Gli Oscar hanno ancora un problema con le donne?
L'esclusione di Greta Gerwig e Margot Robbie dalle nomination come miglior regista e miglior attrice per "Barbie" ha riaperto un ciclico dibattito sui pregiudizi dell'Academy
Martedì sono state annunciate le nomination agli Oscar del 2024, la cui cerimonia di premiazione si terrà nella notte tra il 9 e il 10 marzo. Come accade ogni anno, alcune delle scelte compiute dalla Academy of Motion Picture Arts and Sciences – l’ente che organizza i premi Oscar – stanno facendo discutere, e in particolare una: l’esclusione dalle loro categorie di Greta Gerwig e Margot Robbie, rispettivamente regista e attrice protagonista di Barbie, il film col maggiore incasso internazionale dello scorso anno e uno dei film più discussi.
Robbie e Gerwig hanno ricevuto comunque una nomination: Robbie in qualità di produttrice di Barbie, che è candidato come miglior film, mentre Gerwig potrebbe vincere quello per la miglior sceneggiatura non originale. Tuttavia, le mancate candidature di Gerwig e Robbie nelle categorie di miglior regista e miglior attrice protagonista hanno riacceso un dibattito che torna ciclicamente sul fatto che i premi Oscar non premierebbero sufficientemente le donne, così come anche le persone non bianche.
L’esclusione di Gerwig è stata ricollegata a una lunga tradizione di sistematica esclusione delle donne dall’Oscar per la migliore regia, mentre quella di Robbie, pur essendo relativa a un premio esclusivamente femminile, ha suscitato una certa indignazione soprattutto per il personaggio che interpreta, connotato molto fortemente come femminile e rivolto a un pubblico prevalentemente femminile.
Da anni il consiglio direttivo dell’Academy è accusato di favorire film diretti e interpretati da uomini bianchi, soprattutto per via della sua composizione interna, che nonostante i nuovi criteri adottati negli ultimi anni continua a essere, per l’appunto, prevalentemente maschile e bianca.
Di recente gli equilibri di genere interni all’Academy sono sicuramente migliorati rispetto al passato: nel 2021, per la prima volta nella storia, la maggioranza del “Board of Governors” (il consiglio che si occupa di preservare l’autonomia finanziaria degli Oscar e le sue strategie di comunicazione) è diventata femminile. Tuttavia, il 60 per cento delle 9.395 persone con diritto di voto, cioè quelle che di fatto decidono le candidature, è ancora composto da uomini (nel 2013 erano il 76 per cento).
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La nomination di Gerwig come miglior regista era data per certa da tutte le principali riviste specializzate, anche perché a gennaio ha concorso per lo stesso riconoscimento ai Golden Globe, premi a cui solitamente si guarda molto per fare previsioni sui vincitori dei più importanti Oscar. Peraltro Gerwig aveva già dimostrato in passato di essere riuscita a farsi apprezzare dall’Academy: nel 2018 aveva ottenuto una nomination all’Oscar come miglior regista per Lady Bird, un risultato piuttosto eccezionale se si considera la storia dell’Academy.
Prima della sua candidatura come miglior regista nel 2018, avevano concorso per il premio solo altre sei donne, ossia Lina Wertmüller (1977), Jane Campion (1994 e 2022), Sofia Coppola (2004), Kathryn Bigelow (2010), Emerald Fennell e Chloé Zhao (2021), e tre di loro l’avevano vinto (Bigelow, Zhao e Campion). Sia le candidature che le vittorie femminili in questa categoria sono diventate sensibilmente più frequenti negli ultimi anni, probabilmente anche per via del dibattito in corso e della composizione più equilibrata dell’Academy. Quest’anno, con la candidatura della regista di Anatomia di una caduta Justine Triet, il totale delle donne candidate all’Oscar come miglior regista è salito a 8: un numero effettivamente ancora bassissimo, considerando che la manifestazione ha alle spalle 95 anni di storia (e cinque candidature all’anno).
Anche la nomination di Robbie era data per scontata: la sua interpretazione in Barbie è stata generalmente molto apprezzata dalla critica, che ha lodato la sua capacità di dare una caratterizzazione profonda a un personaggio difficile e stereotipato. Tra i tanti commenti indignati per l’esclusione di Robbie è spiccato soprattutto quello di Ryan Gosling, che ha ricevuto la nomination come miglior attore non protagonista per il suo ruolo di Ken.
Nonostante le polemiche, una parte di addetti ai lavori ha sottolineato come l’esclusione di Gerwig e Robbie non debba far passare in secondo piano i risultati che potrebbero scaturire da questa edizione degli Oscar, che rimane comunque una delle più importanti di sempre per quanto riguarda la rappresentazione femminile. Tre dei dieci titoli candidati all’Oscar come miglior film – Anatomia di una caduta di Justine Triet, Past Lives di Celine Song e per l’appunto Barbie di Greta Gerwig – sono stati infatti diretti da donne e non era mai successo prima.
Nell’intera storia degli Oscar, soltanto in quattro occasioni ci sono stati due film diretti da donne alle nomination per il miglior film nello stesso anno. Era accaduto nel 2009, con An Education di Lone Scherfig e The Hurt Locker di Kathryn Bigelow; nel 2010, con The Kids Are All Right di Lisa Cholodenko e Winter’s Bone di Debra Granik; nel 2020, con Nomadland di Chloé Zhao e Promising Young Woman di Emerald Fennell; e nel 2021, con CODA di Siân Heder e Il potere del cane di Jane Campion.
C’è anche chi ritiene che la mancata candidatura di Gerwig e Robbie non sia da collegare soltanto alla tendenza dell’Academy a premiare storie dirette e interpretate da uomini, ma anche a una serie di decisioni che hanno portato gli Oscar a diventare dei premi più internazionali e meno americani.
Da qualche tempo, infatti, gli Oscar stanno facendo i conti con una sorta di crisi di identità: c’è chi ritiene che debbano essere un grande evento locale, guardato in tutto il mondo ma che riguarda perlopiù il cinema di un solo paese, ossia gli Stati Uniti, e chi sostiene che sia necessario aprirsi al cinema mondiale, a chi lo fa e a chi lo guarda. Negli ultimi anni è prevalsa la seconda interpretazione: la composizione interna dell’Academy è diventata più internazionale e, di conseguenza, più disposta a premiare film diretti da registi non statunitensi.
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A questo proposito, il critico cinematografico del New York Times Kyle Buchanan ha scritto che, probabilmente, l’esclusione di Gerwig dalle nomination per la miglior regia è dipesa proprio dalla «inclinazione sempre più internazionale» assunta dall’Academy.
Buchanan ha sottolineato anche come le candidature per la miglior regia siano tra le più difficili da ottenere: la commissione che vota per questa categoria, infatti, è composta unicamente da registi, e non dalla totalità dei membri con diritti di voto dell’Academy, come accade per esempio nel caso delle nomination per il miglior film. Si tratta di una commissione ristrettissima e molto specializzata, composta soltanto da 587 registi (le persone con diritto di voto nell’Academy sono più di 9mila).
In generale, questo «gruppo intellettuale» tende spesso a favorire film più ricercati e autoriali rispetto a commedie e blockbuster, e da quando ha iniziato a ospitare un numero sempre maggiore di registi provenienti dall’Europa ha accentuato questa tendenza.
«Questo cambiamento ha avuto un effetto pronunciato sulla categoria del miglior regista, poiché tre dei nominati di quest’anno vivono e lavorano principalmente in Europa», ha scritto Buchanan riferendosi alla francese Justine Triet (Anatomia di una caduta), al greco Yorgos Lanthimos (Povere creature!) e al britannico Jonathan Glazer (La zona d’interesse).
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Il tema della sottorappresentazione di donne e minoranze nell’industria cinematografica rimane comunque molto rilevante. Due esempi, tra i tanti possibili: solo tre donne hanno vinto l’Oscar per la miglior regia, e nel 2018 Rachel Morrison fu la prima donna di sempre a essere candidata all’Oscar alla miglior fotografia, che ancora adesso non è mai stato vinto da una donna.
Nel 2020, nell’ottica di rendere i premi maggiormente inclusivi, l’Academy aveva stabilito quattro criteri da rispettare per poter ottenere una nomination all’Oscar come miglior film, che sono entrati in vigore quest’anno.
Il primo criterio richiede che sia soddisfatto almeno uno di questi tre requisiti: che il film abbia tra i suoi protagonisti o personaggi principali almeno un attore appartenente a «un gruppo etnico sottorappresentato» (asiatici, ispanici, latini, neri e afroamericani, indigeni, nativi americani, nativi dell’Alaska, mediorientali, nordafricani, nativi hawaiani o di altre isole del Pacifico o comunque appartenenti ad altre etnie sottorappresentate); in alternativa, che almeno il 30 per cento di chi recita in ruoli «secondari o minori» sia donna, o appartenga a uno dei gruppi razziali o etnici di cui sopra, o si definisca LGBTQ+, o abbia disabilità cognitive o fisiche o sia non udente o ipoudente. Serve però che il 30 per cento sia raggiunto almeno grazie a due diverse categorie: non basta, quindi, che ci sia il 30 per cento di donne; servono persone appartenenti ad almeno un’altra categoria. Una terza alternativa per questa prima categoria riguarda la trama e il suo essere in qualche modo incentrata su temi che riguardano donne, non bianchi, persone LGBTQ+ o persone con disabilità.
Se non soddisfa nemmeno uno di questi requisiti, il film può ottenere una candidatura rispettando uno degli altri tre criteri previsti.
Il secondo criterio chiede – con requisiti molto simili a quelli del primo – che in ruoli della troupe (dalla regia fino al montaggio, passando per truccatori, parrucchieri, scenografi e così via) ci sia un certo livello di inclusione in ruoli di leadership, o che persone appartenenti a categorie sottorappresentate siano presenti in un certo numero e con certe quote nella troupe, anche se non in ruoli di leadership. Il terzo criterio riguarda, sempre per le stesse categorie di persone, l’accesso a possibilità di stage e di «apprendistato retribuito». Il quarto criterio prevede regole simili a quelle dei precedenti, in questo caso all’interno delle aree che si occupano di «marketing, pubblicità e distribuzione» del film.
La decisione dell’Academy era stata accolta da reazioni opposte, tra chi aveva elogiato lo sforzo per dare conseguenze concrete ai generici buoni propositi sull’inclusività nei confronti delle minoranze e chi l’aveva considerata come un’applicazione illiberale e cervellotica del “politicamente corretto”. Queste critiche continuano a essere molto presenti ancora oggi.