Storia tossica della letteratura italiana
«Nelle antologie scolastiche il sessismo, i pregiudizi di genere, le vittimizzazioni secondarie sono una costante. Le scrittrici sono assenti o relegate al di fuori del “canone”. Da generazioni assorbiamo, anche a scuola, attraverso la letteratura, una “cultura sentimentale” maschile, specchio del tempo in cui è nata, ma inevitabilmente anche modello per il tempo successivo. Le figure femminili della letteratura italiana non si sono mai emancipate dai due stereotipi possibili: l’angelo puro o la subdola tentatrice»
Negli ultimi mesi, anche a seguito del femminicidio di Giulia Cecchettin, si è molto parlato di quanto i modelli culturali dominanti favoriscano la violenza di genere e si è riaffacciato nel dibattito pubblico il tema dell’educazione affettiva a scuola. Per una sorta di riflesso condizionato, la maggioranza delle critiche è stata rivolta alla cultura cosiddetta pop (musica trap e rap, certa televisione, pornografia). Ma è interessante esaminare, proprio perché si parla di scuola, come questi modelli affettivi arrivino anche dalla cultura alta, dai testi che si studiano da generazioni.
Facendo un breve excursus su quanti e quali modelli di relazione siano proposti dai classici della nostra letteratura, il quadro generale è piuttosto chiaro (e desolante): nelle antologie scolastiche il sessismo, i pregiudizi di genere, le vittimizzazioni secondarie sono una costante. Le scrittrici sono assenti o relegate al di fuori del “canone”. Da generazioni assorbiamo, anche a scuola, attraverso la letteratura, una “cultura sentimentale” priva di equilibrio perché espressione di una visione del mondo prettamente maschile. Questa “cultura sentimentale” è inevitabilmente diventata la norma, perché di rado è stata o è oggetto di discussione; specchio del tempo in cui è nata, certo, ma inevitabilmente anche modello per il tempo successivo. Nel corso dei secoli, per esempio, le figure femminili della letteratura italiana non si sono mai emancipate dai due stereotipi possibili: l’angelo puro o la subdola tentatrice.
(Doverosa precisazione: con questo articolo non si vuole mettere in discussione il valore dei capolavori letterari, non si mira a cancellare nessuno dalle antologie né a dare una lettura forzata dei testi con occhio antistorico e acritico. Meno che mai si auspica lo studio di testi “detossicizzati”. Si tenta piuttosto uno sforzo di consapevolezza anche sui testi che ammiriamo e amiamo e che inevitabilmente sono stati modelli interiorizzati, pieni di stereotipi difficili da scardinare).
Fin dalle origini duecentesche, cioè dalla Scuola siciliana prima e dai poeti dello Stilnovo poi, le donne sono “angelicate”, entità astratte che non appartengono neanche alla dimensione terrena. Anzi, meglio se sono morte, come Beatrice di Dante o Laura di Petrarca. Certo, la realtà dei testi e del loro contesto sarebbe più complicata di così, ma quello che rimane di loro sono angeli, idee inafferrabili di purezza, amori impossibili, agenti ispiranti, impalpabili guide verso il divino.
Le donne riottose o infedeli al marito (anche se crudele) bruciano all’inferno: Paolo e Francesca, raro se non unico esempio nelle nostre antologie di amore che oggi definiremmo “sano”, dopo essersi innamorati grazie alla passione condivisa per la lettura finiscono ammazzati e dannati. Vanno all’inferno perché più del sentimento conta il tradimento, dello sposo e del fratello. Dante lascia trapelare la propria pena (infatti sviene), ma la condanna è senza appello.
Nella triade dei padri delle nostre lettere, Boccaccio è quello che viene percepito come “più avanti” perché nel Decameron affida alle donne il ruolo centrale di narratrici e ne fa spesso le protagoniste delle novelle. Però Nastagio degli Onesti, una tra le novelle più antologizzate, è una vera e propria apologia del femminicidio. Il nobile Nastagio non viene corrisposto dall’amata nonostante la riempia di attenzioni e regali, ma alla fine trova il modo per convincerla facendola assistere, durante un banchetto all’aperto, a una scena di fantasmi in cui una giovane nuda è inseguita e uccisa dall’amante rifiutato che dà in pasto ai cani il suo cuore e le sue interiora (la scena si ripete in loop). Ovviamente l’amata, sconvolta dalla scena, si convince a sposare Nastagio: lieto fine. La storia è brutale e la morale agghiacciante, eppure continua a essere inserita nelle antologie: la ragazza sbranata dai cani se l’è cercata perché non ricambia l’amore di un uomo. Di Boccaccio, forse, si potrebbe scegliere anche altro, come la novella di Filippa da Prato, che si difende in tribunale dalla condanna a morte per aver tradito il marito e riesce a essere assolta solo perché dimostra che le donne sono schiave della loro insaziabile lussuria.
Ma andiamo avanti. Altri mostri sacri: Ariosto e Tasso. Nei poemi cavallereschi l’amore è tema centrale. Nell’Orlando Furioso le due principali storie d’amore non sono soltanto amori tormentati da circostanze avverse, ma mettono in scena una gamma di reazioni che oggi sarebbero annoverate come gravi patologie psichiatriche. Orlando è innamorato di Angelica, la bellissima e capricciosa principessa orientale di cui tutti si innamorano al primo sguardo (finora, a parte Paolo e Francesca, non abbiamo ancora sentito parlare di un amore che sia nato conoscendo una donna o parlandole, basta sempre e solo l’apparizione, la visione di una bella fanciulla). Quando il paladino cristiano scopre che Angelica è innamorata di Medoro, che è solo un fante e per di più saraceno, diventa matto («a farsi moglie d’un povero fante» «l’ingrata donna venutasi a porre col suo drudo», sono versi di orgoglio ferito che sembrano i tris-trisavoli del famoso «è andata a casa con il neg*o, la t*oia» che si ascolta in Colpa d’Alfredo di Vasco Rossi, oggi riconsiderata scorretta).
Orlando passa gli stadi psicotici della negazione della realtà e dell’autoinganno, accusa terzi immaginari che vogliono «infamare il nome della sua donna», poi si dispera, piange e si lascia andare a una furia cieca, devastando tutto quello che trova fino a spogliarsi delle armi, perché «tradito» anche nell’onore di cavaliere. A nessuno verrebbe in mente di gettar fango sui versi della pazzia di Orlando che abbiamo studiato con passione, ma se ci astraiamo un attimo, quello che ci raccontano è una follia distruttrice considerata legittima perché scatenata dalla gelosia.
Angelica non è l’unica personaggia: c’è Bradamante che si muove sotto le mentite spoglie di un valoroso cavaliere perché, per essere interessante, una donna deve compiere gesta da uomo. E poi c’è Isabella che, separata dal suo Zerbino, subisce molestie e rapimenti da innumerevoli uomini e alla fine progetta il suicidio per sottrarsi allo stupratore Rodomonte che prima la decapita e poi, pentito, le costruisce un mausoleo.
– Leggi anche: L’Orlando furioso ha 500 anni
Torquato Tasso, nella Gerusalemme liberata, sembra compiere un passo avanti nel tratteggiare personaggi femminili più complessi. Le sue storie d’amore principali sono entrambe ad altissimo tasso di violenza perché nati tra fedi nemiche: Clorinda e Tancredi (in duello lui ammazza lei riconoscendola sotto l’armatura solo dopo averla ferita a morte, e la figura ribelle della donna guerriera svanisce quando lei, prima di morire, chiede al suo uccisore di battezzarla).
Armida e Rinaldo sono protagonisti di un finale più lieto, ma senza esclusione di colpi. Armida è una bella maga pagana, che tenta decine di crociati con promesse erotiche, intrappolandoli nel suo giardino incantato. Quando l’amato Rinaldo riesce a liberarsi, lei diventa una furia e scatena i suoi guerrieri contro di lui. Vorrebbe ucciderlo lei stessa ma quando lo vede si rende conto di amarlo e fugge per tentare il suicidio come soluzione al male d’amore («e sia la morte medicina al core»). Rinaldo però la salva e anche Armida, fine dell’aspetto sovversivo di questa figura di donna magica e volitiva, si converte, si sottomette a Dio e alla volontà di Rinaldo, con parole che ricalcano quelle di Maria: «Ecco l’ancilla tua, d’essa a tuo senno dispon – gli disse – e le fia legge il cenno». Lieto fine grazie alla sottomissione totale a Dio e all’uomo. Amen.
I secoli scorrono, le pagine delle antologie pure, ma l’adagio contemporaneo «se ti fa stare male, non è amore» è sistematicamente contraddetto dai testi di scuola, che paiono a supporto della teoria opposta: se non fa male non può essere vero amore. Così l’Alfieri, «uom, di sensi, e di cor, libero nato», sembra tenere molto al potenziale di ribellione umano, donne incluse, ma poi nelle sue opere non se ne salva una. In uno dei suoi sonetti più famosi (il CIX delle Rime) quando deve mettere in scena i due sentimenti contrastanti che lo tormentano senza requie, ira e malinconia, quale metafora usa? «Due fere donne, anzi dure furie atroci/tor non mi posso (ahi misero!) dal fianco». Due donne feroci, due furie che lo tormentano.
Nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, l’infelice Jacopo, innamorato di Teresa, promessa sposa a un uomo che non ama, si ammazza (come il giovane Werther di Goethe), dopo averle scritto una lettera che oggi sarebbe portata a esempio di vittimismo passivo-aggressivo: «Ma io moro incontaminato, e padrone di me stesso, e pieno di te e certo del tuo pianto! …consolati, e vivi per la felicità de’ nostri miseri genitori; la tua morte farebbe maledire le mie ceneri!».
Con il Settecento e i liberi pensatori, le donne sembrano avere finalmente qualche forma legittima di potere decisionale sulla loro vita sessuale, eppure il mito del seduttore irresistibile, amato dalle donne e invidiato dagli uomini, non ha mai avuto un corrispondente femminile. In Storia della mia vita per Giacomo Casanova, il libertino per antonomasia, le donne sono prede più o meno difficili da conquistare, e di cui fare un mero, infinito e trito elenco. Diciamo “casanova” e “dongiovanni”, ma non esiste un corrispondente né letterario né linguistico positivo e non dispregiativo per definire una donna che abbia stuoli di uomini. Non si è mai ancora letta la storia di una donna sessualmente libera che venga raccontata con avventurosa allegria o in cui lei non faccia una brutta fine.
Goldoni, idem. Certo, una delle sue commedie più lette e rappresentate, sempre presente nelle antologie scolastiche, ha per protagonista una donna apparentemente emancipata e autonoma. Era ora!, verrebbe da dire. In realtà La locandiera, a leggere bene, non è che una versione un po’ più allegra di uno dei due ruoli concessi alle donne: cioè la furba manipolatrice, che con sataniche capacità seduttive porta tutti gli uomini, anche quelli meno ingenui, a fare quello che vuole lei senza che loro possano opporre resistenza.
Non sono incluse nelle antologie di letteratura italiana, ma fanno senz’altro parte della nostra formazione, le opere liriche. Ma per molte non sarebbe un’idea così balzana proiettare sui sipari prima dell’inizio: «Attenzione: amori tossici, stereotipi di genere, femminicidi, victim blaming». Infatti, le protagoniste del bel canto fanno una cosa sola: muoiono giovani disperate per amore. Solitamente suicide o di tisi come nella Traviata, l’opera più rappresentata di sempre (dove, si capisce fin dal titolo, l’impronta colpevolizzante è assai più forte che nel testo francese a cui si ispira, La signora delle camelie di Alexandre Dumas figlio). Violetta, “donna di mondo”, deve lasciare Alfredo perché potrebbe compromettere il matrimonio della sorella di lui «pura sì come un angelo».
Muore di tisi pure Mimì nella Bohème, del resto Puccini non ne salva una. Madama Butterfly è una ragazzina sedotta e abbandonata che resta fedele al marito pure se lui se n’è andato e ha sposato un’altra, e quando lui torna per riprendersi il figlio lei non solo glielo lascia perché lui lo cresca con l’altra moglie, ma si ammazza pure. Nella Turandot Liù si uccide pur di non rivelare il nome dell’amato e anche Tosca, nonostante la rivendicazione alquanto emancipata del suo «vissi d’arte e vissi d’amore» e la sua capacità di gestire trame politiche, vendette e salvataggi, finisce per buttarsi giù dai bastioni di Castel Sant’Angelo, perché senza l’amore della sua vita la vita stessa non ha più senso.
Tornando alle antologie, ecco gli immancabili dell’Ottocento:
campione dell’amore infelice, Giacomo Leopardi. Ringraziamo tutta questa infelicità per averci regalato dei capolavori, ma la povera Silvia che lui spiava mentre studiava e lei era «all’opre femminili intenta», e la ragazza della Sera del dì di festa, che dorme e ovviamente ignora i tormenti di lui, sono figurine monodimensionali di ragazze ingenue, inconsapevoli, sempliciotte che non possono capire il senso della vita, meno che mai l’ingiustizia del mondo al contrario di Giacomo, una sorta di incel ante litteram che le spia di nascosto e non manca di sottolineare di essere sistematicamente rifiutato: «Questo dì fu solenne: or da’ trastulli / Prendi riposo; e forse ti rimembra / In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti / Piacquero a te: non io, non già ch’io speri».
Che dire dei grandi libri per ragazzi di fine Ottocento? In Cuore di Edmondo De Amicis e in Pinocchio di Carlo Collodi le donne sono assenti. I protagonisti sono maschi ma ci sono alcune comprimarie, in Cuore ricordiamo la maestrina dalla penna rossa, brava ragazza materna e dolce, dedita al suo lavoro di educatrice, che però ha originato un facile insulto sessista, dato che appena una donna tende ad argomentare correggendo eventuali errori dell’interlocutore, le viene dato della «maestrina dalla penna rossa».
In Pinocchio l’unica donna in azione è la fata dai capelli turchini, che più idealizzata di così… Tanto per ricordare quanto la letteratura sia un modello relazionale, in psicologia si parla di «sindrome di Pinocchio e della Fata turchina» per descrivere il rapporto di coppia disfunzionale in cui lei si prende cura e risolve tutti i problemi mentre lui continua a combinare guai e chiedere perdono, che lei non vede l’ora di accordargli, in una relazione di co-dipendenza disfunzionale.
Quanto alla grande prosa, anche in quel capolavoro dei Promessi sposi non mancano esempi tossici, benché condannati da Manzoni, di uomini potenti abituati a disporre delle donne contro la loro volontà: Don Rodrigo che ha messo gli occhi su Lucia o il padre di Gertrude che la costringe a farsi monaca, tanto per citare i due più noti. Le figure femminili sono fondamentali e molto articolate ai fini narrativi, ma si riducono di fatto ancora ai due modelli possibili, la innocente timorata di Dio costruita sul modello della Madonna (Lucia), e la donna perduta senza possibilità di salvezza (la monaca di Monza è sì vittima della feroce violenza psicologica della sua famiglia, ma è incapace di sottrarsi al suo desiderio – «e la sventurata rispose» – e una volta a contatto con il male non riesce più a uscirne, restando invischiata in trame di sangue sempre più torbide che la porteranno alla perdizione senza possibilità di redenzione, che invece è concessa ad alcuni importanti personaggi maschili, come l’Innominato o Fra’ Cristoforo che, dopo avere incontrato e vissuto il male, sono in grado di contrastarlo e convertirsi).
Un altro testo spesso presente nelle antologie è la novella La Lupa di Giovanni Verga, dove la donna è l’incarnazione demoniaca della malia femminile che corrompe gli uomini, in particolare uno, il genero, “vinto” dalla tentazione e dal male, che per liberarsi della Lupa può solo ucciderla. Poco importa che, in cambio dei suoi favori sessuali, lui avesse chiesto la giovane figlia della donna in sposa contro la volontà della ragazzina: il demonio che vince su tutti è la Lupa, una malvagia assoluta che non merita la pietà di nessuno, nemmeno del prete, figurarsi del lettore. Basti la descrizione iniziale:
«Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna e pure non era più giovane; era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano La Lupa perché non era sazia giammai – di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d’occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti all’altare di Santa Agrippina».
Nel Novecento tutto dovrebbe cambiare, invece non è così. Dei poeti nelle antologie Giovanni Pascoli è forse il più cringe (per dirla come boomer che imitano la gen Z) con quella relazione semi incestuosa con le sorelle, tutta «nidi che fremono». Le due fanciulle della Digitale purpurea ricordano proprio le sorelle di Pascoli – Maria, «semplice di gesti e di sguardi» e Rachele, mora dallo sguardo ardente (aridaje con il dualismo donna angelo/donna demonio) e si vagheggia sui morbosi ricordi di quella delle due che ha provato la traumatizzante e dolce esperienza del fiore velenoso, simbolo dell’esperienza sessuale.
Le donne in D’Annunzio, facciamo presto, lui indomito fascinoso eroico conquistatore, loro, muse che si dividono tra inutili figurine da collezionare o sensuali maliarde. Tertium non datur, ah sì, le madri, nuove angelicate (del focolare) che a un certo punto figliano per la patria sono molto stimate dal fascismo.
Pirandello, modernissimo: nel racconto La signora Frola e il signor Ponza tutto ruota attorno alla imprendibile doppia verità raccontata dai due protagonisti, suocera e genero, che si danno dei pazzi a vicenda pur avendo un rapporto di stima e affetto reciproci. In entrambe le loro opposte versioni resta sullo sfondo, come fatto accettabile, che la figlia/moglie venga segregata in casa e impossibilitata ad avere contatti con il mondo a causa della grande gelosia del marito, sua «totale esclusiva d’amore», ma che rimanga comunque appagata e serena. Certamente.
Nei programmi ministeriali, che arriverebbero all’oggi, difficilmente si va oltre La coscienza di Zeno di Italo Svevo: il tormento, la psicanalisi, Joyce e Freud, il fallimento, l’identità in crisi… e le donne? Di nuovo comprimarie il cui spessore psicologico viene perlopiù ignorato: Zeno frequenta quattro sorelle, Ada, Alberta, Anna e Augusta, e ovviamente si innamora della più bella, Ada, eppure lo spazio che viene dato alla descrizione della sua personalità e alle motivazioni del suo rifiuto è minimo. A contare è soltanto Zeno, il suo desiderio di matrimonio come una sorta di “cura” e il confronto con Guido, l’uomo che Ada gli preferisce. Zeno finirà per chiedere in sposa Augusta, «la più brutta», confessandole di averla scelta come ripiego. Nel romanzo, cioè nella finzione letteraria, il loro sarà un matrimonio felice, perché Augusta accetta di essere la donna «che voglia vivere per lui», la moglie ideale, amorevole e accudente, che alle nevrosi di Zeno e alla sua infedeltà saprà rispondere con mitezza e spirito di sacrificio. La felicità di coppia nel Novecento, insomma, si raggiunge con lei che sopporta: è forse una novità?
A volte a scuola si arriva anche ad Alberto Moravia (lo scorso anno, per esempio, all’esame di Stato c’era una traccia su Gli indifferenti, storia assai tossica in cui una madre e una figlia si contendono un amante) che racconta le donne come vacue opportuniste borghesi, quasi mai slegate dalla dimensione erotica, l’unica in cui sembra abbiano il potere di muoversi per esercitare la propria volontà (concedersi a un uomo, negarsi, sfruttare il desiderio di lui).
Insomma, ci pare che, parlando della possibilità di portare nelle scuole l’educazione all’affettività, male non sarebbe riflettere anche su come le figure esemplari della letteratura italiana, proprio per la loro potenza, non offrano solo un riflesso dei tempi in cui sono state scritte, ma abbiano via via modellato l’immaginario collettivo continuando a perpetuare cliché, tossicità, giustificazioni alla violenza di genere. Un primo passo potrebbe essere dare più spazio alla discussione e alla decostruzione di questi modelli, per contestualizzarli meglio e sottolineare i luoghi in cui si possono annidare subdolamente gli stereotipi più duri a morire. Soprattutto, però, bisognerebbe dare più spazio alle autrici – non solo contentini – per offrire prospettive più ampie, voci meno stereotipate e più verosimili. Ma di materiale su cui discutere per un’educazione sana agli affetti, anche solo per contro paradigmi, ce n’è già veramente tantissimo.