In parlamento Fratelli d’Italia e M5S sono meno distanti di quanto sembri
Meloni e Conte appaiono litigiosi ma su MES, giustizia, Rai e nomine i loro partiti trovano spesso importanti convergenze
Negli ultimi tempi i dibattiti in parlamento tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte sono sempre stati molto conflittuali, tra toni accesi, accuse reciproche e battute al limite dell’ingiuria. Lo scorso dicembre, sulla vicenda del MES, il Meccanismo europeo di stabilità che garantisce un fondo di sicurezza finanziaria a banche sistemiche e stati membri dell’Unione Europea in crisi, si è arrivati addirittura alla convocazione del giurì d’onore: Conte ha infatti ritenuto che l’intervento di Meloni abbia leso la sua onorabilità, e si è quindi rivolto a una specifica commissione d’indagine della Camera.
A dispetto di questa esibita litigiosità, però, tra Fratelli d’Italia e il M5S in parlamento c’è spesso una maggiore collaborazione di quanto sembri. In alcuni passaggi particolarmente difficoltosi, ad esempio, la maggioranza di destra ha preferito trovare accordi con il Movimento piuttosto che con altri partiti di opposizione del centrosinistra. E anche in virtù di questo rapporto, i grillini hanno potuto ottenere importanti incarichi di nomina parlamentare, anche a costo di disattendere delle intese col Partito Democratico.
L’ultimo caso che ha alimentato i sospetti di una sorta di “non belligeranza”, quando non proprio di collaborazione, tra Fratelli d’Italia e M5S è stato proprio il voto sul MES. Il 21 dicembre scorso la Camera ha respinto l’approvazione della ratifica del nuovo trattato del MES: a votare contro sono stati Fratelli d’Italia, la Lega di Matteo Salvini e appunto il Movimento. È stata una scelta apparentemente incoerente visto che quell’accordo lo aveva voluto e negoziato Conte quando era presidente del Consiglio, tra il 2019 e il 2020. Matteo Renzi, leader di Italia Viva, ha accusato il M5S di aver salvato Meloni, dicendo che col loro voto i deputati di Conte hanno di fatto evitato che la maggioranza di destra venisse sconfitta nell’aula della Camera, cosa che avrebbe avuto grosse conseguenze politiche per il governo.
In realtà non è andata proprio così. La ratifica della riforma del MES è stata bocciata con 184 voti contrari, 72 favorevoli e 44 astenuti. Se anche si sottraessero i 34 voti contrari del M5S e li si aggiungessero a quelli favorevoli del centrosinistra, non basterebbe a ribaltare l’esito della votazione. La maggioranza sarebbe stata battuta solo nel caso in cui i gruppi di centrosinistra fossero stati tutti presenti in blocco, senza le assenze che ci sono comunque state in tutti i partiti: quel giorno, infatti, oltre a 18 deputati del M5S, ne mancavano anche 17 del Partito Democratico, 2 di Italia Viva, 5 di Azione e altri ancora. Se tutti fossero stati in aula e avessero votato coerentemente, ci sarebbero stati almeno 159 voti a favore del MES, contro i 148 di Lega e Fratelli d’Italia, e la maggioranza sarebbe stata effettivamente sconfitta.
Ma è un calcolo del tutto ipotetico, le occasioni in cui non ci sono assenze tra i gruppi parlamentari sono rarissime. Ma è vero che la scelta del M5S ha escluso a priori qualsiasi possibile incidente per la maggioranza di destra. Già alla vigilia del voto, infatti, i dirigenti di Fratelli d’Italia si erano consultati coi responsabili del M5S alla Camera per assicurarsi il voto contrario dei loro parlamentari. A quel punto per Meloni e Salvini è diventato più facile gestire un passaggio che sarebbe stato altrimenti ben più delicato, visto che nel frattempo Forza Italia aveva deciso di non votare insieme a Lega e Fratelli d’Italia ma di astenersi.
La conclusione è che, di fronte alla prima effettiva spaccatura della maggioranza in parlamento in oltre un anno di governo di Meloni, il M5S ha deciso di votare con la maggioranza essenzialmente per ragioni di propaganda elettorale, cioè perché ha ritenuto più utile ricorrere alla retorica antieuropeista in vista delle elezioni europee di giugno: una direzione che poi è emersa più chiaramente con le successive dichiarazioni di Conte.
Non è comunque la prima volta che in parlamento ci sono convergenze inaspettate tra il Movimento e la destra di Meloni. Forse le scelte su cui questo incontro è avvenuto in modo più palese sono state quelle relative alla Rai, per esempio sulla scelta della presidenza della Commissione parlamentare di vigilanza, l’organismo di almeno quaranta deputati e senatori che controlla la gestione della televisione pubblica. Per prassi, il presidente di questa commissione viene scelto tra gli esponenti delle opposizioni, e in questo caso le opzioni più accreditate erano due: Maria Elena Boschi di Italia Viva o un candidato del Movimento, inizialmente individuato nel deputato Riccardo Ricciardi. Dopo una fase di stallo piuttosto lunga, all’inizio di aprile del 2023 il M5S propose invece la senatrice Barbara Floridia, e su quel nome ci fu una larghissima convergenza tra maggioranza e opposizione, con appena 3 voti su 42 contrari.
I cronisti fecero notare che un’esponente di Italia Viva sarebbe potuta essere più accomodante rispetto a una del Movimento, vista la tradizionale tendenza di quest’ultimo a denunciare con veemenza le storture nella televisione pubblica. Tuttavia Francesco Filini, un importante deputato di Fratelli d’Italia che aveva avuto un ruolo di primo piano nella gestione del negoziato, subito dopo il voto disse che non era affatto scontato che il M5S avrebbe avuto una posizione pregiudizialmente ostile al governo sulla Rai. Mesi dopo si capì che Filini aveva ragione.
A inizio ottobre la Commissione di vigilanza fu chiamata a esaminare il contratto di servizio della Rai, cioè il documento con cui il governo definisce le linee guida che la TV pubblica deve seguire nei cinque anni seguenti, e su cui il parlamento esprime un parere tramite la Commissione di vigilanza. Tutti i partiti di opposizione, dopo aver proposto alcuni emendamenti al testo che erano stati nella stragrande maggioranza dei casi sistematicamente bocciati dalla maggioranza, decisero di votare contro. Tutti tranne il M5S, che invece votò insieme ai partiti di destra, giustificando poi questa scelta col fatto che fossero state accolte delle loro proposte per migliorare il contratto.
Nello stesso periodo ci furono poi alcune nomine gradite al M5S per incarichi importanti dentro la Rai. Giuseppe Carboni, ex direttore del TG1 e molto stimato da Conte, a maggio era stato indicato come direttore di Rai Parlamento, che si occupa di seguire i lavori di Camera e Senato. Nell’autunno seguente, poco dopo il voto del M5S a favore del contratto di servizio, Roberto Gueli venne nominato condirettore del TGR, che cura l’edizione dei telegiornali e delle trasmissioni regionali. Altre giornaliste considerate vicine al M5S, come Luisella Costamagna o Claudia Mazzola, ottennero incarichi e conduzioni di prestigio. Come sempre succede, infatti, i partiti hanno una grossa influenza nel determinare nomine e avanzamenti di carriera in Rai. Ma il fatto che anche un partito che sta all’opposizione ottenga questi riconoscimenti non è scontato.
Un altro caso eclatante di convergenza tra M5S e destra ha riguardato Alfonso Bonafede, storico esponente del Movimento ed ex ministro della Giustizia tra il 2018 e il 2021 nei due governi guidati da Giuseppe Conte, di cui è molto amico.
Nel maggio scorso il parlamento votò per il rinnovo di importanti organi di autogoverno della magistratura: il Consiglio di presidenza della Corte dei Conti e quello della Giustizia tributaria. Sono entrambi composti da undici membri, quattro dei quali vengono votati dal parlamento, due per ciascuna camera. Da mesi il Movimento voleva garantire un buon incarico a Bonafede, non più parlamentare dal settembre 2022: per lui si ipotizzava una nomina al Consiglio superiore della magistratura (CSM), il più importante degli organismi di autogoverno della magistratura, ipotesi però sfumata perché Bonafede non aveva i requisiti di carriera minimi (cioè almeno 15 anni di servizio effettivo come avvocato).
L’occasione buona si ripresentò appunto a maggio, col voto sul Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, cioè l’organo che vigila sui magistrati che si occupano di questioni che riguardano tasse e tributi e che sono in servizio in tutti i capoluoghi di provincia. In parlamento ci fu uno stallo che andò avanti per giorni, anche perché per l’elezione di queste figure è richiesta la maggioranza assoluta, dunque più della metà dei membri di ciascuna camera. Per prassi, dunque, la delicatezza dell’incarico e i regolamenti parlamentari suggeriscono che tra maggioranza e opposizione in questi casi ci sia un accordo, e che anche alle minoranze venga riconosciuta una quota di nomine.
Il Partito Democratico e l’Alleanza Verdi e Sinistra si astennero. Il M5S inizialmente si accodò, ma poi decise di agire in autonomia e votare, garantendosi così che Bonafede venisse eletto dalla Camera. Non era scontato, visto che alcuni esponenti di Forza Italia avevano grosse perplessità su di lui e sul suo lavoro da ministro della Giustizia, ma l’intervento dei massimi dirigenti di Fratelli d’Italia, come il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, fu decisivo.
Effettivamente su alcuni temi giudiziari, per esempio, le posizioni di M5S e Fratelli d’Italia a volte coincidono: un esempio è la proposta di inserire in Costituzione la tutela delle vittime di reati aggiungendo all’articolo 111, quello che fissa i principi per lo svolgimento del processo, questo comma: «La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato». È una vecchia battaglia portata avanti da Fratelli d’Italia fin dal 2018, quando il partito di Meloni era all’opposizione, e su cui poi anche il Movimento si è detto d’accordo.
In Senato c’era stata una prima intesa trasversale in commissione Affari costituzionali, che aveva portato alla fusione di quattro testi analoghi presentati da PD, M5S, Fratelli d’Italia e Alleanza Verdi e Sinistra. Ma poi l’intesa si è rotta.
In commissione Giustizia Forza Italia si è infatti dichiarata molto contraria all’ipotesi, tramite il senatore Pierantonio Zanettin, secondo cui la modifica alla Costituzione rischierebbe di pregiudicare i principi che disciplinano il processo penale, finendo con l’indurre i giudici ad assecondare le richieste delle vittime (o dei loro familiari) di vedere condannato l’imputato. Italia Viva, con il senatore Ivan Scalfarotto, ha condiviso l’argomento, e anche nel PD e nella Lega sono emerse cautele e scetticismi. Invece i senatori, Sergio Rastrelli e Roberto Scarpinato, rispettivamente di Fratelli d’Italia e M5S, sono rimasti dell’idea di modificare in quel senso la Costituzione.