Gigi Riva e la Sardegna
Ci arrivò per caso e con l'idea di lasciarla subito, ma finì per giocare per tutta la carriera col Cagliari e diventò un simbolo dell'isola, rifiutando ogni trasferimento nelle grandi squadre del nord
L’elenco delle squadre per cui giocò Gigi Riva, morto lunedì a 79 anni, è molto breve: il Legnano, con cui esordì in serie C a 17 anni; la Nazionale italiana, di cui è ancora oggi il miglior marcatore, con 35 gol segnati in 42 presenze; il Cagliari. A Cagliari, in Sardegna, giocò praticamente tutta la sua carriera, fino al ritiro avvenuto quando non aveva ancora 32 anni. Negli anni Sessanta e Settanta Riva fu uno dei migliori giocatori italiani e d’Europa: immaginare oggi un giocatore di quel livello impegnato sempre con una sola squadra, peraltro non di quelle solitamente considerate “grandi” e con maggiori possibilità economiche, può sembrare molto strano. Lo era anche allora, in realtà.
Il legame fra Gigi Riva e il Cagliari, nato per caso, fu un’anomalia. E si trasformò in un rapporto strettissimo fra il giocatore e l’intera Sardegna, di cui divenne simbolo e che non abbandonò nemmeno a carriera finita. Per rimanere al Cagliari, a Cagliari e in Sardegna Gigi Riva rifiutò in più occasioni il trasferimento nei grandi club del nord Italia, dove avrebbe guadagnato di più e avrebbe probabilmente avuto più occasioni di vincere, a livello nazionale e internazionale.
Riva arrivò a Cagliari nell’estate del 1963, quando aveva 19 anni e quando l’isola era molto diversa da com’è oggi. La Costa Smeralda, ad esempio, era ancora una zona per lo più disabitata; l’imprenditore e principe Karim Aga Khan IV aveva comprato solo un anno prima i terreni con l’intento di trasformarli in una destinazione turistica. I collegamenti con il resto della penisola erano limitati, l’economia si basava su pastorizia, pesca ed estrazioni minerarie, e lo sviluppo industriale sarebbe arrivato in quegli anni. Il Cagliari giocava in Serie B, e per ridurre i viaggi in “continente” giocava due partite di fila in trasferta: fra una e l’altra faceva base a Legnano, e qui dirigenti e allenatore videro Gigi Riva giocare una partita della Nazionale Juniores. La società lo acquistò per 37 milioni di lire nell’intervallo di quella partita.
Riva, come raccontò più volte, non era entusiasta del trasferimento: nato a Leggiuno, in provincia di Varese, cresciuto in tre diversi collegi dopo la morte prematura del padre (incidente sul lavoro) e poi della madre (cancro), non era mai uscito dal territorio provinciale. Nella sua autobiografia scrisse: «L’ho sempre detto e lo ripeto qui di mio pugno: a Cagliari sbarcai con l’idea fissa di chiedere scusa a tutti e di tornarmene a casa il prima possibile». Arrivò a Cagliari con la sorella Fausta, la maggiore, che gli fece per qualche anno da seconda madre. L’impatto non fu buono, il viaggio piuttosto complesso, su un piccolo aereo che partì a Milano e fece scalo prima a Genova e poi ad Alghero prima di arrivare a Cagliari. Il giorno dopo lo portarono a vedere il campo, quello dello stadio Amsicora, oggi demolito: «Invece dell’erba c’era ’sta sabbia chiara chiara, e dove avrei scoperto col tempo che cadere non era drammatico ma nemmeno così simpatico».
L’idea di trovare un modo per lasciare presto l’isola fu abbandonata in breve: Riva trovò un gruppo giovane e ambizioso e al primo anno ottenne subito la promozione in A. Al Cagliari in quegli anni gli “scapoli”, cioè i giocatori non sposati, vivevano tutti insieme in una foresteria, si allenavano insieme, uscivano insieme, mangiavano insieme: «Ho ancora in mente il menu di una giornata tipo: l’uovo crudo a colazione, a pranzo riso, bistecca e frutta, a cena minestrone, pollo e frutta. Avrei scoperto poi quanto mi piacesse il pesce».
In Sardegna Riva avrebbe poi trovato anche una sorta di figura paterna nell’allenatore Manlio Scopigno, che lo allenò a partire dal 1966. In campo si affermò presto come uno dei migliori attaccanti del campionato, fuori dal campo iniziò ad avere un legame forte con i tifosi, con cui condivideva una sorta di spirito di rivalsa, come spiegò in seguito: «La Sardegna era considerata un’isola penale, una terra di banditi, un posto dove si veniva mandati in castigo. I sardi hanno subìto nel corso dei secoli ingiustizie e abbandono. Il nostro scudetto fu un riscatto enorme. Quando andavamo a giocare a Milano e Torino vedevo l’orgoglio dei nostri tifosi, protagonisti dopo aver subito tante umiliazioni nella vita».
Lo scudetto arrivò nel 1970, il primo e unico della storia del club: Riva era già uno dei migliori giocatori al mondo, arrivato secondo nel 1969 al Pallone d’oro dietro a un altro italiano, Gianni Rivera del Milan. Era già anche Rombo di Tuono, soprannome che gli diede Gianni Brera, noto giornalista sportivo: l’immagine è quella di un’energia che si scatena improvvisamente, «a cui non può non seguire l’acquazzone, il temporale, lo sfogo e, insomma, la liberazione del pallone che finalmente finisce in rete» (fu Riva stesso a raccontare così questa spiegazione che gli diede Brera). L’immagine del “rombo di tuono” peraltro veniva probabilmente da un libro di Grazia Deledda, scrittrice sarda premiata con il Nobel per la letteratura nel 1926. In Cenere, del 1904, Deledda scrisse: «L’ombra addensavasi, il vento urlava sempre più forte, con un continuo rombo di tuono». Brera non ha mai confermato se si fosse ispirato a quell’immagine, ma sono stati in molti a ipotizzarlo.
Lo scudetto del Cagliari non fu frutto di una stagione particolarmente fortunata e imprevedibile: l’anno prima la squadra aveva chiuso al secondo posto, in quello dopo finì settima a causa di un lungo infortunio di Riva, quello successivo chiuse quarta. La squadra, di cui Riva era simbolo e miglior giocatore, aveva tanti giocatori di talento, fra cui spiccavano Enrico Albertosi, Comunardo Niccolai, Mario Brugnera, Pierluigi Cera, Angelo Domenghini, Bobo Gori. Le grandi squadre del nord Italia provarono a prelevare gli elementi migliori.
Il più ricercato era ovviamente Riva, per cui nell’estate del 1973 la Juventus fece una grande offerta: l’avvocato Gianni Agnelli, proprietario della squadra, autorizzò a stanziare due miliardi di lire e a mandare sei giocatori a Cagliari, fra cui Roberto Bettega, Claudio Gentile e Antonello Cuccureddu, per avere Riva e Albertosi. Riva rifiutò, nonostante la promessa di uno stipendio fuori mercato: «Ricordo una manifestazione per farmi restare. E ricordo un’anziana signora, lì, in mezzo ai tifosi. Non sapeva di calcio, ma sapeva che non avrei mai tradito. E fu anche quello a convincermi».
In seguito ci avrebbero provato anche il Milan e l’Inter, ottenendo lo stesso rifiuto: Riva non vinse altro, con il Cagliari, ma stabilì un legame con la squadra e con la Sardegna che andò avanti ben oltre la fine della sua carriera. Si ritirò presto, dopo un grave infortunio, il terzo della carriera: due volte i difensori gli avevano rotto un osso della gamba, in un periodo in cui il gioco duro era molto più frequente e gli attaccanti molto meno tutelati.
L’anno dopo il ritiro entrò nello staff della società, dopo altri dodici mesi nel 1979 ne diventò dirigente e nel 1985, in anni difficili per il club a livello economico e di risultati, assunse le responsabilità della presidenza. Lasciò ogni incarico nel Cagliari nel 1986, dopo 24 anni, ma poi venne nominato presidente onorario nel 2019. Ha sempre vissuto in città e sull’isola: il prossimo stadio del Cagliari, per cui è stato approvato il progetto, porterà il suo nome.
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