree del paese, se poi quel servizio non fosse effettivamente erogato in quei termini il governo dimostrerebbe la sua inefficienza, e si esporrebbe non solo alle critiche e alle lamentele, ma verosimilmente anche al rischio di ricorsi e contenziosi in tribunale.
Durante un’audizione al Senato a metà novembre, Cassese si è soffermato sul costo che avrebbero i LEP: «Non si può pensare che da un giorno all’altro, se si vuole mantenere l’equilibrio di bilancio dello Stato italiano, vi sarà una somma stanziata adeguata a raggiungere certi obiettivi che sono definiti nei LEP», ha detto. «Non si può pensare che da un giorno all’altro i LEP vengano assicurati perché per assicurarli, in molti casi, non sempre, occorre che siano accompagnati da delle cifre». Alcuni parlamentari delle opposizioni nei giorni scorsi hanno indicato in circa 90-100 miliardi la spesa che lo Stato dovrà affrontare per finanziare i LEP.
È una cifra insostenibile per il ministero dell’Economia, e al momento non c’è modo di verificare se la stima sia affidabile. Il ministro Calderoli, di recente, ha sostenuto che secondo i suoi calcoli tutti i servizi essenziali su cui andranno definiti i LEP costano attualmente allo Stato 170 miliardi, e dunque il potenziamento ulteriore di questi servizi per raggiungere i fabbisogni minimi andrebbe stimato molto al ribasso rispetto a quanto fanno le opposizioni. In ogni caso, se fossero vere le previsioni più ottimiste e per finanziare i LEP servisse un decimo della spesa attuale indicata da Calderoli (17 miliardi) sarebbe comunque una cifra onerosa: l’ultima legge di bilancio nella sua interezza, con cui il governo ha deciso come utilizzare i soldi pubblici per il 2024, valeva 24 miliardi.
Da queste valutazioni dipenderanno i tempi dell’effettiva attuazione dell’autonomia. Il provvedimento appena votato dal Senato stabilisce che qualora dalla definizione dei LEP derivino maggiori spese per lo Stato, bisognerà prima capire come trovare i soldi, e stare attenti che queste nuove spese non mettano a rischio la tenuta dei conti pubblici, e poi approvare il trasferimento delle competenze alle regioni: solo a quel punto si potrà avviare davvero l’autonomia differenziata.
Nel dibattito intorno all’autonomia vengono spesso citate ricerche paragonabili a quelle per stabilire i LEP, come nel caso dei cosiddetti “obiettivi di servizio”, che possono essere considerati per certi versi dei precursori dei LEP stessi. Ci sono almeno due casi in cui le decisioni prese da due diversi governi in questo senso aiutano a capire lo sforzo amministrativo che andrebbe fatto per stabilire i LEP.
Il primo riguarda la legge di bilancio del 2022, approvata a fine dicembre del 2021 dal governo guidato da Mario Draghi. In quella manovra venne finanziato l’ampliamento dei posti a disposizione negli asili nido per tutte le regioni italiane (tranne Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige). Per farlo vennero stanziati 1,2 miliardi tra il 2022 e il 2026. Secondo il piano definito dagli obiettivi di servizio, questa cifra avrebbe consentito di raggiungere entro il 2027 di raggiungere i LEP su tutto il territorio nazionale, e a decorrere da quell’anno si prevede una spesa fissa di 1,1 miliardi a regime.
È un caso interessante anche per fare chiarezza sul metodo utilizzato per definire questi obiettivi. Una specifica commissione individuò l’Emilia-Romagna come la regione più virtuosa sul piano degli asili nido: stabilendo che in quella regione c’era un posto ogni due bambini tra i 3 e i 36 mesi, e seguendo le indicazioni contenute in alcune normative europee, si decise che a livello nazionale fosse necessario garantire almeno un posto negli asili nido ogni tre bambini compresi in quella stessa fascia d’età. La cifra finale di 1,1 miliardi venne calcolata proprio su questa base. Siccome i bambini tra i 3 e i 36 mesi nelle regioni che stavano al di sotto di quella soglia minima erano 146mila, e siccome la spesa stimata per ciascun posto in un asilo nido era di 7.600 euro all’anno, la moltiplicazione di questi due fattori ha dato, come risultato, una spesa a regime di 1,1 miliardi all’anno.
Il secondo caso riguarda un procedimento simile seguito l’anno prima, nella legge di bilancio del 2021, quando c’era il secondo governo di Giuseppe Conte. La misura in discussione era un piano di potenziamento generale dei servizi sociali offerti dai comuni. Come riferimento per stabilire l’obiettivo di servizio vennero presi i comuni delle province di Torino e di Bologna, e da quelli venne calcolata la spesa necessaria per estendere quello standard di servizi a tutti i comuni italiani.
Il calcolo tuttavia non si fermava lì: venne deciso di applicare anche un cosiddetto «coefficiente di riparto», ovvero adeguare quella cifra fissa alle caratteristiche demografiche e sociali dei vari comuni d’Italia, modellando l’obiettivo a seconda di quante persone vivevano in una certa provincia o in un’altra, e l’età media, e il reddito pro capite medio, eccetera. Ne venne fuori una norma che stanziava una somma crescente tra il 2021 e il 2029, partendo da circa 216 milioni e arrivando a quasi 619 milioni. Poi è stata programmata una spesa a regime annua di 650,9 milioni a partire dal 2030.