Cosa succede ai vestiti che non si vendono
Vengono scontati nei saldi, poi negli outlet e nei negozi di stock, donati, riciclati e a volte persino bruciati o buttati nei cassonetti
di Arianna Cavallo
In tutta Italia sono in corso i saldi invernali nel settore dell’abbigliamento, cioè la vendita a prezzo ridotto di abiti e accessori delle collezioni per l’autunno e per l’inverno. I saldi servono ai negozi per liberarsi dei capi rimasti invenduti dalla stagione che sta per finire per far posto a quelli per la primavera e per l’estate, e a non accumulare in magazzino rimanenze che difficilmente verranno comprate a prezzo pieno tra sei mesi, perché nel frattempo ci saranno nuove tendenze e nuovi desideri.
È molto raro, però, smaltire completamente le collezioni con i saldi: un po’ perché prevedere con esattezza quanto produrre per non avere avanzi è molto difficile, un po’ perché, per contenere i costi, molte aziende producono più di quanto prevedono di vendere; i saldi sono il primo modo per risolvere il problema. Il Financial Times racconta, per esempio, che la maggior parte dei rivenditori si aspetta di vendere soltanto la metà dei capi a prezzo pieno, e mette già in conto che la restante metà andrà in saldo.
Non ci sono dati certi su quanti siano ogni anno i capi invenduti, ma negli ultimi tempi sempre più articoli e documentari hanno raccontato come gestirli e smaltirli sia una delle maggiori difficoltà dell’industria della moda, che può comportare gravi danni all’ambiente con effetti anche sulla salute delle persone.
Vendite scontate, private e outlet
Le aziende più piccole o di fascia medio-alta riescono a gestire i capi invenduti con più facilità delle grandi catene perché le quantità sono solitamente inferiori. Alcune li smaltiscono attraverso flash sales, vendite scontate ed estemporanee rivolte a tutti; altre preferiscono farlo internamente vendendo i capi delle varie collezioni scontati anche al 75 per cento: sono le cosiddette private sales (vendite private) o family and friends (per familiari e amici). Questa strategia è adottata da alcuni marchi di lusso, come Louis Vuitton e Chanel, che non vogliono diluire l’esclusività dei loro prodotti e che quindi non fanno saldi né vendono negli outlet, cioè i negozi che offrono a prezzi scontati i prodotti delle collezioni passate, quelli con difetti di produzione o i campioni utilizzati nelle sfilate e nelle presentazioni.
Gli outlet, infatti, assorbono buona parte degli invenduti delle grandi aziende. Sono spesso raggruppati in grossi complessi, come quello di Serravalle, in Piemonte, che ospita più di 230 negozi, e ne esistono anche online, come quello di Zalando, che si chiama Privé by Zalando e offre capi e accessori multimarca scontati fino al 75 per cento.
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I negozi di stock
Un altro modo per liberarsi delle rimanenze è rivolgersi agli stocchisti, che comprano i capi invenduti – di aziende, negozi e anche outlet – e li rivendono ai negozi specializzati. Salvatore Pariota è amministratore delegato di Divergent srl, che acquista prodotti di stock da «grandi firme e aziende di nicchia di qualità» in tutta Italia e li rivende a negozi gestiti da altri che organizzano vendite private sempre in Italia e in paesi dell’est. Pariota lavora con marchi che «cercano di produrre quello che prevedono di vendere, ma ovviamente ci sono degli imprevisti».
Un aspetto fondamentale, spiega, è «non distribuire dove i fornitori hanno già una rete di vendita» per evitare sovrapposizioni e concorrenza tra prodotti dello stesso marchio a prezzo pieno e ridotto: questo timore spinge alcune aziende «a non stoccare per anni, ritrovandosi però con molto invenduto, che poi è difficile da rivendere». La vita dei vestiti, infatti, è breve: «dopo due stagioni diventano obsoleti e più li conservi più si deprezzano».
Pariota racconta che il prezzo dello stock viene deciso di volta in volta valutando l’offerta e confrontandosi con il venditore: per esempio se va ritirata una collezione con tutte le taglie il prezzo sarà più alto rispetto a rimanenze con meno taglie disponibili. La quantità di invenduto che gestisce ogni anno è contenuta, circa «15-20mila capi all’anno, non 60-70mila, che sarebbero numeri da fast fashion».
Invenduti bruciati, distrutti, abbandonati
Le difficoltà aumentano, infatti, quando gli invenduti sono tanti. Accade soprattutto nelle grandi aziende e in particolare nel fast fashion, le catene che offrono vestiti a prezzi bassi, spesso di scarsa qualità, molto aggiornati alle ultime tendenze e con un ricambio continuo nei negozi, come per esempio H&M, Zara e in casi ancora più estremi la cinese Shein. Devono produrre in grandi quantità per abbassare al minimo i costi dei fornitori e delle aziende manifatturiere a cui si rivolgono: di fatto preferiscono sovraprodurre, perché costa meno che fare i conti con l’avanzo.
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Nel 2018 il New York Times raccontò che H&M – che ogni anno produce centinaia di milioni di capi – aveva una quantità di invenduto del valore di 4,3 miliardi di dollari; il Financial Times scrisse che a fine aprile 2020, un anno particolarmente difficile a causa dell’epidemia da coronavirus, era di 3,4 miliardi di sterline.
Sul suo sito H&M spiega che i prodotti invenduti vengono donati in beneficienza, riutilizzati da aziende, smaltiti attraverso saldi e ulteriori riduzioni o spostati nei mercati con più richiesta; come ultima risorsa si rivolge a venditori esterni. Nonostante questo nel 2017 il programma TV danese Operation X accusò H&M di aver bruciato 12 tonnellate all’anno di capi invenduti dal 2013, circa 60 tonnellate in totale. H&M ha sempre negato le accuse, sostenendo di distruggere solo i capi che non rispettano gli standard di sicurezza o che sono a rischio di muffa. Operation X condusse dei test su vestiti inviati all’azienda per smaltirli dimostrando che rispettavano le norme e non presentavano muffa e H&M rispose ancora che i test non erano stati eseguiti correttamente e diffuse i propri.
Anche alcune aziende di lusso sono state accusate di bruciare prodotti nuovi e senza difetti. Il caso più noto è quello del marchio britannico di lusso Burberry, che nel 2017 bruciò merci invendute per un valore di 28,6 milioni di sterline. La notizia provocò molta indignazione ma, come scrisse Forbes, non stupì molto chi lavorava nel mondo della moda. Nel 2018 venne fuori che nei due anni precedenti Richemont, che controlla marchi di lusso come Cartier e Montblanc, aveva distrutto orologi per un valore di 437 milioni di sterline per evitare che si deprezzassero o finissero nel mercato nero.
Come spiega Forbes, «la pratica di distruggere capi invenduti e persino rotoli di tessuto inutilizzato è comune per i marchi di lusso. Diventare troppo economicamente accessibili negli outlet o nei negozi di stock scoraggia le vendite a prezzo pieno, mentre riciclare i prodotti li espone al rischio che siano rubati e rivenduti nel mercato nero».
Per chi esporta negli Stati Uniti, poi, c’è anche un incentivo economico: una legge prevede che se un’azienda distrugge un prodotto importato e non venduto, possa recuperare a titolo di indennizzo il 99 per cento dei dazi o delle tasse pagate per importarlo. In alcuni casi, insomma, è più economico distruggere l’eccesso che pagare per riutilizzarlo e riciclarlo.
Nei bidoni della spazzatura
Esistono anche degli esempi di cattiva gestione più circoscritti ma comunque diffusi, su cui comunque non esistono dati precisi. Capita che singoli negozi gettino nei cassonetti della spazzatura quantità ridotte di merce invenduta, dopo averla danneggiata per impedire che venga riutilizzata, rivenduta, rubata o donata.
Nel 2010 il New York Times raccontò che nei cassonetti vicini a un punto vendita di H&M e a uno dei grandi magazzini Walmart a New York erano state ritrovate borse, cappotti, vestiti e anche grucce, tagliati e rovinati. Nel 2017 venne trovato, sempre a New York, un bidone della spazzatura pieno di borse Nike, nuove ma tagliate, e nel 2020 a Centennial, in Colorado, spuntarono da un cassonetto centinaia di reggiseni del marchio di intimo Victoria’s Secret: l’azienda spiegò che erano modelli non vendibili provenienti da un punto vendita vicino che aveva chiuso.
Anche su Instagram e su TikTok si trovano numerosi video con l’hashtag #dumpsterdiving (più o meno: tuffo nei cassonetti) girati da persone comuni che ritrovano oggetti nuovi, a volte ancora con il cartellino, e volutamente danneggiati nei bidoni della spazzatura. Non è possibile verificarli, né quantificare il fenomeno.
Oltre che nei cassonetti delle città, molti vestiti nuovi finiscono nelle gigantesche discariche a cielo aperto, spesso illegali, come quella di Alto Hospicio, in Cile. Ogni anno nel porto cileno di Iquique arrivano migliaia di tonnellate di vestiti: circa il 15 per cento sono usati, il restante 85 per cento è invenduto. Alcuni vengono selezionati per essere rivenduti in altri paesi dell’America Latina, altri vengono rimessi in commercio nei mercati della zona; la maggior parte, circa 40mila tonnellate all’anno, finisce nelle discariche a cielo aperto, come quella di Alto Hospicio, che si stima contenga circa 60mila tonnellate di vestiti.
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Chi dona
Alcuni marchi donano parte dei capi invenduti, dei campioni e dei tessuti inutilizzati ad associazioni di beneficenza, ad aziende non profit o a scuole di moda dove possono essere utilizzate dagli studenti per fare pratica. Lo fanno anche grandi aziende di lusso come Alexander McQueen, Simone Rocha, Paul Smith, Victoria Beckham e Burberry. Sono gesti positivi che cercano di tamponare un problema ma, soprattutto nel caso dei grossi marchi, sono spesso visti come una forma di greenwashing, il tentativo di sfruttare azioni non troppo incisive per mostrarsi più impegnati nell’ambiente di quel che si è.
Tra le organizzazioni non profit che ricevono capi invenduti in Italia Humana People to People Italia, che raccoglie abiti usati, li seleziona, li rivende nei suoi negozi fisici e sul sito a prezzi accessibili e poi utilizza gli utili per sostenere propri progetti di sviluppo in Italia e nel mondo. La responsabile della comunicazione Laura Di Fluri ha raccontato che l’anno scorso «Woolrich ci ha donato 6.700 capi con il vincolo di non rivenderli ma di destinarli a donazione; così li abbiamo inviati ad associazioni che sostengono comunità fragili in Romania». Di Fluri racconta che la gestione degli invenduti varia a seconda dell’azienda: per esempio l’invenduto di chi «ha cessato l’attività entra direttamente nella nostra filiera e viene valorizzato nei nostri negozi».
Da Humana, spiega sempre Di Fluri, ci sono delle politiche di prezzo che cercano di minimizzare l’invenduto: «le collezioni durano circa sei settimane, le prime due a prezzo pieno e poi c’è una scontistica crescente fino a raggiungere prezzi accessibili a tutti».
Soluzioni virtuose
Alcune aziende attente all’ambiente lavorano riutilizzando tessuti o capi di stock, come per esempio le statunitensi Bode, Collina Strada e Re/done e le italiane Rifò, Studio Sartoriale, AVAVAV e Melidé, che propongono abiti e accessori in tessuti riciclati e rigenerati (cioè recuperati da scarti e invenduti).
Il modo migliore per risolvere il problema dell’invenduto resta, comunque, cercare di non averlo. Alcune nuove e piccole aziende lavorano già on demand, cioè propongono dei modelli e li producono soltanto quando qualcuno li ordina, spesso consentendo di personalizzarli: questo allunga la vita del prodotto perché, di solito, ci si affeziona di più. Non tutte le aziende però sono in grado di seguire un modello simile, perché lavorano su vasta scala o perché chi compra non è disposto ad aspettare il tempo della produzione. Ci sono però altre soluzioni che possono diminuire il problema.
Elena Barone lavora come responsabile dei servizi di consulenza da Spin 360, una società fondata nel 1997 che aiuta le aziende a ridurre l’impatto ambientale dei loro prodotti lavorando in due direzioni: come realizzare gli stessi oggetti impattando meno sull’ambiente e come immaginare i vestiti del futuro. Nella moda collabora con marchi di fascia media e di lusso in tutto il mondo.
Barone spiega che «la chiave è il design: i vestiti vanno progettati per essere più durevoli, riparabili, smontabili, riutilizzabili e devono anche piacere nel tempo». Per esempio si può progettare una borsa facile da smontare e rimontare in un formato più piccolo o più grande a seconda dell’esigenza del mercato; o si può immaginare una borsa con un tessuto facilmente riutilizzabile per una poltrona o una sedia (molte aziende di moda, infatti, hanno anche una linea di arredamento). Sempre più marchi, poi, hanno introdotto la pratica di molte aziende di lusso di offrire servizi di riparazione dei loro prodotti: tra questi ce ne sono di attenti all’ambiente come Patagonia e anche grandi catene come Uniqlo.
Negli ultimi anni sono nate piccole nuove aziende molto attente alla sostenibilità della loro produzione, che riutilizzano i tessuti o lavorano facendoli propri i capi invenduti di altri marchi. Barone ricorda inoltre che riciclare «non è un procedimento così virtuoso: un prodotto viene triturato, sciolto, distrutto, impiegando delle risorse e con possibili conseguenze sull’ambiente; poi viene rifatto da zero, spesso a una qualità inferiore».
Un po’ di leggi che potrebbero cambiare le cose
È possibile che le soluzioni indicate da Barone diventeranno sempre più diffuse dato che in tutta Europa sono in corso varie proposte di legge e di regolamenti per rendere la moda più sostenibile e ridurre il problema degli sprechi e dei rifiuti.
Nel 2020 la Francia ha approvato la legge Anti gaspillage pour une économie circulaire, che tra le altre cose stabilisce che dal 2022 è illegale bruciare e distruggere le merci invendute: vanno donate, riciclate o riutilizzate. Una proposta simile è presente anche nell’ESPR – Ecodesign for sustainable products regulation, di cui è relatrice l’europarlamentare italiana Alessandra Moretti. Si tratta di un regolamento quadro dell’Unione europea che verrà votato a marzo quasi certamente approvato: introduce, a partire dal 2025, il divieto di distruggere i prodotti invenduti. Il Consiglio europeo sta anche esaminando una Strategia per i prodotti tessili sostenibili e circolari, anche questa rivolta a diminuire gli sprechi e la sovrapproduzione negli stati membri.
In Italia è in fase di consultazione un decreto che prevede la Responsabilità estesa del produttore (EPR) in ambito tessile, che stabilisce che il produttore si faccia carico del finanziamento dell’organizzazione, della raccolta, del riutilizzo, del riciclaggio e del recupero dei rifiuti derivati dal settore. Una norma simile è già presente in Francia dal 2008 e anche la Commissione europea la sta discutendo tra le proposte di modifica alla Direttiva sui rifiuti: l’idea è uniformare i contributi che dovranno pagare tutti i produttori di abbigliamento dell’Unione europea, stabilendo che i più rispettosi dell’ambiente verseranno di meno.