I remake nei videogiochi funzionano bene
Le riedizioni di vecchi titoli migliorate nella grafica o ampliate nella storia sono sempre di più, e ci sono buone ragioni
di Alessandro Zampini
Il 19 gennaio è uscito The Last of Us Parte II Remastered, una nuova edizione del videogioco sviluppato da Naughty Dog e pubblicato da Sony nel 2020, che era stato una delle produzioni più importanti della scorsa generazione di console. Non solo per l’elevatissimo valore produttivo del gioco, realizzato con grandi risorse per mettere in risalto le capacità tecniche della console e il talento del team di sviluppo, ma anche per la sceneggiatura, che affrontava temi complessi in modo non scontato e includeva personaggi molto sfaccettati, con cui si poteva empatizzare anche mentre compivano azioni imperdonabili. Il successo della serie, che nacque su PlayStation 3 nel 2013, l’aveva portata ad avere lo scorso anno un adattamento televisivo prodotto da HBO di cui si era parlato molto bene, che aveva saputo, pur con qualche limite, riproporre con una certa fedeltà l’atmosfera del videogioco.
Sony, la società che produce la PlayStation, aveva cercato di capitalizzare al massimo il successo di The Last of Us anche prima: nel 2014, a un solo anno di distanza dall’uscita su PlayStation 3 del primo capitolo, aveva infatti pubblicato l’edizione per PlayStation 4, che esattamente come The Last of Us Parte II Remastered aggiungeva solo qualche miglioria grafica marginale, aggiornandolo di fatto alla piattaforma più recente sul mercato. A settembre del 2022 poi, in vista proprio dell’uscita della serie televisiva, era uscito un remake per PlayStation 5 del primo The Last of Us, ricostruito sull’infrastruttura tecnologica del capitolo più recente con la struttura e le meccaniche di gioco inalterate.
Proporre nuove edizioni di videogiochi già usciti non è certo una novità, ma negli ultimi anni questa tendenza ha raggiunto dimensioni ragguardevoli. Fino a pochi anni fa le console erano costruite con componenti estremamente specifici che ogni produttore sfruttava in base alle proprie esigenze, e i giochi erano distribuiti su formati (le cartucce prima, i dischi e le memory card dopo) diversi e perlopiù incompatibili tra loro, cosa che rendeva la trasposizione dei giochi da una piattaforma all’altra estremamente complessa e costosa.
Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, grazie soprattutto ad Atari e a Nintendo, le console iniziarono a diffondersi nelle case delle persone: la potenza di calcolo di queste macchine era limitata se paragonata a quella attuale, ma cresceva in maniera sensibile a ogni salto generazionale. Questo faceva sì che gli sviluppatori si concentrassero perlopiù sul creare nuovi giochi che potessero sfruttare al massimo le console più moderne, lasciando poco spazio per il recupero dei giochi precedenti.
Nonostante già negli anni Ottanta alcuni editori avessero portato alcuni dei loro giochi già pubblicati su altre piattaforme (questa operazione era conosciuta come “conversione”), talvolta modificandoli per renderli più attuali, fu solo nei primi anni Duemila che gli sviluppatori dalla storia più lunga come per esempio Nintendo, SEGA o Capcom iniziarono a immaginare i vecchi giochi del loro catalogo come prodotti da attualizzare e proporre una seconda volta a un nuovo pubblico. Fu proprio Capcom tra le prime aziende a sperimentare in questo senso con Resident Evil, una delle sue serie di più grande successo.
Nel 2001 infatti lo sviluppatore si accordò con Nintendo per portare i capitoli già pubblicati sulle precedenti console anche su GameCube (la console casalinga di Nintendo del momento). Alcuni capitoli vennero semplicemente convertiti (Resident Evil 0, 2 e 3), mentre il primo gioco della saga, uscito originariamente nel 1996, venne riproposto come un remake che oltre a migliorare sensibilmente la grafica ne espandeva la trama e aggiungeva nuovi contenuti e nuove meccaniche di gioco, aggiornando quelle originali ai gusti più moderni. Dopo questa operazione Capcom continuò a riproporre i giochi della serie Resident Evil con remake sempre più elaborati e complessi, molto apprezzati da critica e pubblico.
«Il remake di un gioco», disse Yoshiaki Hirabayashi, producer di Capcom, «può offrire ai giocatori un’esperienza totalmente nuova, mentre evoca i ricordi che questi hanno del gioco originale, il che esercita un fascino diverso da quello di un gioco completamente nuovo». L’avanzamento tecnologico ha permesso ai produttori delle console di abbandonare progressivamente complicati chip e architetture tecniche di proprietà, rendendo le console sempre più simili per costruzione ai computer, e rendendo anche lo sviluppo dei giochi più semplice e soprattutto più adatto a essere poi distribuito su tutte le piattaforme compatibili. In questo modo, e anche grazie all’enorme diffusione della distribuzione digitale dei videogiochi, il numero dei remake e delle conversioni dei giochi del passato è enormemente aumentato in un tempo relativamente breve.
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I nuovi mezzi tecnologici però non hanno permesso solo agli sviluppatori di adattare più facilmente il loro lavoro, ma anche di seguire nuove strade che prima, a causa dei limiti tecnici delle macchine, non erano nemmeno pensabili. Mattia Ravanelli, autore della newsletter Le parole dei videogiochi e giornalista del settore dal 1996, divide idealmente questo tipo di operazioni in quattro categorie. Ci sono le “Riedizioni”, nelle quali il gioco è riproposto in maniera quasi identica ad altre versioni già disponibili al netto di qualche marginale miglioramento tecnico; i “Remaster”, in cui l’intervento maggiore dello sviluppatore è legato all’aspetto grafico; i “Remake grafici”, nei quali invece l’aspetto grafico è totalmente ricostruito e non solo migliorato o aggiornato; e infine i “Remake”, nei quali il gioco viene di fatto rifatto da zero e ne vengono modificati elementi portanti come il sistema di controllo, di gioco e a volte persino la storia.
A quest’ultima categoria appartengono alcune delle riedizioni più apprezzate degli ultimi anni, come Resident Evil 2 (Capcom, 2019) o Final Fantasy VII Remake (Square Enix, 2020), che ha re-immaginato il gioco originariamente pubblicato su PlayStation nel 1997, creandone di fatto uno totalmente nuovo che dall’originale prende i personaggi, l’ambientazione e gran parte della trama.
Yoshinori Kitase, che aveva diretto l’originale del 1997 ed è stato il produttore del remake, ha spiegato sul sito Inverse come nel mondo dei videogiochi sia più facile creare dei remake di successo rispetto al cinema: «dal punto di vista della realizzazione tecnica i film si sono certamente evoluti: da quelli muti a quelli sonori, da quelli in bianco e nero a quelli a colori, da quelli in due dimensioni a quelli in 3D, ma il nucleo centrale dell’esperienza, cioè degli attori che interpretano dei personaggi mentre sono ripresi in location reali, non è cambiato».
Nei videogiochi, molto più che nel cinema, è centrale l’elemento tecnologico. I videogiochi, essendo un prodotto prima tecnologico che artistico o narrativo, sono più legati al preciso momento storico in cui escono, il che li rende meno universali (giocare a un gioco di trent’anni fa o vedere un film di trent’anni fa non è la stessa cosa). Ma nello stesso modo più adatti a essere re-immaginati e ricostruiti. «Per rendere differente un film dal suo remake è necessario cambiare la trama, l’ambientazione e altri aspetti del film» ha scritto sempre Kitase. «D’altro canto invece i videogiochi si sono enormemente evoluti da quelli con i pixel in due dimensioni a quelli tridimensionali in computer grafica, grazie anche ai miglioramenti del motion capture [una tecnica che permette tramite l’utilizzo di tute e sensori di ricreare i movimenti e le espressioni di un attore in un ambiente virtuale] e dell’intelligenza artificiale. Anche se il gioco fosse rifatto tale e quale l’esperienza del giocatore cambierebbe drasticamente».
Un altro elemento chiave del successo di queste riedizioni (elemento peraltro comune anche a cinema e televisione) è quello legato alla nostalgia. Nel 2016 Nintendo commercializzò il Nintendo Classic Mini, una piccola console con le fattezze del NES originale (la prima console casalinga di Nintendo, uscita nel 1983 in Giappone) che si può attaccare al televisore tramite un cavo HDMI e con al suo interno 30 giochi pubblicati tra gli anni Ottanta e Novanta.
Visto il grande successo dell’operazione, negli anni successivi fecero lo stesso anche Sony, SEGA e Commodore, che produssero versioni simili delle loro console, tutte con una selezione di titoli a cui si può giocare tramite emulazione, un processo che permette a un computer di far funzionare le versioni digitali dei vecchi giochi, chiamate ROM, anche se queste sono state realizzate per altre piattaforme. Dal 2016 in avanti il numero di remake e remake grafici è costantemente aumentato e ha coinvolto pressoché tutti i grandi editori, che in base al successo e all’apprezzamento del gioco originale hanno optato per interventi più o meno massicci sui giochi che intendevano riproporre.
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Sony per esempio ha affidato a Bluepoint Games, uno studio specializzato proprio in remake che ha successivamente acquisito, la nuove edizioni di Shadow of the Colossus (Team Ico, 2005) e di Demon’s Souls (FromSoftware, 2009), che è diventato uno dei più apprezzati giochi di lancio di PlayStation 5. Electronic Arts ha recentemente pubblicato il remake di Dead Space, gioco horror del 2008 di Visceral Games mentre Nintendo, probabilmente la più attiva nell’aggiornare il suo vecchio catalogo, solo quest’anno ne pubblicherà almeno due: Mario vs. Donkey Kong, originariamente uscito su Game Boy Advance nel 2004 e Luigi’s Mansion 2 HD, che è stato pubblicato la prima volta per 3DS nel 2013.
Il successo dei remake e dei remake grafici non è legato solo al rifacimento dei videogiochi di maggior successo o a quelli che possono essere definiti classici, ma coinvolge anche produzioni considerate minori, come ad esempio SpongeBob SquarePants: Battle for Bikini Bottom (Heavy Iron Studios, 2003), Super Mario RPG (SquareSoft, 1996) o Spyro Reignited Trilogy (Toys for Bob, 2018), giochi rivolti a specifiche nicchie (come i bambini o gli appassionati di un genere specifico) che raramente figurano nelle liste dei più rilevanti della loro epoca ma che hanno in qualche modo lasciato un segno sulle rispettive generazioni di giocatori.
Secondo Alyse Knorr, autrice di Super Mario Bros. 3 e GoldenEye 007, pubblicati da Boss Fight, la possibilità di visitare e interagire con questi mondi virtuali ricostruiti e appartenenti alla propria infanzia genera un tipo di nostalgia più “potente” rispetto a quella che si può provare vedendo il remake di un film, capace di «riportarti a quando ci giocavi a sette anni».
Negli ultimi anni i remake più audaci si sono dimostrati anche quelli più di successo. Il remake di Resident Evil 2 ha venduto oltre 12,5 milioni di copie ed è diventato il capitolo più venduto della serie, superando anche gli ultimi usciti per le nuove console. Final Fantasy VII Remake invece ha venduto oltre 7 milioni di copie ed è stato il più venduto in assoluto negli Stati Uniti nel mese della sua uscita. Nonostante per gli editori puntare sui remake sia meno rischioso rispetto al lanciare una nuova proprietà intellettuale, la riuscita di queste operazioni non è automatica, e diventa tanto più delicata quanto il gioco è importante e amato.
Shaun Escayg, uno dei registi del remake di The Last of Us Parte I, ha detto in una recente intervista che è importante indovinare l’approccio giusto con cui si lavora su questo tipo di remake. «Avere tutta la tecnologia», dice Escayg, «non significa sempre che se aggiungiamo qualcosa otterremo un gioco migliore». Un altro importante aspetto di cui bisogna tenere conto secondo Kitase è poi «l’attaccamento emotivo dei fan nei confronti dell’opera originale». Kitase si riferisce a quello che lui chiama “filtro nostalgia”, una percezione distorta riferita a quando si era più giovani che fa ricordare i propri giochi preferiti del passato molto più belli di quanto in realtà non fossero. Chi crea un remake o va a lavorare su un gioco del passato, conclude Kitase, deve quindi provare non solo a creare un prodotto valido, ma anche rendere giustizia ad aspettative che spesso si basano su ricordi amplificati proprio dal filtro nostalgia.