Il saluto romano non era davvero romano
Fu uno dei simboli più potenti del fascismo e del nazismo, ma anche se si chiama così non c'è alcuna testimonianza storica o artistica che lo ricolleghi all'antica Roma
Il cosiddetto saluto romano è uno dei simboli più visibili del periodo fascista, tanto che in Italia torna ciclicamente al centro di dibattiti e casi giudiziari. Viene chiamato così perché all’inizio del Novecento era opinione diffusa che il gesto di tenere il braccio destro teso verso l’alto con le dita strette e il palmo rivolto verso il basso fosse diffuso nell’antica Roma, eppure non c’è alcuna testimonianza letteraria o artistica che lo dimostri: in poche parole, il saluto fascista attribuito agli antichi romani e definito “romano” non era davvero romano.
Come ha notato lo storico e giornalista Matteo Luca Andriola, per affrontare la questione bisogna partire dal presupposto che l’immaginario collettivo del regime fascista «nasce da una mitizzazione del passato imperiale romano», a cui si ispirava buona parte dell’ideologia del movimento. Si crede che uno tra i primi ad aver usato questo tipo di saluto in Italia fosse stato il poeta Gabriele D’Annunzio durante la cosiddetta “impresa di Fiume”, cominciata nel 1919, in un contesto che si potrebbe definire proto-fascista. Il gesto cominciò poi a essere usato diffusamente dal Partito Nazionale Fascista a partire dal 1923 e dal 1926 divenne anche il saluto ufficiale del Partito Nazionalsocialista Tedesco, spesso associato al motto “Heil Hitler”.
Il fatto è che non esiste un singolo prodotto artistico dell’antica Roma – una scultura, una moneta o un affresco – che mostri un saluto simile a quello usato da fascisti e nazisti. Lo storico Martin Winkler, autore del primo studio sistematico sull’origine del saluto fascista, nel 2009 ha osservato che non se ne trova traccia nemmeno nella letteratura, e non è mai citato da alcuno storico di età repubblicana o imperiale.
Nel suo libro In posa. L’arte e il linguaggio del corpo il divulgatore inglese Desmond Morris ha detto che la sua attribuzione all’antica Roma da parte dei due regimi è «un errore storiografico diffuso».
Il gesto di sollevare la mano destra oppure di alzare il braccio nella cultura romana c’era, ma aveva significati diversi. Nell’antichità si alzava la mano destra come simbolo per rendere onore o esprimere fedeltà, amicizia e lealtà, racconta sempre Andriola.
Certe opere di epoca romana come la Colonna Traiana (101-106 dopo Cristo) raffigurano soldati che alzano la mano aperta per salutare un po’ come faremmo noi oggi, ma senza tendere il braccio, nota Winkler. Alcuni suoi fregi mostrano anche barbari con le braccia tese o piegate ma verso il basso, in segno di sottomissione all’imperatore. In altre invece è l’imperatore ad alzare leggermente il braccio, tenendolo sempre leggermente piegato, con il palmo della mano in verticale o comunque con le dita aperte. Lo fa anche l’uomo togato della scultura del primo secolo avanti Cristo nota come l’Arringatore.
Nell’antica Roma alzare il braccio insomma era un gesto di augurio, di buon auspicio o un segnale per richiamare l’attenzione verso un discorso rivolto ai legionari, scrivono gli storici Andrea Giardina e André Vauchez nel libro Il mito di Roma. In nessun caso comunque le opere dell’antichità classica mostravano un saluto simile a quello fascista.
Secondo Winkler la credenza che nell’antica Roma ci si salutasse con il braccio destro teso verso l’alto o parallelo al suolo si è consolidata in tempi moderni, in particolare dalla fine del Settecento. Diversi storici, tra cui appunto Winkler, sostengono che c’entrino dipinti di ispirazione neoclassica come “Il giuramento degli Orazi” di Jacques-Louis David (1784) o “Ave Caesar! Morituri te salutant” di Jean-Léon Gérôme (1859), che raccontavano o rielaboravano figure leggendarie e vicende tipiche dell’epoca romana, in maniera più o meno accurata.
Il primo è conservato al Louvre e riguarda la leggenda dello scontro tra gli Orazi di Roma e i Curiazi di Alba Longa. Nel dipinto si vede il padre degli Orazi porgere le armi ai suoi tre figli, che lo salutano con il braccio teso, come giuramento di fedeltà. Il secondo invece mostra un gruppo di gladiatori che tende il braccio verso la tribuna, probabilmente per ottenere la clemenza di un imperatore. Non ci sono però testimonianze che i prigionieri si rivolgessero agli imperatori in quel modo: «è più probabile che tendessero la mano con il palmo in su, in segno di supplica», dice Morris.
Un saluto simile a quello fascista si nota anche nella statua dell’astronomo, matematico e politico francese del Settecento Jean Sylvain Bailly, conservata a Versailles.
Fino agli anni Trenta inoltre si tendeva il braccio destro con il palmo rivolto verso il basso nelle scuole degli Stati Uniti durante il giuramento di fedeltà alla bandiera (il famoso “Pledge of Allegiance”). Secondo il ricercatore statunitense Rex Curry, in realtà il saluto adottato dai nazisti arriverebbe da qui: con l’emergere dei regimi autoritari in Europa gli Stati Uniti lo sostituirono con una mano sul cuore per evitare controversie.
Winkler ritiene che la definizione di “saluto romano” sia perciò impropria ed errata, proprio perché divenne popolare nell’arte, nelle opere teatrali e nella politica del primo Novecento grazie a opere come queste, e non a gesti riconducibili all’antichità classica. Nel cinema italiano un primo “saluto romano” si vide in Cabiria di Giovanni Pastrone (1914), considerato il più grande colossal del cinema muto italiano, di cui peraltro D’Annunzio scrisse le didascalie. Nella propaganda fascista si diffuse anche grazie a film come Scipione l’Africano, girato da Carmine Gallone nel 1937, in pieno Ventennio.
– Leggi anche: Il saluto fascista è reato o no?