Una canzone di Sega Bodega

Strofa dopo strofa dopo strofa

Le Canzoni è la newsletter quotidiana che ricevono gli abbonati del Post, scritta e confezionata da Luca Sofri (peraltro direttore del Post): e che parla, imprevedibilmente, di canzoni. Una per ogni sera, pubblicata qui sul Post l’indomani, ci si iscrive qui.
Il primo febbraio esce una canzone nuova di Billy Joel, la seconda dal 1993: sono un po’ esterrefatto – la sua scelta di tirare i remi in barca mi è sempre sembrata ammirevole – e sarà sicuramente una delusione, quindi sicuramente non lo sarà, quindi sicuramente lo sarà, mah. Almeno è un lento.
Tra tutti i luttuosi commenti sulla chiusura di Pitchfork (qui uno di Ezra Klein che estende la riflessione ai prodotti giornalistici e ad altro) ho trovato linkata questa vecchia pagina di statistiche divertenti sulle recensioni di Pitchfork.
Visto che avevamo parlato di noialtri con l’acufene: il Washington Post dice che c’è una nuova “cura, che però forse mi tengo l’acufene.
Ho visto Claudio Baglioni due volte in vita mia. La prima, nel 1979, io avevo 14 anni e lui 27, eravamo al Palasport di Pisa e lui era in tour dopo E tu come stai. La seconda sabato scorso, erano passati 45 anni (in cui le cose erano cambiate più per me che per lui): lui era alla seconda data di un suo tour celebrativo (la prima di cinque a Milano), io ero arrivato motivato come allora. Baglioni, ho pensato, è un po’ il Rod McKuen de noantri, quello che ha raccontato tutto un mondo di sentimenti e bisogni che quelli più bravi e impegnati di lui trascuravano, con apprezzabili creazioni poetiche intervallate a tutte le combinazioni possibili di pronomi personali e avverbi di tempo. Queste cose, e molte altre, le ho pensate per distrarmi dalla depressione che mi stava prendendo per tutta la prima metà del concerto, che è durato più di tre ore: perché di fatto non è stato un concerto, ma una specie di puntata di Fantastico degli anni Ottanta, o una via di mezzo tra un varietà televisivo demodé e un musical del Re Leone, con un enorme e brutto palco affollato da almeno cento persone, soprattutto ballerini in continuo movimento, e con lo stesso arrangiamento delle musiche per tre ore, come se tutto fosse un’unica canzone ininterrotta (con una sola breve eccezione di Piccolo grande amore al pianoforte). Insomma, ero lì che mi deprimevo – in mezzo a qualche migliaio di miei coetanei e coetanee entusiasti e commossi, cosa che mi faceva sentire estraneo e sbagliato – e pensavo: ma sei Claudio Baglioni, hai un repertorio che potresti anche solo canticchiare seduto sul ciglio del palco per tre ore e saremmo tutti qui ipnotizzati, perché rovinare tutto con questa baracconata? (e coreografie novecentesche completamente incongrue col testo delle canzoni: con l’eccezione di Porta portese Viva l’Inghilterra , che però è stata accompagnata da ballerini in kilt). Che tra l’altro, a 72 anni canti ancora per tre ore come quando ne avevi 27 e tieni la scena che neanche Mick Jagger. Poi però è successo che nell’ultima delle tre ore sono state almeno accantonate dalla scaletta le cose più dimenticabili dagli anni Novanta in poi e, malgrado tutta quella gente molesta in mezzo al palco, la successione di canzoni a squarciagola ha prevalso, e su Avrai mi sono pure un po’ commosso, a far suonare la ringhiera.

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