Come il taglio dei parlamentari ha peggiorato i lavori del parlamento
Ci sono sempre più deputati e senatori costretti a seguire materie diverse e impegni che si accavallano, a fronte di un risparmio economico molto inferiore alle attese
La legislatura che è iniziata col voto del 25 settembre del 2022, quello che ha sancito la vittoria della destra e di Giorgia Meloni, è la prima a cui si è applicata la riduzione del numero dei parlamentari, stabilito da una riforma costituzionale molto promossa per anni dal Movimento 5 Stelle. Per effetto di questa legge, approvata dal parlamento in via definitiva nell’ottobre del 2019 e poi confermata con un referendum nel settembre del 2020, da questa legislatura il numero dei deputati è passato da 630 a 400, quello dei senatori da 315 a 200.
È passato poco meno di un anno e mezzo dall’effettiva entrata in vigore della riforma ed è possibile fare un bilancio: dal punto di vista della qualità dei lavori le cose sono molto peggiorate, mentre sul piano economico non ci sono stati i grossi risparmi pubblicizzati dai promotori della riforma.
Una prima indicazione sui risparmi garantiti dalla riduzione del numero dei parlamentari si può ricavare dai bilanci preventivi per il 2023 pubblicati dagli uffici di presidenza di Camera e Senato, cioè gli organi responsabili della direzione politica e amministrativa delle due camere.
Alla Camera la previsione della spesa per il 2023 è di 970,8 milioni di euro, con una riduzione di 20,7 milioni rispetto al 2022: un calo, dunque, di poco più del 2 per cento. Questo calcolo però tiene conto anche di una spesa straordinaria di 17,8 milioni di euro sostenuta dalla Camera per l’acquisto di due immobili contabilizzato nel bilancio del 2022: due palazzi per i quali finora pagava un affitto piuttosto alto, uno in centro a Roma e uno in provincia a Castelnuovo di Porto. Al netto di questa spesa la riduzione effettiva dei costi della Camera nel 2023 diventa di soli 2,8 milioni di euro rispetto al 2022, cioè lo 0,3 per cento. La riduzione del numero dei parlamentari ha ridotto i costi, ma non in modo sostanziale, e i risparmi sono stati poi compensati dall’inflazione e dell’aumento della spesa per le pensioni degli ex deputati.
Al Senato la spesa prevista per il 2023 è inferiore a quella del 2022 di 11 milioni di euro, da 578 a 567 milioni. Lo si deve in grossa parte alla riduzione del numero dei parlamentari, ma è anche vero che i costi del Senato sono in progressivo e costante calo dal 2012: in dodici anni, come viene segnalato nel progetto di bilancio per il 2023 pubblicato lo scorso ottobre, «il peso finanziario del Senato sulla finanza pubblica» è stato ridotto «di circa 397,3 milioni di euro». Una diminuzione media dei costi complessivi di circa 33 milioni all’anno, che dipende soprattutto da una revisione della spesa, da modifiche del regolamento e dal taglio delle pensioni agli ex senatori e agli ex dipendenti: tutti motivi che non hanno a che fare con la riduzione dei parlamentari.
Se si escludono le spese straordinarie, quindi, i bilanci di Camera e Senato nel primo anno dalla riforma costituzionale certificano una riduzione di circa 13 milioni di euro: in proiezione sull’intera legislatura, cioè per 5 anni, fanno 65 milioni di euro. È un numero molto inferiore rispetto a quello stimato dai primi sostenitori della riforma e anche dal secondo governo guidato da Giuseppe Conte, durante il quale fu approvata, che prevedevano un risparmio di 500 milioni per ogni legislatura.
Al di là degli aspetti economici però la riduzione del numero dei parlamentari ha prodotto effetti non trascurabili anche sul modo in cui deputati e senatori devono svolgere i loro incarichi. E queste conseguenze, per ammissione di moltissimi eletti e funzionari di tutti i partiti, nella stragrande maggioranza dei casi hanno peggiorato la qualità dei lavori.
Il tema più ricorrente alla base delle considerazioni critiche è sempre lo stesso: il numero dei parlamentari si è ridotto di un terzo, ma le materie da seguire sono rimaste le stesse. Questo comporta che ogni parlamentare debba approfondire più argomenti, lavorando più spesso di prima su argomenti che non sono di sua specifica competenza, e finisca quindi per discutere e votare con meno consapevolezza rispetto al passato. Meno tempo e meno energie per informarsi sui vari argomenti, poi, significa anche una qualità del dibattito più scadente.
Per i gruppi parlamentari più piccoli è particolarmente gravoso, e il taglio dei parlamentari ha reso ancora più consistente un disagio che avevano già prima. Un caso è quello di Italia Viva, il partito che ha come leader Matteo Renzi, che alla Camera ha 9 deputati: per partecipare ai lavori di tutte le 14 commissioni ordinarie c’è bisogno che alcuni facciano i doppi turni. In caso di assenza o di indisponibilità di qualcuno, inoltre, una commissione potrebbe restare senza deputati d’Italia Viva e l’intero partito non verrebbe rappresentato: in questi casi gli emendamenti che quel partito ha presentato a un certo provvedimento in discussione decadono senza speranza di essere discussi e approvati.
Le commissioni parlamentari svolgono probabilmente la parte più importante della funzione principale del parlamento, cioè quella legislativa, perché analizzano il testo dei disegni di legge e discutono eventuali modifiche nel dettaglio. Sono spesso i membri delle commissioni, rappresentati in modo proporzionale alla presenza dei partiti in parlamento, a trovare compromessi tra le forze politiche prima che le proposte arrivino in discussione in aula alle camere.
– Leggi anche: Cosa sono e cosa fanno le commissioni parlamentari
Problemi simili a quelli di Italia Viva valgono anche per altre forze politiche: per esempio per il gruppo Misto del Senato, il cui presidente è Peppe De Cristofaro dell’Alleanza Verdi e Sinistra. De Cristofaro è il senatore con maggiori impegni in commissione, e anche per questo i colleghi a volte lo chiamano scherzosamente «l’ubiquo». Tra commissioni ordinarie, straordinarie e organismi bicamerali vari (ci torniamo), De Cristofaro ricopre contemporaneamente nove diversi incarichi: significa seguire nove agende e calendari diversi, studiare documenti che riguardano nove materie, avere incontri con persone e funzionari che si occupano di nove differenti temi, fare accordi politici con decine di altri senatori e vari altri partiti su questioni tra loro molto eterogenee.
Se è particolarmente grave per i partiti piccoli, questo problema ha i suoi effetti anche su quelli più grandi, che erano soliti avere nelle varie commissioni più deputati e senatori, ciascuno esperto di una delle singole materie specifiche affrontate in quella commissione. C’era una divisione dei ruoli e delle responsabilità soprattutto per quel che riguardava le commissioni più importanti (Bilancio, Finanze, Affari costituzionali).
In Affari costituzionali, per dire, un deputato seguiva i temi che riguardavano le riforme costituzionali, un altro l’immigrazione, un altro ancora la pubblica amministrazione: argomenti molto diversi, e assai complessi, che pure vengono trattati in una sola commissione. Ora questa possibilità di spartirsi le materie non c’è quasi più, perché anche i gruppi più numerosi hanno pochi rappresentanti per commissione. Nella Affari costituzionali del Senato, per esempio, il secondo partito di governo, cioè la Lega, ha tre eletti: di questi, uno deve seguire anche un’altra commissione, e le altre due hanno rispettivamente quattro e cinque incarichi contemporanei.
In generale, com’è intuibile, è anche aumentato il problema delle sovrapposizioni: cioè di impegni diversi che si accavallano nella stessa giornata, e talvolta nello stesso momento. Da questo deriva una tendenza sempre maggiore a ritardare l’avvio delle riunioni, a sospendere le sedute o a rinviare la discussione su alcune materie, con una congestione dei lavori che poi si riflette anche sul calendario dell’aula, dove nell’ordine dei lavori i vari provvedimenti arrivano dopo che sono stati già discussi e votati dalle commissioni.
Al Senato si è tentato almeno formalmente di ridimensionare questo problema approvando alla fine della scorsa legislatura un regolamento pensato apposta per rendere meno impattanti gli effetti del taglio degli eletti: vennero accorpate alcune commissioni e il numero ridotto da quattordici a dieci. Alla Camera questa precauzione non fu adottata, si preferì non allestire un regolamento apposito per la riforma costituzionale e avviare una riflessione più strutturale, che poi però rimase in sospeso anche per via della fine anticipata della legislatura dopo la crisi del governo di Mario Draghi nel luglio del 2022.
In ogni caso, anche al Senato la scelta di fondere le commissioni non sembra affatto risolutiva, e anzi in un certo senso ha avuto degli effetti controproducenti. Nell’ansia di accorpare, si sono infatti create commissioni che seguono materie che molti addetti ai lavori giudicano troppo eterogenee. Come la commissione che si chiama “Industria, commercio, turismo, agricoltura e produzione agroalimentare”. Oppure un’altra, la settima, che si occupa contemporaneamente di cultura e patrimonio culturale, istruzione pubblica, ricerca scientifica, spettacolo e sport. Il risultato è un affanno crescente dei singoli eletti nel seguire questioni tanto diverse.
Nonostante la ricerca di accorgimenti per mitigare gli effetti negativi del taglio di deputati e senatori, però, si è deciso di non porre un limite alla creazione di commissioni bicamerali (composte cioè sia da deputati sia da senatori) o di quelle speciali, che non sono state ridotte e anzi continuano a proliferare.
Oltre alle commissioni ordinarie (14 alla Camera e 10 al Senato) ci sono in tutto 21 commissioni bicamerali, 10 giunte e comitati speciali vari per il solo Senato e 8 per la Camera: e a ciò vanno aggiunte le varie commissioni monocamerali e bicamerali d’inchiesta, quelle istituite per indagare su singoli temi, che hanno spesso ragioni più politiche che pratiche. L’esistenza di un numero così grande di commissioni e la contestuale riduzione dei parlamentari che devono frequentarle, infatti, rende assai complicato fare sì che questi organismi lavorino con efficienza e abbiano davvero un senso di esistere.
Oltre agli aspetti procedurali, poi, ci sono le conseguenze che il taglio dei parlamentari ha prodotto sulle consuetudini politiche che caratterizzavano i lavori di Camera e Senato, con ricadute sia sugli atteggiamenti tenuti dalle opposizioni sia sui metodi adottati dalla maggioranza per far passare la propria linea.
Per la maggioranza è spesso più difficile avere la certezza ogni giorno di avere abbastanza parlamentari per far approvare certi provvedimenti: vale soprattutto al Senato, dove le commissioni sono composte da 22 eletti e dove la maggioranza ha di solito non più di tre voti di margine sulle opposizioni, e in alcuni casi solo uno o due. Questo fa sì che aumenti notevolmente la possibilità di andare sotto, come si dice in gergo quando la maggioranza perde in una votazione, ma anche che il peso negoziale di un singolo senatore aumenti, e quindi anche la sua capacità di ricattare i colleghi di maggioranza e di ottenere risultati su battaglie magari personali.
Lo si è visto per esempio in commissione Bilancio, dove nel giugno scorso il senatore di Forza Italia Claudio Lotito ebbe gioco piuttosto facile nell’allestire una piccola ritorsione nei confronti del governo che non aveva accolto una sua proposta di legge sui diritti televisivi delle squadre di calcio di seria A. Oltre a essere senatore Lotito è anche presidente della squadra di calcio della Lazio. Gli bastò arrivare in ritardo con un collega in commissione perché la maggioranza venisse sconfitta in una votazione piuttosto importante, dando un’impressione di debolezza.
Al tempo stesso si è ridotta l’efficacia di alcuni potenziali strumenti a cui le opposizioni potevano ricorrere per complicare la vita al governo. L’ostruzionismo è ormai diventata una pratica ardua da applicare alla Camera, dove il regolamento consentiva in teoria ai gruppi di minoranza di allungare strumentalmente i tempi di discussione di un provvedimento per scombinare i piani della maggioranza: bastava che molti parlamentari d’opposizione si prenotassero per un intervento e usassero tutto il tempo a loro disposizione. Ora sono molti meno e questo metodo ha perso molta efficacia.
D’altra parte col taglio dei parlamentari sono sorti problemi sul cosiddetto “numero legale”, quello necessario perché una seduta in aula sia considerata valida. La regola è che debbano essere presenti almeno la metà più uno degli eletti, al netto di quelli in missione, cioè che hanno impegni istituzionali o politici per cui la loro assenza è giustificata e non viene conteggiata nel calcolo del numero legale. C’è però una quota fissa di parlamentari in missione non eludibile: sono quasi sempre in missione per esempio i presidenti di commissione o i rappresentanti di organismi bicamerali che hanno impegni concomitanti a quelli dell’aula, e lo stesso vale per i deputati e senatori che sono anche membri del governo, cioè ministri e sottosegretari. In tutto questi parlamentari sempre in missione sono tra gli 80 e i 90 alla Camera e una quarantina al Senato.
Quando le opposizioni ritengono che non ci sia il numero legale possono chiedere al presidente di contare i presenti, e se in effetti non risultano le presenze minime la seduta viene sospesa o rinviata. Con la riduzione dei parlamentari è aumentata la frequenza di questo tipo di incidenti, che prima avvenivano assai di rado e ora possono essere usati per scopi politici.